(***Clicca sul video, la musica ti accompagnerà nella lettura)
Video di Rene Caovilla – Diretto da Oliver Astrologo
Silenzio intorno a te. Gli archi intrecciati e i loggiati dei palazzi si riflettono splendenti e vibranti nelle acque della Laguna, nelle pieghe dei calli e nel reticolo dei canali. Davanti a te la Serenissima, l’innamorata segreta di chi la sa corteggiare e quell’impressione sia lì solo per noi. Ti fermi in ascolto.
di Luciana Satta
L’obiettivo di mille fotografi non riuscirà mai a cogliere quello che stiamo vedendo, le parole dei poeti non possono rendere quel momento, quell’attimo, quel raggio di bellezza che ci è riservato e che attendeva solo noi per essere raccolto.
Venezia, incerta fra cielo e terra è lì e, come uno specchio, lascia scoperta la tua anima, ti invita a entrare nel gioco dell’infanzia eterna. Vuoi tuffarti in questo universo di immagini e di colori, dove passato e presente non hanno più confine e si confondono in una danza di chiaroscuri. Il tempo è uno spazio aperto e impalpabile.
Ti prende per mano, ti porta con sé.
Venezia 2001 – ph. Luciana Satta
Ma il tuo sguardo è già lontano, spazia oltre i giardini. Una fila di tartarughe d’oro ti porta ancora più lontano, fino al grande letto. Ti sembra impossibile che quei corpi nascano dalla pietra, ma sei a Venezia, dove tutto è vita e morte al tempo stesso. I loro volti, inesistenti, ti guardano e ti parlano di poesia.
Un uomo è sdraiato accanto a una donna e avvolge il braccio intorno alle sue spalle.
Biennale Venezia 2001 – ph. Luciana Satta
Vorresti fermarti, ma non vuoi che il gioco finisca. I tuoi occhi ti hanno già portata all’interno di una grande sala, dove un uomo su una scala dipinge accuratamente le pareti di nero, mentre nella stessa sala una donna riprende il lavoro da capo e le ridipinge di bianco. Nero e bianco si rincorrono incessantemente: non esiste dolore senza gioia.
Tu cammini e canti, mentre sei già nella stanza accanto.
Scarpe gialle, rosse, blu liberano la tua immaginazione. Vorresti indossarle per sentirti leggera.
Vai alla finestra, guardi fuori, di nuovo verso il giardino. Su una panchina di legno siede quella ragazza. Alle sue spalle un enorme pannello bianco riporta una scritta: “La platea dell’Umanità”. Il suo viso è come un vetro attraverso il quale leggi la scritta: “La platea dell’Umanità”, tradotta in tutte le lingue del mondo. Lei è immobile, lo sguardo assente, fissa un punto preciso nello spazio senza limite, occhi ingigantiti a dismisura, occhi che parlano. Sembra non voglia più alzarsi, andare via. Le siedi accanto e come lei stringi forte le mani ai bordi della panchina.
Accenni un sorriso e ti scatto questa fotografia.
Mentre ti guardo ripenso a quella canzone: “perché sono le sfumature a dare vita ai colori/ e a farci tornare in mente le cose più pure dei giorni migliori”.
“La platea dell’Umanità” Luciana Satta alla Biennale di Venezia, 2001
Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e l’autorizzazione dell’autrice. Non copiare, cita la fonte!
Figlio della Sardegna, sardo e isolano nella fantasia
di Luciana Satta
Figlio della Sardegna, sardo e isolano nella fantasia, con una pittura che accostava allegria a drammaticità, sacro a profano. Colori forti, che Aligi Sassu utilizzava per descrivere il sole del Mediterraneo, gli uomini e le donne, i mari e, immancabili, i cavalli “meravigliosi, furiosi, teneri e soavi”, tema costante della sua opera. Sassu non dimenticò mai l’Isola. Nato a Milano nel 1912, a nove anni si trasferì a Thiesi. Un ritorno alle origini, dopo la parentesi milanese, periodo durante il quale ancora molto piccolo si accostò al Futurismo. E nel decennale dalla sua scomparsa, nel 2010, l’Isola ha reso omaggio al Maestro. Thiesi, paese natale del padre Antonio, lo ha ricordato e dedicato un Museo. Presenti all’inaugurazione, il 23 maggio del 2010, la moglie Helenita Olivares Sassu, il figlio Vicente Sassu Urbina e Antonio Serra, amico e parente dell’artista.
Una collezione permanente a cura di Alfredo Paglione e Silvia Pegoraro (con la collaborazione di Elsa Betti), costituita da centoventi opere grafiche e pittoriche, con una selezione di lavori realizzati fra il 1929 e il 1995. Diverse le tecniche utilizzate per le opere grafiche (1929-1995): dalla litografia alla puntasecca, dall’acquaforte all’acquatinta. Nucleo centrale del Museo le due opere murali “I moti Angioini” e “La Vita e la Natura”, risalenti agli anni Sessanta. Il legame forte con la letteratura si evince dalle venti litografie, acqueforti e acquetinte della cartella “I cavalli innamorati” (edita nel 1973), accompagnate dai versi del poeta Raffaele Carrieri, suo amico. Presenti nell’esposizione di Thiesi anche cinque grandi litografie (“Omaggio alla Sardegna”), con le poesie di Sebastiano Satta. I rossi esprimono l’energia dei cavalli in “Come l’acqua nel fuggire” (1973) e ne “L’apparizione della Fenice” (1987).
E ancora, altre splendide opere di Sassu che si possono ammirare nel Museo thiesino sono “La grande battaglia” del 1987, “Più della luna pesa la criniera” (1973) e “Le puledre dell’isola bianca” (1987). Illustrano infine l’Apocalisse sette opere grafiche. Scrive Simona Campus, curatrice del catalogo della mostra: “Aligi Sassu è il colore. Della Sardegna, del mondo, dell’anima. È il rosso. È il giallo della canicola bruciante sui fichi d’India nel Sulcis e della luce confusa tra i corpi dei partigiani morti ammazzati. È il verde sulla bandiera dei Saraceni conquistatori e di un cavallo immaginato. È il bianco della schiuma del mare e degli abiti femminili nei caffè parigini. È il nero dentro le miniere e della notte sopra Chicago. Sassu ha viaggiato entusiasta, fino in Cina e in Venezuela e in Messico e a Cuba e negli Stati Uniti d’America. Ha scelto Milano per crescere, Maiorca per vivere e per amare. Ma torna sempre in Sardegna. Perché è la terra di suo padre. Perché qui è il fondamento della sua coscienza civile. Perché da qui si spiega il suo istinto per la libertà”.
***Articolo pubblicato per la prima volta nella versione cartacea de “Il Messaggero sardo, i giornali dei sardi nel mondo”, direttore Gianni De Candia, nel 2010, in occasione dell’inaugurazione del Museo Aligi Sassu. Non tutte le opere raffigurate nelle immagini sono presenti nell’esposizione di Thiesi.
Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e l’autorizzazione dell’autrice.
Terra di vino e di racconti che sanno di vita e di umanità
di Luciana Satta
“L’impegno a custodire nel tempo la memoria di una lunga storia. Una storia che affonda le radici nel passato e che ha segnato la via del ritorno: all’isola, alla terra, alle vigne e al lavoro delle mani che le curano quotidianamente. Nella linea di un cerchio che si chiude è la spirale di un tralcio di vite. Un segno che apre alla ciclicità e all’incessante movimento del vivere e del generare”.
