Terra di vino e di racconti che sanno di vita e di umanità
di Luciana Satta
“L’impegno a custodire nel tempo la memoria di una lunga storia. Una storia che affonda le radici nel passato e che ha segnato la via del ritorno: all’isola, alla terra, alle vigne e al lavoro delle mani che le curano quotidianamente. Nella linea di un cerchio che si chiude è la spirale di un tralcio di vite. Un segno che apre alla ciclicità e all’incessante movimento del vivere e del generare”.
C’è un filo sottile che collega le persone che credono ancora nella meraviglia. Nella bellezza del restare umani. A volte le incontri per caso. Sono anime che lasciano il segno, perché hanno gli occhi che sorridono. Ho conosciuto Stefano Soi nel 2016 e oggi vi racconto la storia del suo sogno diventato realtà nel cuore del Sarcidano, vent’anni orsono. È l’Agricola Soi, a Nuragus. Il rispetto per la tutela della tradizione vitivinicola e la sostenibilità ne sono i valori fondanti. «Alla base c’è l’obiettivo di lasciare il mondo migliore (così come si diceva una volta) rispetto a come l’abbiamo trovato – mi spiega Stefano -. È una scelta etica di coinvolgimento profondo, non un atteggiamento “modaiolo”. Da me ci sono ancora i ricci e i porcospini, le volpi, le api e le vespe: tutti gli animali che dobbiamo in qualche modo proteggere».

Tanto impegno, che ha portato i vini Agricola Soi a ottenere riconoscimenti importanti, dal Gambero Rosso dell’Oscar 2017, ai due bicchieri nelle edizioni 2018 e 2019. Inoltre tutti i vini Soi sono inseriti con tre stelle nella Guida Vini Buoni d’Italia del Touring e tra le dieci eccellenze della Sardegna nella selezione a parte tra le Guide di “La Repubblica”.



«Mio nonno è stato uno dei primi enologi di scuola sarda – racconta –. Figlio di un notaio, aveva intrapreso una strada completamente diversa, perché si era diplomato in Enologia nel 1900. Era un proprietario terriero, ma scelse di lavorare come agronomo per quasi quarant’anni nella colonia penale del Sarcidano, per concludere la sua carriera in quella di Castiadas. Io l’ho visto relativamente poche volte nella vita, perché era già molto grande, dunque il legame che mi ha portato in maniera viscerale e imprescindibile a Nuragus non è nato da un’eredità diretta, ma da una trasmissione d’amore data soprattutto dai racconti di mio padre: ogni fine settimana ci caricava sul suo maggiolino bianco e ci portava a visitare questi luoghi. Tutti i suoi racconti affascinanti mi hanno infarcito di voglia di approfondire il rapporto con questa zona. Ho frequentato il liceo classico a Cagliari, poi Ingegneria, senza grande entusiasmo. Non la sentivo la mia vera strada. Un’estate andai a lavorare in Alto Adige e lì ci fu la classica “folgorazione”, perché mi sono sentito in un ambiente più allegro, più disincantato e più creativo, che era l’ambiente dell’architettura. Era quello che avrei voluto fare. Quindi, a ventidue anni, mi trasferii a Venezia. Abitavo a Padova e viaggiavo con il treno, ho dovuto lavorare per mantenermi».
«Con la campagna avevo solo un rapporto vissuto attraverso la narrazione, era un legame acquisito dai racconti di mio padre. La vera conoscenza è arrivata da mio zio Gino, il fratello di mia mamma. Aveva una tenuta in Toscana, dove mi trasferivo ogni estate, a fine anno scolastico. Lì da ragazzino usavo il trattore, ma la passione per questo prodotto meraviglioso, l’uva che veniva trasformata in vino, mi ha intrigato al punto che dicevo a tutti che da grande avrei voluto fare questo lavoro. Quando mio zio è mancato ho giurato a me stesso che prima o poi avrei voluto ripercorrere le sue orme, avere un piccolo possedimento mio».