C’è un filo sottile che collega le persone che credono ancora nella meraviglia. Nella bellezza del restare umani. A volte le incontri per caso. Sono anime che lasciano il segno, perché hanno gli occhi che sorridono. Ho conosciuto Stefano Soi nel 2016 e oggi vi racconto la storia del suo sogno diventato realtà nel cuore del Sarcidano, vent’anni orsono. È l’Agricola Soi, a Nuragus. Il rispetto per la tutela della tradizione vitivinicola e la sostenibilità ne sono i valori fondanti. «Alla base c’è l’obiettivo di lasciare il mondo migliore (così come si diceva una volta) rispetto a come l’abbiamo trovato – mi spiega Stefano -. È una scelta etica di coinvolgimento profondo, non un atteggiamento “modaiolo”. Da me ci sono ancora i ricci e i porcospini, le volpi, le api e le vespe: tutti gli animali che dobbiamo in qualche modo proteggere».
Stefano Soi nelle sue vigne. (ph. V. Sanna)
Tanto impegno, che ha portato i vini Agricola Soi a ottenere riconoscimenti importanti, dal Gambero Rosso dell’Oscar 2017, ai due bicchieri nelle edizioni 2018 e 2019. Inoltre tutti i vini Soi sono inseriti con tre stelle nella Guida Vini Buoni d’Italia del Touring e tra le dieci eccellenze della Sardegna nella selezione a parte tra le Guide di “La Repubblica”.
«Mio nonno è stato uno dei primi enologi di scuola sarda – racconta –. Figlio di un notaio, aveva intrapreso una strada completamente diversa, perché si era diplomato in Enologia nel 1900. Era un proprietario terriero, ma scelse di lavorare come agronomo per quasi quarant’anni nella colonia penale del Sarcidano, per concludere la sua carriera in quella di Castiadas. Io l’ho visto relativamente poche volte nella vita, perché era già molto grande, dunque il legame che mi ha portato in maniera viscerale e imprescindibile a Nuragus non è nato da un’eredità diretta, ma da una trasmissione d’amore data soprattutto dai racconti di mio padre: ogni fine settimana ci caricava sul suo maggiolino bianco e ci portava a visitare questi luoghi. Tutti i suoi racconti affascinanti mi hanno infarcito di voglia di approfondire il rapporto con questa zona. Ho frequentato il liceo classico a Cagliari, poi Ingegneria, senza grande entusiasmo. Non la sentivo la mia vera strada. Un’estate andai a lavorare in Alto Adige e lì ci fu la classica “folgorazione”, perché mi sono sentito in un ambiente più allegro, più disincantato e più creativo, che era l’ambiente dell’architettura. Era quello che avrei voluto fare. Quindi, a ventidue anni, mi trasferii a Venezia. Abitavo a Padova e viaggiavo con il treno, ho dovuto lavorare per mantenermi».
«Con la campagna avevo solo un rapporto vissuto attraverso la narrazione, era un legame acquisito dai racconti di mio padre. La vera conoscenza è arrivata da mio zio Gino, il fratello di mia mamma. Aveva una tenuta in Toscana, dove mi trasferivo ogni estate, a fine anno scolastico. Lì da ragazzino usavo il trattore, ma la passione per questo prodotto meraviglioso, l’uva che veniva trasformata in vino, mi ha intrigato al punto che dicevo a tutti che da grande avrei voluto fare questo lavoro. Quando mio zio è mancato ho giurato a me stesso che prima o poi avrei voluto ripercorrere le sue orme, avere un piccolo possedimento mio».
Stefano Soi (Agricola Soi)
Il tuo progetto nasce da un obiettivo: trasformare il concetto di “agricoltura” in “agricultura”? Cosa significa?
«Ci sono lavori che nessuno vuole intraprendere più perché si pensa siano di “categoria inferiore”. Inoltre nessuno si impegna seriamente anche dal punto di vista economico, a impiegare risorse importanti. Può sembrare una cosa quasi ovvia, ma spesso l’agricoltura viene vista come un lavoro di livello “basso”. Ci sono invece figure specialistiche (come il potatore), che potrebbero guadagnare e vivere molto bene tutto l’anno. Il lavoro agricolo ti dà innanzitutto la possibilità di stare all’aria aperta. Nel periodo della pandemia molti di noi hanno riscoperto il piacere di non sentirsi confinati a casa. Noi non abbiamo subito neanche per un giorno questo oltraggio, semplicemente perché avevamo la terra. Eravamo in qualche modo giustificati: potevamo andare in campagna e io quando sono nella mia terra mi sento il re del mondo. Proprio in queste situazioni mi sono domandato più volte perché il lavoro agricolo debba essere considerato come un lavoro di secondo ordine o di bassa qualifica. Questo mi ha sempre urtato».
Agricola Soi. Le vigne. (ph. V. Sanna)
«Mi sono reso conto che negli ultimi anni tutti coloro che si sono avvicinati all’agricoltura sono spesso “agricoltori di ritorno”. È un concetto che aveva sottolineato l’antropologa Alessandra Guigoni: gli “agricoltori di ritorno” sono persone che, dopo aver conseguito una laurea o un corso formativo qualificato, a un certo punto hanno pensato che le loro mani dovessero essere asservite anche a svolgere un qualcosa di pratico, di materiale. Avevano perso l’uso delle mani, dei piedi, del camminare, che non significa soltanto muoversi, o spostarsi. Ho parlato dunque spesso del concetto di “agricultura”: il campo, la vigna, la cantina, il caseificio, il settore dell’allevamento, delle olive, luoghi in cui materialmente avviene il passaggio dalla produzione, dalla creazione del prodotto agricolo, dell’uva, o del latte, o dell’olio (dunque la cantina, o il frantoio, o l’ovile) potessero diventare luoghi di cultura. Fenoglio definiva la campagna “luogo della parola”, che poi genera cultura, letteratura».
«Mi sono laureato in Architettura e continuo a fare l’Architetto, ma anche il contadino, il vignaiolo. So cosa voglia dire concimare e usare gli strumenti agricoli. Ne sentivo proprio l’esigenza. La campagna è vista (nel migliore dei casi) in modo idilliaco, ma spesso di idilliaco non c’è niente, è un lavoro legato alla produzione di beni primari, senza i quali non ci nutriremmo e non potremmo sopravvivere.
Da quando il vino ha assunto il ruolo di ospite primario nelle tavole, è diventato un prodotto che forse più di tanti altri è riuscito a coniugare questi due concetti di “agricoltura” e di “agricultura”, perché intorno al vino sono sorti movimenti, discorsi, e tutti coloro che si sono avvicinati al vino, da poeti come Rimbaud, Verlaine, lo hanno utilizzato come strumento per elevarsi, non per abbruttirsi, non per scendere in basso. Io ho provato a fare questo percorso, accogliendo le persone, semplicemente raccontando loro quello che è il nostro lavoro».
La Vendemmia 2020 – Video
«Dico con convinzione che mi sento quasi un “presidio territoriale”, perché quando sono arrivato a Nuragus le vigne stavano scomparendo, non c’era più nessuno che le coltivava, se non per fare un po’ di vinello per casa. Invece la vigna è economia e, se guidata in un contesto un po’ più ampio a livello regionale, può diventare un luogo da visitare, così come avviene con i musei. Le vigne del Chianti, del Salento, delle Langhe, sono diventate esempi di “cultura enogastronomica” e hanno offerto lo spunto per fare Festival. Penso “Collisioni”, a Barolo, e a tutti gli eventi che vengono organizzati periodicamente nel Chianti. La campagna è diventata un luogo reale dove ritrovarsi, perché abbiamo spazi ampi, perché non c’è il frastuono della città. Abbiamo la possibilità di pensare, di concentrarci di più. Spesso quando sono in campagna – tranne quando uso il trattore perché non riuscirei a sentire – metto le cuffiette e ascolto musica classica, jazz.
A mio avviso questo è il futuro vero dell’agricoltura: non soltanto luogo di produzione di beni primari, ma luogo di riflessione, di confronto tra il bene prodotto e i fruitori di questo bene che possono trovare un vantaggio più ampio unendo cultura e letteratura».
La tua attività è anche fulcro di incontri, da Mauro Corona e Erri De Luca, entrambi spiriti liberi. Come li hai conosciuti e che cosa avete in comune?
«Mauro è stato il primo con cui ho iniziato un rapporto di fratellanza. Ci chiamiamo “fratellini”, anche se lui è un po’ più grande di me. Ormai ci conosciamo da quasi venticinque anni e siamo diventati inseparabili. Non c’è stato un momento importante della nostra vita che non abbiamo condiviso insieme. Si cresce insieme, si invecchia insieme. Io ho la fortuna di ricevere spesso i suoi manoscritti prima che vengano pubblicati. Insieme a Mauro una sera di tanti anni fa sono andato a Belluno dove c’era una serata dedicata a Erri De Luca, del quale avevo letto solo il primo libro, perché lui non era ancora uno scrittore, era un operaio che cominciava a scrivere. È una persona con cui si è creato un rapporto incredibile, al punto che quando è morta sua mamma lui è venuto a casa mia, sentiva di rifugiarsi in un posto dove nessuno gli facesse domande, lo consolasse in maniera eccessiva, perché è una persona molto schiva, molto particolare. Sono stato più volte a casa sua, ho condiviso in parte anche le sue passioni politiche, anche se all’epoca non ci conoscevamo. Ho creduto che, in qualche modo, il mondo sarebbe potuto essere oggetto di miglioramento. Regolarmente – la gente non lo sa – Erri va in Ucraina per cercare di portare conforto. Sente l’esigenza di un ruolo sociale. Prima di conoscere Mauro Corona e Erri De Luca avevo già la casa piena di libri, da quando conosco loro ancora di più. Sono stato con Mauro una quindicina di volte al Premio Nonino, siamo stati al premio Strega, ho conosciuto grazie a lui quattro premi Nobel, siamo stati a Torino, a Francoforte, a Gavoi… ho fatto con loro delle cose meravigliose, fino a quando ho avuto il coraggio (e spesso questo mi manca) di separarmi da quel mondo. Abbiamo vissuto un periodo magico, però poi il richiamo della terra è stato forte, ci vediamo periodicamente e non più a livello settimanale, come accadeva prima. È un rapporto meraviglioso (sono citato anche nell’ultimo libro di Erri, Spizzichi e Bocconi, n.d.r.) e a volte Mauro mi ha usato come personaggio di qualche sua storia. È un rapporto che mi gratifica moltissimo, penso anche di non meritarlo, ma è andato così».
Stefano Soi con l’amico Erri De Luca
Ciò che ti ha spinto è la passione per l’edilizia biosostenibile. L’uso della pietra, il legno, l’acciaio e gli isolanti sostenibili come la lana di pecora e il sughero. Appartenenza e rispetto: è la tua filosofia. Che significato hanno queste parole per te? Come le applichi nella tua azienda, nel tuo modo di vivere?
«Ho sempre creduto molto nel recupero dei materiali. La cantina è stata costruita con questi principi: materiali che non fossero da smaltire, ma che, alla fine del loro percorso, fossero recuperabili. A Nuragus sono stato il primo, dopo sessant’anni, ad utilizzare la pietra come materiale da costruzione. Molti usavano i blocchetti, o altri materiali. Avendo studiato a Venezia, dove c’è un’attenzione particolare, mi sono specializzato e ovviamente, quando si è trattato di costruire la cantina, ho adottato i materiali tra i più puliti: l’isolamento è fatto con il sughero, i muri con Gasbeton (materiale completamente riciclabile). I muri hanno circa sessanta centimetri di spessore, quindi non serve usare tanto la climatizzazione, quanto l’intervento passivo del materiale che ti permette di non fare entrare il caldo o il freddo. Inoltre noi in vigna non usiamo diserbanti, i pali della vigna sono tutti in legno e quando marciscono vengono sostituiti. Hanno una loro motivazione di tipo sostenibile, oltre che estetica.
Un altro aspetto importante, che ci tengo sempre a sottolineare quando parlo della vigna, è che noi abbiamo seguito la tradizione di fare le vigne in aridocoltura. Prendono acqua quando piove, ma abbiamo lavorato con gli innesti sulle viti americane, che sono viti selvatiche (non abbiamo preso le barbatelle già pronte) e queste hanno approfondito le radici, hanno fatto sì che scendessero fino in fondo, quindi anche nelle annate più siccitose la nostra parete verde delle vigne è sempre rigogliosa. Quando abitui le viti ad andare a cercare l’umidità in fondo, loro lo fanno. In campagna i migliori pomodori, i migliori meloni e la migliore uva, viene sempre in luoghi dove l’acqua non viene utilizzata. I noti meloni in asciutto della Marmilla, ad esempio, non ricevono un goccio d’acqua e sono presidio slow food. Ho creduto che la natura non vada troppo manomessa. Se in Sardegna per secoli e secoli hanno fatto degli ottimi vini senza usare irrigazione, c’è un motivo. Questa è la mia filosofia».
«Mi piacerebbe che questo spazio, questa corte in pietra dove si svolge la mia attività, possa diventare un luogo non soltanto di vino ma di racconti. Vorrei utilizzare questo spazio per dire: “Apriamo una bottiglia, mangiamo qualcosa e però condividiamo con le persone che ancora credono in questo tipo di racconto e che non vogliono soltanto stare attaccati ai cellulari!”. Uso internet e i social network, è inevitabile, ma con parsimonia. Ci sono persone che invece vivono per raccontarsi sui social. Non voglio essere tutti i giorni presente e dire la mia su tutto, per carità! Lo faccio con un compito quasi sociale, adoro l’idea che qualche ragazzo possa trarre spunto dal mio lavoro. Sono felice quando qui arrivano i giovani, è successo con gli studenti dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo di Carlo Petrini».
L’evento “Il Tinello”, Agricola Soi Nuragus
«Continuo a pensare che in Sardegna non tutto sia perduto. Si tratta di parlare forse con cento persone, di queste quattro ti seguiranno e solo una effettivamente avrà successo, ma io credo che pian piano il nostro territorio stia cambiando, che si stia creando una rete di persone che vogliono restare a stretto contatto con la terra. Non mi interessa l’idea di muovermi per fare turismo, ma per scambiare idee, acquisirle e riportarle qui a Nuragus. La mia officina, il mio bacino deve restare qui, perché mi fa piacere che la gente arrivi e capisca che non è vero che la terra è un qualcosa “da sfigati”, ma è un posto meraviglioso dove si possono raccontare storie. È quello che facciamo quando organizziamo le serate del “Tinello”. A me piace molto che venga raccontato quello che si mangiava un tempo. Da me si fanno i piatti che hanno le radici nella nostra cucina storica. Portare la gente qui, fare trascorrere loro una bella serata con musica dal vivo, raccontare, leggere un brano. Io ho scoperto nella gente che frequenta questi eventi, che preferisco chiamare “accadimenti”, una luce negli occhi. Qui la gente ha il piacere di venire e non se ne andrebbe più. Dobbiamo farlo vivere questo interno della Sardegna. Perché è meraviglioso. Credo che qui si possa vivere, non soltanto sopravvivere».