Il tuo progetto nasce da un obiettivo: trasformare il concetto di “agricoltura” in “agricultura”? Cosa significa?
«Ci sono lavori che nessuno vuole intraprendere più perché si pensa siano di “categoria inferiore”. Inoltre nessuno si impegna seriamente anche dal punto di vista economico, a impiegare risorse importanti. Può sembrare una cosa quasi ovvia, ma spesso l’agricoltura viene vista come un lavoro di livello “basso”. Ci sono invece figure specialistiche (come il potatore), che potrebbero guadagnare e vivere molto bene tutto l’anno. Il lavoro agricolo ti dà innanzitutto la possibilità di stare all’aria aperta. Nel periodo della pandemia molti di noi hanno riscoperto il piacere di non sentirsi confinati a casa. Noi non abbiamo subito neanche per un giorno questo oltraggio, semplicemente perché avevamo la terra. Eravamo in qualche modo giustificati: potevamo andare in campagna e io quando sono nella mia terra mi sento il re del mondo. Proprio in queste situazioni mi sono domandato più volte perché il lavoro agricolo debba essere considerato come un lavoro di secondo ordine o di bassa qualifica. Questo mi ha sempre urtato».

«Mi sono reso conto che negli ultimi anni tutti coloro che si sono avvicinati all’agricoltura sono spesso “agricoltori di ritorno”. È un concetto che aveva sottolineato l’antropologa Alessandra Guigoni: gli “agricoltori di ritorno” sono persone che, dopo aver conseguito una laurea o un corso formativo qualificato, a un certo punto hanno pensato che le loro mani dovessero essere asservite anche a svolgere un qualcosa di pratico, di materiale. Avevano perso l’uso delle mani, dei piedi, del camminare, che non significa soltanto muoversi, o spostarsi. Ho parlato dunque spesso del concetto di “agricultura”: il campo, la vigna, la cantina, il caseificio, il settore dell’allevamento, delle olive, luoghi in cui materialmente avviene il passaggio dalla produzione, dalla creazione del prodotto agricolo, dell’uva, o del latte, o dell’olio (dunque la cantina, o il frantoio, o l’ovile) potessero diventare luoghi di cultura. Fenoglio definiva la campagna “luogo della parola”, che poi genera cultura, letteratura».
«Mi sono laureato in Architettura e continuo a fare l’Architetto, ma anche il contadino, il vignaiolo. So cosa voglia dire concimare e usare gli strumenti agricoli. Ne sentivo proprio l’esigenza. La campagna è vista (nel migliore dei casi) in modo idilliaco, ma spesso di idilliaco non c’è niente, è un lavoro legato alla produzione di beni primari, senza i quali non ci nutriremmo e non potremmo sopravvivere.
Da quando il vino ha assunto il ruolo di ospite primario nelle tavole, è diventato un prodotto che forse più di tanti altri è riuscito a coniugare questi due concetti di “agricoltura” e di “agricultura”, perché intorno al vino sono sorti movimenti, discorsi, e tutti coloro che si sono avvicinati al vino, da poeti come Rimbaud, Verlaine, lo hanno utilizzato come strumento per elevarsi, non per abbruttirsi, non per scendere in basso. Io ho provato a fare questo percorso, accogliendo le persone, semplicemente raccontando loro quello che è il nostro lavoro».
«Dico con convinzione che mi sento quasi un “presidio territoriale”, perché quando sono arrivato a Nuragus le vigne stavano scomparendo, non c’era più nessuno che le coltivava, se non per fare un po’ di vinello per casa. Invece la vigna è economia e, se guidata in un contesto un po’ più ampio a livello regionale, può diventare un luogo da visitare, così come avviene con i musei. Le vigne del Chianti, del Salento, delle Langhe, sono diventate esempi di “cultura enogastronomica” e hanno offerto lo spunto per fare Festival. Penso “Collisioni”, a Barolo, e a tutti gli eventi che vengono organizzati periodicamente nel Chianti. La campagna è diventata un luogo reale dove ritrovarsi, perché abbiamo spazi ampi, perché non c’è il frastuono della città. Abbiamo la possibilità di pensare, di concentrarci di più. Spesso quando sono in campagna – tranne quando uso il trattore perché non riuscirei a sentire – metto le cuffiette e ascolto musica classica, jazz.
A mio avviso questo è il futuro vero dell’agricoltura: non soltanto luogo di produzione di beni primari, ma luogo di riflessione, di confronto tra il bene prodotto e i fruitori di questo bene che possono trovare un vantaggio più ampio unendo cultura e letteratura».