La voce del polistrumentista Gavino Murgia e il fuoco tra i monoliti
“Dietro ogni angolo, dietro ogni pietra di questo meraviglioso giardino c’era una sorpresa, una storia da raccontare e aveva una pietra da farmi sentire e una sonorità diversa, una modalità diversa nell’accarezzarla, nel percuoterla, nel suonarla. Abbiamo fatto tante cose insieme, in giro per la Sardegna, per l’Italia, per l’Europa e quindi abbiamo condiviso tanti momenti meravigliosi. Io ho imparato tantissimo da lui. Pinuccio è espressione diretta della pietra. Lui era, è un artista straordinario, senza tempo e ha lasciato un’impronta straordinaria, incredibile. Una modalità primordiale, usare la pietra come un litofono. Forse nella preistoria il primo strumento utilizzato dall’uomo a parte la voce, è stata la pietra”.
(Gavino Murgia ricorda l’amico Pinuccio Sciola, il maestro delle pietre sonore, 29 maggio 2022 Festival Sant’Arte, San Sperate)
Le sculture del Giardino Sonoro di Pinuccio Sciola, a San Sperate (Sardegna)
Nello studio dei Bertas (ph. Luciana Satta per rivista “Ieri Oggi Domani”)
Articolo pubblicato il giorno 14 febbraio 2022 sul numero 31 della rivista “Ieri Oggi Domani”. È il frutto di una bella chiacchierata che ho avuto l’onore di avere con i Bertas nel gennaio 2022. Un lungo racconto per aneddoti, un’altra storia scritta che ho fissato nella mia agenda e nel mio recorder ma, soprattutto, nella memoria.
Nello studio dei Bertas (ph. Luciana Satta per rivista “Ieri Oggi Domani”)
Grazie alla mia redazione, a Benito Olmeo, amico e instancabile sognatore, a Francesca Arca, Daniele Dettori, alla rivista “Ieri oggi Domani” che racchiude tutto ciò che sono e che amo fare: esprimere me stessa raccontando storie.
Grazie al caro Franco Castia, ai Bertas, Mario Chessa, Marco Piras, Enzo Paba , fuoriclasse della musica, Signori di altri tempi.
È il simbolo della città e dell’identità popolare sassarese. Un luogo da preservare che racconta un passato che esiste solo nella memoria. Dalla lunga rampa di scale settecentesca che fiancheggia la Chiesa della Santissima Trinità le donne scendevano in gruppo, intonando i canti popolari. Poi raggiungevano il Lavatoio, adiacente alla storica Fontana del Rosello, per raccogliere l’acqua con le brocche e per lavare i panni. Quello delle lavandaie (“labadóri”) non era un semplice e faticoso mestiere femminile, svolto dalle madri e dalle figlie, o dalle professioniste, spesso nubili o vedove, che venivano retribuite dai signori per fare il bucato. E la valle del Rosello era l’essenza dell’identità popolare. Era un luogo dove si instauravano relazioni sociali e dove, per tutto il Medioevo e i primi anni del Novecento, gli acquaioli, i trasportatori di acqua (“carraióri”) si ritrovavano per attingere l’acqua per poi trasportarla nelle case servendosi degli asini e di appositi contenitori detti “mizini”.
Veduta dal ponte di Rosello. Ph. Luciana Satta
Il Lavatoio è il simbolo della città di Sassari, insieme alla Fontana del Rosello. Si trovavano fuori dall’antica cerchia muraria della città. Oltre a rispondere alle esigenze di vita quotidiana, furono e restano opere monumentali di inestimabile valore e fascino.
Video Turismo Sassari
Della Fontana si ha testimonianza già nel 1295: negli Statuti sassaresi veniva chiamata Gurusele o Gurusello. È un monumento unico in Sardegna, costruito secondo lo stile tardo-rinascimentale, opera delle maestranze genovesi che lo realizzarono tra il 1603 e il 1606. L’acqua sgorga copiosa dalle dodici bocche (“cantaros”), otto maschere leonine e quattro teste di delfino, e dalle statue che rappresentano le quattro stagioni, collocate ai quattro angoli. Ercole con la pelle del leone, l’autunno, il vecchio che dorme, l’inverno, la fanciulla con una ghirlanda fiorita, la primavera, la donna con un fascio di spighe, l’estate. Insieme all’acqua erano l’espressione allegorica dello scorrere del tempo. In alto le torrette e i due arconi incrociati sulla Fontana sostengono la statua del martire turritano San Gavino a cavallo, copia dell’originale.
San Gavino a cavallo. Fontana di Rosello. ph. Luciana Satta
L’esistenza dell’antico Lavatoio è invece documentata in un’incisione del 1849. Si sviluppa in lunghezza ed è caratterizzato dalle due lunghe vasche con due canali ai lati, che fanno defluire l’acqua in un condotto scavato nella roccia. In passato la copertura a capriate di legno non esisteva. Fu costruita nel 1905, per riparare le lavandaie dalle intemperie. Loro portavano i panni nelle ceste e, giunte al Lavatoio, passavano sui tessuti il detergente che un tempo veniva utilizzato per sgrassarli e disinfettarli, la lisciva, ricavato dalla cenere del camino. Altre volte, utilizzando grasso animale o vegetale, realizzavano il sapone.
Quindi strofinavano i panni e li battevano sulla pietra, li strizzavano aiutandosi a vicenda e li mettevano ad asciugare. Attraverso “li ciarameddi”(i pettegolezzi), le donne si raccontavano gli avvenimenti che coinvolgevano la comunità ma, soprattutto, trascorrevano il tempo in compagnia, alleviando così le fatiche di un lavoro molto duro.
La festa dei Candelieri.2018 ph. Luciana SattaL’abito di sassari. Ricostruzione. (in foto Luciana Satta e Maria VInci) ph. Mario BianchiPianta della Città di Sassari, esposta a Palazzo di Città. Ph. Luciana SattaLa fontana di Rosello. Particolare. Ph. Luciana SattaLa fontana di Rosello. Particolare. Ph. Luciana SattaLa Fontana di Rosello. Ph. Luciana SattaSan Gavino a cavallo, particolare della fontana di Rosello. Ph. Luciana Sattaph. Luciana SattaDal festival delle Bellezze 2018Gli stemmi esposti a Palazzo di Città, Sassari ph. Luciana Satta
Quella musica che ti costringe a guardare dentro te stesso
di Luciana Satta
Un tuffo nella memoria. Immergersi in un mondo sconfinato che racconta di me, di te, di tutti noi. Quello che siamo stati, quello che siamo e chi saremo poi…
È la nostra infanzia, è quel film che sentivi in sottofondo quando gli adulti restavano ancora in piedi, a tarda sera, a guardare l’ultimo film alla televisione. E tu dalla stanza ascoltavi rapito quella musica struggente di “C’era una volta in America”, il film diretto da Sergio Leone e interpretato da Robert De Niro, Elizabeth McGovern e James Woods. È il 1984. Scorrono le scene di David “Noodles” Aaronson, i suoi amici e le loro vicissitudini tra Manhattan e e New York. Non esiste al mondo qualcosa di simile a quella nostalgia. Perché quella musica evoca immagini.
Non importa se ancora non sei venuto al mondo, se tu sei del 1975 e quel film storico diretto da Sergio Leone è del 1964: quel fischio inconfondibile ti resterà addosso, sotto pelle. Basterà solo un accenno alla colonna sonora e “Per un pugno di dollari” entrerà prepotentemente nella tua testa, ti verrà a cercare, da lì al resto dei tuoi giorni non ti lascerà più. “Perché – diceva lui – La musica esige che prima si guardi dentro se stessi, poi che si esprima quanto elaborato nella partitura e nell’esecuzione”.
Morricone ti costringe a guardare dentro te stesso e il film di Tornatore ti scava dentro. Quando i titoli di coda scorrono davanti ai tuoi occhi, li vedi lì tutti insieme tutti i suoi figli: “Il buono, il brutto e il cattivo“, “Uccellacci e Uccellini” , “C’era una volta il West“, “Novecento“, “Gli Intoccabili“, “Nuovo Cinema Paradiso“… “Nuovo Cinema Paradiso“… “Love Theme,” il tema d’amore, la mente vaga. Ogni musica, ogni nota, ti riporta a un profumo, a un’estate, a un paesaggio sconfinato bruciato dal sole, all’eclissi di luna. È la magia del cinema, quando nel buio della sala quella commistione indissolubile di immagini e suoni ti rapisce e ti porta lontano.
Così Ennio Morricone entra nella tua vita e non la lascia più. Da Gianni Morandi a Bruce Springsteen, da Clint Eastwood a Carlo Verdone, a Quentin Tarantino. Tutti concordi nel riconoscere che Morricone sia stato un precursore, “l’inventore di una nuova forma espressiva”. Nessuno più di lui ha sfidato le convenzioni per conquistare a pieno la sua indipendenza artistica e umana. Non si è arreso di fronte a quel bivio che lo pose di fronte a quella che all’inizio era sembrata una scelta necessaria tra la purezza musicale, quella che il suo maestro Goffredo Petrassi ricercava negli allievi, e quella prepotente forza creativa così fuori dagli schemi per quell’epoca e vissuta quasi come un senso di colpa da Ennio. Ma non si possono voltare le spalle alla libertà. E il vero artista è libero.
Eppure l’America non fu generosa con lui, fino a quando nel 2007 è costretta finalmente a inchinarsi di fronte al genio. Così Ennio Morricone stringe forte finalmente ciò che tante volte aveva appena sfiorato ma che da tempo ormai lontano gli spettava. Arriva l’Oscar alla carriera.
Difficile che qualcuno non conosca la sua storia. Per questo bisogna andare al cinema a vedere “Ennio: The Maestro”. di Giuseppe Tornatore. Non è solo la biografia di una leggenda, del compositore, direttore d’orchestra e arrangiatore, di uno dei più grandi compositori per il cinema di tutti i tempi. È un po’ come la Divina Commedia di Dante. Ennio ha raccontato in musica la storia di tutti noi.
Non dimentica mai le ragioni per vivere, il tema dell’identità e della memoria, la solidarietà verso gli altri popoli e lo dimostra con il suo costante impegno civile a favore, soprattutto, di Emergency. Ma Lella Costa, una delle attrici più caratteristiche della scena teatrale italiana, amata dalla critica e dal pubblico per la sua intelligenza e ironia, non dimentica mai, soprattutto, i diritti delle donne, sia sul palcoscenico sia nella vita. «Io sono la mia storia, la mia formazione – spiega – e sono arrivata tardi a fare questo mestiere, perché prima ho fatto il liceo, l’università, la politica. Questo è il mio bagaglio, il mio vissuto, che mi porto addosso e a cui non rinuncerei mai».
Ma ha avuto difficoltà all’inizio della sua carriera?
Come tutti… io ho avuto la grande fortuna di capire che volevo fare il teatro e lo spettacolo dal vivo, tra l’altro facendo l’autrice, quindi non mi sono messa nella competizione schiacciante, divorante dei provini, non ho mai cercato scritture televisive e nemmeno cinematografiche. Per una donna è comunque più faticoso. Io lavoro dall’inizio della mia carriera con una piccola agenzia che è anche la mia casa di produzione, che è di donne, oltretutto, e abbiamo cominciato con un piccolo spettacolo e piano piano siamo andate avanti.
Questo penso sia molto femminile: la capacità di unire concretezza e positività.
Quindi lei pensa che esista la solidarietà tra donne?
La misoginia è una delle armi preferite della cultura occidentale, non vedo perché noi dobbiamo praticarla. È vero che siamo comunque in una situazione di inferiorità, perché dobbiamo conquistarci maggiore credibilità, è ovvio… sono le cosiddette guerre tra poveri… tra noi donne viene incitata la competizione, che spesso sfocia in rivalità, in aggressività. È chiaro che non ritengo che l’appartenenza al genere femminile in sé sia un valore assoluto, però io tendo comunque a privilegiare le donne come interlocutrici e, soprattutto, a trovare le attenuanti, perché credo che per le donne sia comunque più difficile…
In uno dei suoi spettacoli, “Alice una meraviglia di Paese”, ci racconta di una bambina che si sente a disagio, che ha la sensazione di essere sempre o troppo grande, o troppo piccola, o troppo grassa, o troppo magra… sensazioni e timori che ogni ragazza, ogni donna, ha provato nella propria vita.
“O troppo alta, o troppo bassa, le dici magra, si sente grassa, son tutte bionde, lei è corvina, vanno le brune, diventa albina. Troppo educata! piaccion volgari! Troppo scosciata per le comari! Sei troppo colta e preparata, intelligente e qualificata, il maschio è fragile, non lo umiliare, se sei più brava non lo ostentare! Sei solo bella ma non sai far niente, guarda che oggi l’uomo è esigente, l’aspetto fisico più non gli basta, cita Alberoni e butta la pasta. Troppi labbroni, non vanno più! Troppo quel seno, buttalo giù! Sbianca la pelle, che sia di luna Se non ti abbronzi, non sei nessuna! L’estate prossima, con il cotone tornan di moda i fianchi a pallone, ma per l’inverno, la moda detta, ci voglion forme da scolaretta. Piedi piccini, occhi cangianti, seni minuscoli, anzi, giganti! Alice assaggia, pilucca, tracanna, prima è due metri poi è una spanna Alice pensa, poi si arrabatta, niente da fare, è sempre inadatta Alice morde, rosicchia, divora, ma non si arrende, ci prova ancora. Alice piange, trangugia, digiuna, è tutte noi, è se stessa, è nessuna”.
(Tratto dal monologo “Alice una meraviglia di Paese”)
Secondo lei perché le donne vivono questo senso di inadeguatezza?