La tua attività è anche fulcro di incontri, da Mauro Corona e Erri De Luca, entrambi spiriti liberi. Come li hai conosciuti e che cosa avete in comune?
«Mauro è stato il primo con cui ho iniziato un rapporto di fratellanza. Ci chiamiamo “fratellini”, anche se lui è un po’ più grande di me. Ormai ci conosciamo da quasi venticinque anni e siamo diventati inseparabili. Non c’è stato un momento importante della nostra vita che non abbiamo condiviso insieme. Si cresce insieme, si invecchia insieme. Io ho la fortuna di ricevere spesso i suoi manoscritti prima che vengano pubblicati. Insieme a Mauro una sera di tanti anni fa sono andato a Belluno dove c’era una serata dedicata a Erri De Luca, del quale avevo letto solo il primo libro, perché lui non era ancora uno scrittore, era un operaio che cominciava a scrivere. È una persona con cui si è creato un rapporto incredibile, al punto che quando è morta sua mamma lui è venuto a casa mia, sentiva di rifugiarsi in un posto dove nessuno gli facesse domande, lo consolasse in maniera eccessiva, perché è una persona molto schiva, molto particolare. Sono stato più volte a casa sua, ho condiviso in parte anche le sue passioni politiche, anche se all’epoca non ci conoscevamo. Ho creduto che, in qualche modo, il mondo sarebbe potuto essere oggetto di miglioramento. Regolarmente – la gente non lo sa – Erri va in Ucraina per cercare di portare conforto. Sente l’esigenza di un ruolo sociale. Prima di conoscere Mauro Corona e Erri De Luca avevo già la casa piena di libri, da quando conosco loro ancora di più. Sono stato con Mauro una quindicina di volte al Premio Nonino, siamo stati al premio Strega, ho conosciuto grazie a lui quattro premi Nobel, siamo stati a Torino, a Francoforte, a Gavoi… ho fatto con loro delle cose meravigliose, fino a quando ho avuto il coraggio (e spesso questo mi manca) di separarmi da quel mondo. Abbiamo vissuto un periodo magico, però poi il richiamo della terra è stato forte, ci vediamo periodicamente e non più a livello settimanale, come accadeva prima. È un rapporto meraviglioso (sono citato anche nell’ultimo libro di Erri, Spizzichi e Bocconi, n.d.r.) e a volte Mauro mi ha usato come personaggio di qualche sua storia. È un rapporto che mi gratifica moltissimo, penso anche di non meritarlo, ma è andato così».