Lella Costa in “Alice una meraviglia di Paese”
Io penso che si sia marciato su questa ruolizzazione di genere così pesante, proprio per mantenere la stabilità dell’ordine sociale. Le donne vengono costrette a un ruolo che prevede un adeguamento a determinati canoni. Mi vengono in mente, ad esempio, le pubblicità dei detersivi, in cui viene data un’immagine della donna agghiacciante. Sembrano delle pazze, con le croste sui fornelli che bisogna pulire e i bucati che devono essere sempre più bianchi e, ancora, mi ricordo che un po’ di anni fa c’era un uomo che invitava la signora di turno a fare, addirittura, una gita dentro le tovaglie… noi donne dobbiamo liberarci di tutto questo, credo che l’ironia e l’autoironia siano armi indispensabili, però se la competizione deve essere fatta sul bucato più bianco, su come cucini, su come sei fisicamente, è chiaro che ti senti perennemente inadeguata. Però c’è qualcuno che su nostre potenziali insicurezze ci marcia…
Per quanto riguarda la politica… qual è la sua posizione in merito alle quote rosa?
Le quote rosa non mi piacciono pazzamente, però ho anche visto e verificato che se le quote rosa non ci sono le donne spariscono dalle liste elettorali, per cui non bastano, non garantiscono, ma se non altro sono un inizio. Credo anche che una delle cose gravi della politica sia quella di usare le donne come schermo, cioè c’è l’obbligo delle quote rosa, allora noi le mettiamo in lista ma poi non vengono sostenute e, oltretutto, facendo ricadere ancora una volta la colpa su di noi dicendo che le donne non votano le donne. Non puoi per secoli essere trattata come una minusapiens, che sa fare niente, che deve chiedere la delega maschile, perché gli uomini sanno, e poi pretendere che le donne abbiano fiducia nelle altre donne sebbene siano regolarmente sminuite, prese in giro e ridicolizzate.
“Alice” è anche il nome di tante giovani donne che sono «nate quando i loro genitori pensavano che il mondo si potesse cambiare»… lei pensa che ci sia stato un cambiamento riguardo alla parità uomo-donna, o pensa che il cambiamento sia solo apparente?
No, il cambiamento non è apparente, ci sono in corso provvedimenti legislativi importanti. Sicuramente, però, la parità non è stata conquistata del tutto e, soprattutto, non la vedo garantita. Credo che ci siano sempre in atto nei momenti di crisi economica, in questo caso planetaria, dei tentativi di rimandare, di rinchiudere in casa le donne. I segnali sono tanti: c’è meno occupazione? Si mandano a casa le donne, indipendentemente dalle competenze. È spaventoso. Queste sono emergenze fondamentali per la società intera. Sono assolutamente convinta che maggiori diritti e maggiori tutele per le donne siano maggiori diritti e maggiori tutele per tutti. Chi lavora in Paesi più svantaggiati, per esempio in tante zone dell’Africa, dice: “mandare a scuola un bambino significa educare un bambino, educare una bambina significa educare una comunità”… questa è una forza delle donne innegabile. Penso quindi che la parità non sia stata raggiunta, che ci sia un percorso in atto e che mai come in questo momento si debba vigilare perché venga proseguito.
(***Ho visto tante volte Lella Costa a teatro e mi ha sempre affascinato la sua abilità nell’arte della parola. Questa intervista mi fu da lei rilasciata nel 2008. La ripubblico perché le sue parole sono di un’attualità sconcertante e ogni sua risposta è un insegnamento. La scrissi per il giornale on-line donnenews e resta un bellissimo ricordo per me di un’esperienza giornalistica che mi ha dato tanto, soprattutto per tutto ciò che mi ha trasmesso l’allora direttrice della rivista, Rosanna Romano, amica e professionista che considero mia maestra. Le foto sono tratte dal web, purtroppo dopo tanti anni ho perso le mie, n.d.r.).
“Dammi ragioni per vivere”: è la disperazione e la sfida che sale dal mondo delle dipendenze. Mondo X, l’associazione fondata da Padre Salvatore Morittu, nasce come iniziativa dei Frati Minori Francescani di Sardegna e accoglie in Comunità tossicodipendenti e malati di AIDS.
«Mi sono laureato in teologia a Firenze nel 1970 – racconta – e poi i frati mi hanno mandato a studiare al Pontificio Istituto Biblico di Gerusalemme. Rientrato in Italia, mi sono laureato in Psicologia all’Università statale La Sapienza di Roma. Dopo questa esperienza, nel 1978, sono ritornato in Sardegna e ho insegnato Psicologia all’Istituto Magistrale. Proprio in quell’anno il mio confratello francescano padre Eligio Gelmini, il fondatore di Mondo X, aveva incontrato tutti i responsabili nazionali dei frati per illustrare loro la nuova situazione. Disse: “Noi siamo di fronte alla più grande rivoluzione che possa essere mai avvenuta, quella della droga”. Non voleva che i frati perdessero il treno della storia, loro che vivono per i poveri, per gli emarginati, per coloro che fanno fatica a vivere. Ha sollecitato tutti responsabili nazionali a realizzare in ogni loro regione una Comunità con uno o due frati con la vocazione verso questo settore. Paradossalmente la prima che ha risposto è stata la Sardegna». Padre Morittu racconta così l’inizio della sua lunga storia, un percorso di formazione all’inizio travagliato, ma molto significativo. «C’era un responsabile illuminato, padre Dario Pili, il quale mi ha coinvolto. Io trovavo il percorso interessante, ma riconoscevo anche la mia inadeguatezza a lavorare in questo settore, per me del tutto nuovo. Padre Dario mi ha mandato prima in visita e poi a vivere per due mesi in una delle Comunità di padre Eligio, vicino a Milano. Lui è stato molto bravo, perché mi ha messo dentro la struttura come se fossi tossicodipendente, non mi ha fatto sconti rispetto al modo di vivere in Comunità. Dopodiché insieme al responsabile ritennero che ci fossero le condizioni per avviare anche una Comunità in Sardegna. Così è successo, il 26 gennaio 1980».
Il video dell’incontro con padre Morittu e Fra Stefano
«Hanno messo a disposizione – prosegue padre Morittu – il convento di San Mauro, a Cagliari, dotato di un grande orto anche se si trovava in città. Mi aiutavano due ex tossicodipendenti che padre Eligio aveva mandato dalla Lombardia e una suora, con esperienza in una Comunità in Lombardia. Poi sono arrivati i volontari. L’arrivo dei tossicodipendenti, che allora erano soprattutto eroinomani, avvenne subito dopo l’inaugurazione. Nessuno pensava – continua – che per uscire fuori dall’eroina bisognasse fare una vita quasi “monastica”, tra formazione e lavoro, regole e disciplina. All’inizio venivano e andavano via. Poi tutto ha iniziato a funzionare e si è formato un gruppo. Dopo due anni non ci stavamo più. Ho chiesto al vescovo di Sassari una grande casa abbandonata in campagna con dodici ettari di terreno e lui me l’ha data in uso, a Siligo, vicino a Sassari, in località S’Aspru. All’inizio la convivenza era difficile. Dopo un rodaggio di cinque mesi, tutto è andato molto bene. Lì, in quel contesto agropastorale, che io desideravo per la capacità terapeutica, la Comunità si è allargata. Siamo andati avanti affinando sempre più il nostro metodo». «Sono partito – spiega ancora – con il metodo di Mondo X di padre Eligio applicato nella Penisola ma, dopo un paio di anni, ho iniziato con una modalità di interagire tipica di noi sardi, che abbiamo maggiore sensibilità per gli aspetti affettivi, piuttosto che per quelli disciplinari.
Ma c’è una storia particolare di salvezza che Padre Morittu ricorda con affetto: «Un giudice mi aveva particolarmente sollecitato a prendere un minorenne tossicodipendente. Ho accondisceso alla proposta e mi sono fatto carico di questo minore nella comunità di Cagliari. Allora i giovani venivano spesso in Comunità in crisi di astinenza, dunque la prima settimana era la più difficile e io dormivo con loro in una camera a due letti. Questo ragazzo era, appunto, in crisi di astinenza, per cui la notte ho dormito in stanza con lui, ma poi mi sono addormentato. Mi sono svegliato e lui era andato via. Sono uscito a cercarlo ma non l’ho trovato. Le volontarie sono riuscite invece a riportarlo nella struttura. Quando l’ho visto di fronte a me gli ho dato uno schiaffo. Ho alzato il dito e ho detto: “Ricordati che io sono tuo padre”. Questo ragazzo ha avuto un cedimento, come se fosse venuta meno quasi tutta la sua energia. In quel momento ho realizzato: mi sono ricordato che lui era orfano. Questo è stato proprio il mio battesimo nella paternità. Questo ragazzo poi ha continuato il suo percorso, ha superato la crisi di astinenza. Poi è diventato anche un bravo artigiano della pelle».
Per quanto riguarda la diffusione della droga, secondo padre Morittu il fenomeno è peggiorato negli ultimi anni, tra silenzio e indifferenza. «Ci sono famiglie che vivono dagli introiti della droga – dice –. Inoltre si registra un peggioramento anche dal punto di vista delle sostanze, con una grande presenza di eroina, in aumento, il picco della cocaina, le droghe di sintesi come l’Ecstasy. Per non dimenticare la piaga dell’alcolismo giovanile e femminile e delle dipendenze senza sostanza, come la ludopatia. In Sardegna ad aggravare questo quadro – aggiunge – abbiamo le doppie diagnosi, ovvero la concomitanza tra dipendenza dalle sostanze o dipendenze comportamentali e i disturbi della personalità. Inoltre abbiamo il grave problema dei minori che non sanno ciò che consumano, non sanno ciò che spacciano e inoltre vogliono attribuirsi la riscossione dei soldi».
Su un altro tema importante, la diffusione dell’HIV, padre Morittu è chiaro: «Il fatto che esista la cura e che di questa malattia si muoia sempre meno, riduce la percezione di questo grave problema. Un elemento di rischio sono i rapporti sessuali precoci tra adolescenti. Molti di loro, solo se un giorno faranno l’esame all’HIV scopriranno di essere siero positivi. Questo è il rischio che si corre. Siamo veramente preoccupati di questa coltre di silenzio che c’è intorno all’AIDS».
(n.d.r. *Articolo pubblicato nel 2019 sul settimanale “Libertà”, direttore Antonio Meloni.
Le foto e il video risalgono invece alla recente e intensa visita nella Comunità Mondo X, a S’Aspru (Siligo), il 10 dicembre 2021, esperienza che in qualità di docente di Lettere ho avuto l’onore e il piacere di fare con la mia classe 3 V dell’Istituto Agrario Pellegrini di Sassari.
Grazie di cuore a padre Salvatore Morittu, a Fra Stefano, ai loro ragazzi per l’accoglienza speciale e per avere condiviso le loro esperienze di vita, trasmettendo ai “miei ragazzi” tutto quello che non si può insegnare neanche attraverso mille lezioni!
I volti segnati dalla vita si alternano alle immagini della natura, mentre il novantunenne di Baunei Pietro Cabras canta Sa canthone de is bagadias (“La canzone delle nubili”). Poi la voce si disperde nell’eco e diventa vento che soffia forte. È il ritmo dei protagonisti del documentario “Il Club dei centenari”, che racconta le vite dei centenari ogliastrini. Ci sono anche le donne sarde, portatrici di un’eleganza e di valori che ormai si sono persi.
«È un mondo rarefatto – spiega il regista Pietro Mereu, autore del docufilm “Il Club deicentenari”, prodotto da Ilex production grazie al comune di Lanusei, alla provincia dell’Ogliastra e alla Regione Sardegna. Ho voluto raccontare la bellezza della testimonianza dei centenari e delle centenarie utilizzando inquadrature particolarmente curate e un ritmo molto lento».
Perdasdefogu, Villagrande, Arzana, Talana, Urzulei, Villanova e Baunei conservano il segreto della longevità. Un segreto studiato da anni dagli scienziati, che ne hanno ricercato le ragioni nella genetica, nel cibo, nell’ambiente, nello stile di vita degli ogliastrini. Il docente dell’Università di Sassari Gianni Pes ha iniziato a studiare le cosiddette “zone blu” nel 1995. «Abbiamo creato delle mappe geografiche che dimostrano in maniera inequivocabile che la concentrazione dei centenari in questi comuni è superiore non solo ai valori medi europei ma addirittura a livello mondiale», spiega lo studioso.
Resta impressa la scena del documentario che vede protagoniste le centenarie Caterina Murru e Rosa Secci di Urzulei, riprese mentre bevono il caffè e scherzano.«È stato molto difficile entrare in empatia con loro – racconta il regista –. Erano circondate da molte persone e vedevano i corpi esterni delle telecamere… avevano molto pudore… per fare sì che si esprimessero liberamente ci siamo dovuti allontanare dalla stanza». O ancora, la signora Francesca Manca (106 anni) diventa preziosa memoria storica quando ricorda l’assedio di Arzana. Era il 1926: stavano cercando Samuele Stochino, uno tra i più celebri banditi sardi.«L’anno dell’assedio – ricorda la centenaria – eravamo rimasti chiusi tre giorni in casa. Non potevamo neanche andare a prendere l’acqua alla fontana. Poi, dopo tre giorni, ci hanno dato il permesso, ma avevamo sempre un carabiniere che ci scortava. Io andavo con Cecilia Fara che disse, sputando per terra “Siate Maledetti! Andate alla forca!” (ride ndr).
Anche la testimonianza di Gesuina Fronteddu, di Talana, è un documento prezioso per capire la vita semplice di un tempo.«L’acqua la portavamo con una brocca, al nostro rientro dalla campagna con una tinozza grande… poi in cammino filavamo e facevamo la bertula (bisaccia tipica dei pastori) di lana di capra… quindi camminavamo e filavamo in gruppo, ma se capitava si poteva andare anche da sole perché non c’erano pericoli. Si andava sempre alla stessa ora e in gruppo, per la campagna… chiacchiera, chiacchiera».
«Non sono ricchi, ma sono felici, perché hanno famiglie molto unite – conclude il regista – . Nella casa di un centenario devi entrare in punta di piedi, sono persone delicate. Per le famiglie sono come dei gioielli da tutelare. Dovremmo cercare di preservare le zone blu, sono una risorsa e un esempio….. sono portatori di valori che ormai si stanno perdendo… Questa è la bellezza della loro semplicità».
(Alcuni di loro non ci sono più, ma li voglio ricordare pubblicando questo mio articolo. Grazie al regista Pietro Mereu che ce li ha fatti conoscere attraverso il suo bellissimo docufilm “Il club dei centenari n.d.r.)
(*Anno 2017)
La locandina dell’evento “Ogliastra, Isola della Longevità, 2 dicembre – MilanoL’invito – 2 dicembre ore 18, Milano Scalo Lambrate Ogliastra Isola della Longevità
L’amore per la Sardegna attraverso l’arte dei murales
Le sue figure femminili esprimono tanta dolcezza, ma altrettanta fierezza.