Ciò che ti ha spinto è la passione per l’edilizia biosostenibile. L’uso della pietra, il legno, l’acciaio e gli isolanti sostenibili come la lana di pecora e il sughero. Appartenenza e rispetto: è la tua filosofia. Che significato hanno queste parole per te? Come le applichi nella tua azienda, nel tuo modo di vivere?
«Ho sempre creduto molto nel recupero dei materiali. La cantina è stata costruita con questi principi: materiali che non fossero da smaltire, ma che, alla fine del loro percorso, fossero recuperabili. A Nuragus sono stato il primo, dopo sessant’anni, ad utilizzare la pietra come materiale da costruzione. Molti usavano i blocchetti, o altri materiali. Avendo studiato a Venezia, dove c’è un’attenzione particolare, mi sono specializzato e ovviamente, quando si è trattato di costruire la cantina, ho adottato i materiali tra i più puliti: l’isolamento è fatto con il sughero, i muri con Gasbeton (materiale completamente riciclabile). I muri hanno circa sessanta centimetri di spessore, quindi non serve usare tanto la climatizzazione, quanto l’intervento passivo del materiale che ti permette di non fare entrare il caldo o il freddo. Inoltre noi in vigna non usiamo diserbanti, i pali della vigna sono tutti in legno e quando marciscono vengono sostituiti. Hanno una loro motivazione di tipo sostenibile, oltre che estetica.
Un altro aspetto importante, che ci tengo sempre a sottolineare quando parlo della vigna, è che noi abbiamo seguito la tradizione di fare le vigne in aridocoltura. Prendono acqua quando piove, ma abbiamo lavorato con gli innesti sulle viti americane, che sono viti selvatiche (non abbiamo preso le barbatelle già pronte) e queste hanno approfondito le radici, hanno fatto sì che scendessero fino in fondo, quindi anche nelle annate più siccitose la nostra parete verde delle vigne è sempre rigogliosa. Quando abitui le viti ad andare a cercare l’umidità in fondo, loro lo fanno. In campagna i migliori pomodori, i migliori meloni e la migliore uva, viene sempre in luoghi dove l’acqua non viene utilizzata. I noti meloni in asciutto della Marmilla, ad esempio, non ricevono un goccio d’acqua e sono presidio slow food. Ho creduto che la natura non vada troppo manomessa. Se in Sardegna per secoli e secoli hanno fatto degli ottimi vini senza usare irrigazione, c’è un motivo. Questa è la mia filosofia».




«Mi piacerebbe che questo spazio, questa corte in pietra dove si svolge la mia attività, possa diventare un luogo non soltanto di vino ma di racconti. Vorrei utilizzare questo spazio per dire: “Apriamo una bottiglia, mangiamo qualcosa e però condividiamo con le persone che ancora credono in questo tipo di racconto e che non vogliono soltanto stare attaccati ai cellulari!”. Uso internet e i social network, è inevitabile, ma con parsimonia. Ci sono persone che invece vivono per raccontarsi sui social. Non voglio essere tutti i giorni presente e dire la mia su tutto, per carità! Lo faccio con un compito quasi sociale, adoro l’idea che qualche ragazzo possa trarre spunto dal mio lavoro. Sono felice quando qui arrivano i giovani, è successo con gli studenti dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo di Carlo Petrini».

«Continuo a pensare che in Sardegna non tutto sia perduto. Si tratta di parlare forse con cento persone, di queste quattro ti seguiranno e solo una effettivamente avrà successo, ma io credo che pian piano il nostro territorio stia cambiando, che si stia creando una rete di persone che vogliono restare a stretto contatto con la terra. Non mi interessa l’idea di muovermi per fare turismo, ma per scambiare idee, acquisirle e riportarle qui a Nuragus. La mia officina, il mio bacino deve restare qui, perché mi fa piacere che la gente arrivi e capisca che non è vero che la terra è un qualcosa “da sfigati”, ma è un posto meraviglioso dove si possono raccontare storie. È quello che facciamo quando organizziamo le serate del “Tinello”. A me piace molto che venga raccontato quello che si mangiava un tempo. Da me si fanno i piatti che hanno le radici nella nostra cucina storica. Portare la gente qui, fare trascorrere loro una bella serata con musica dal vivo, raccontare, leggere un brano. Io ho scoperto nella gente che frequenta questi eventi, che preferisco chiamare “accadimenti”, una luce negli occhi. Qui la gente ha il piacere di venire e non se ne andrebbe più. Dobbiamo farlo vivere questo interno della Sardegna. Perché è meraviglioso. Credo che qui si possa vivere, non soltanto sopravvivere».
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