Il murales di Pina Monne dedicato a Maria Carta
di Luciana Satta
«Ho sempre messo al primo posto il mio sogno: raccontare l’amore per la Sardegna attraverso l’arte. Ed è quello che faccio tuttora. Ho ricevuto tantissime proposte per potermi trasferire definitivamente all’estero, ma ho sempre rifiutato. Senza la mia Sardegna non sarei Pina Monne muralista». Per lei, che dal 1996 ha realizzato centinaia di murales in oltre novanta paesi dell’Isola, da bambina dipingere e colorare significava tutto. «Ho trascorso la mia infanzia a Irgoli – ricorda –, paese nel quale sono nata. Alla scuola materna la maestra portava me e altri quattro bambini in una sala dove c’era il laboratorio di arte. Lì si dipingevano i cartelloni. Alle elementari la maestra mi fece scrivere un tema, il titolo era: “Cosa vuoi fare da grande?”. Io avevo già chiare le idee, volevo fare l’artista, volevo essere pittrice».
Pina Monne ph. Rosy Brau
Una strada che, inizialmente, non fu compresa dalla famiglia. «Dovevo iscrivermi alle superiori e a casa mia arrivò l’insegnante di educazione artistica per parlare con i miei genitori. Volevo che mi permettessero di studiare l’istituto d’arte, ma loro non vollero sentire ragioni. Mi dissero che dovevo frequentare le magistrali per poter avere un’opportunità di lavoro. Io allora rinunciai a quel sogno e con grande fatica mi diplomai alle magistrali. La vivevo come una costrizione». Ma la passione di Pina Monne per l’arte resta forte, anche quando inizia a lavorare come insegnante in un asilo nido. Cinque anni lunghissimi, trascorsi comunque senza mai abbandonare i pennelli e le tele, fino a quando capisce che la sua strada è un’altra. «Ho detto a me stessa: “Non è quello che io amo fare!”. Poi, nella vita di questa artista straordinaria, arriva la svolta. «Ho scelto di seguire ciò che da sempre desideravo. Ho partecipato a un concorso di murales a Tinnura, l’ho vinto. Da quel momento non mi sono mai fermata, è stato come un decollo e ora mi trovo a volare ad alta quota da tantissimi anni…». Sono trascorsi diciassette anni da allora. Pina Monne, artista eclettica, ceramista, pittrice, di strada ne ha fatta tanta. Un percorso che l’ha portata al muralismo, a raccontare le nostre tradizioni attraverso il ritratto, perché, dice: «Mi piace cogliere l’anima attraverso i visi dei vecchi bruciati dal sole. Basta osservarli. Se li scruti con attenzione riescono a raccontarti tutto quello che vuoi sapere della loro vita, della fatica, del sacrificio. Arrivano alla fine della loro esistenza con una serenità d’animo che oggi molti di noi non hanno ancora raggiunto. In noi c’è una profonda insoddisfazione, mancano i punti di riferimento. Questi anziani riescono, invece, a infonderti ancora sicurezza, certezza». I volti degli anziani e i volti della donna sarda. Le sue figure femminili esprimono tanta dolcezza, ma altrettanta fierezza. Come nell’opera La ragazza di Fonni, olio su tela scelto dalla curatrice d’arte Marta Losignore per la Galleria multimediale Mad di Milano, dove resterà in esposizione per un anno.
«Credo che la donna sarda, soprattutto nella provincia di Nuoro da dove io provengo, abbia veramente grandi doti manageriali. Io ammiro tantissimo questa capacità e cerco sempre di rappresentarle in quella maniera. Grazia Deledda è il simbolo. Era quasi fuori tempo, era molto avanti rispetto alle donne di quel periodo, lei era già oltre… ». Ma il riassunto di tutto ciò che per l’artista di Irgoli rappresenta la donna sarda è la Donna di Oniferi ritratta a cavallo. «Sono legata a tutte le mie opere – afferma –. Se uno le osserva dall’inizio sino alla fine, riesce a capire la mia crescita artistica nel tempo. Ma, se devo essere sincera, mi piace tantissimo il murale che ho fatto a Oniferi… ha una storia importante. Il sindaco voleva che rappresentassi una persona a cavallo e si era partiti dal presupposto che dovesse essere un uomo. Tutti i ragazzi del paese volevano essere scelti. Io, alla fine dipinsi una donna. Aveva perso il marito. Esprimeva una forza interiore che mi colpì tantissimo, era una persona straordinaria, con un animo grande. Un esempio di donna sarda coraggiosa che è diventata insieme padre e madre per i suoi figli. L’ho portata in campagna e abbiamo fatto degli scatti in abito tradizionale. Poi, ho selezionato accuratamente la foto che preferivo per realizzare il murale. I suoi occhi parlavano, raccontavano chi era e cosa aveva dentro».
Pina Monne è anche l’autrice del murale di Maria Carta, a Siligo. «Stavo lavorando a Bessude, ma mi serviva un rullo e non trovai un negozio di ferramenta in paese. Dunque andai nella vicina Siligo, ma trovai il negozio chiuso. Così decisi di fare una passeggiata e giunsi nella piazza. Lì, in un angolo, c’era la piccola statua in bronzo dedicata alla cantante. Poi mi voltai e vidi una parete. Pensai a Maria Carta, alla sua voce, a lei che ha rappresentato la musica sarda all’estero, a lei che amava tantissimo la Sardegna. Mi avvicinai in Comune, chiesi di poter parlare col sindaco, ma non lo trovai. Mi chiamò in seguito e dissi che mi sarebbe piaciuto regalare una grande opera alla memoria di Maria Carta, perché la meritava. Mi portò a casa del fratello della cantante, il quale mi mostrò le foto dell’artista. Tra queste abbiamo scelto insieme quel bellissimo scatto. Ho notato subito quello sguardo. Il sindaco mi ha detto che sarebbe stato bellissimo se fossi riuscita a realizzare il murale dopo tre giorni, in occasione dell’inaugurazione della piazza. Allora lavorai giorno e notte, con i fari puntati sulla parete. Il giorno dell’inaugurazione il murale era pronto».
Ma per Pina Monne il muralismo non è fondamentale solo perché le permette di esprimere attraverso i colori e le figure quello che sente per la sua terra, ma perché «è il momento in cui qualsiasi spettatore si ferma e mi pone delle domande e diventa curioso, si interessa a quello che sto realizzando. Per me quell’attimo è importante: quando c’è il dialogo con quella persona che senti vicina, che non ti conosce. Infatti per me il mio lavoro non è mai motivo di noia, ma di scoperta, di ricerca. Al primo posto c’è passione, il motore che mi spinge tutti i giorni a salire sull’impalcatura e che mi spinge ad affrontare lunghi viaggi». È la grande superficie ad affascinare Pina Monne, quella che all’età di vent’anni l’ha portata a conoscere i muralisti più famosi: Angelo Pilloni, Archimede Scarpa, Luciano Lixi, Pinuccio Sciola, Ferdinando Medda. Da lì è iniziata la sua carriera di autodidatta e anche l’amicizia con i due grandi muralisti Angelo Pilloni e Archimede Scarpa. «Utilizziamo il murale allo stesso modo, non come simbolo di protesta, ma come arredo urbano, per rivalutare le zone deturpate dei paesi». Così le loro opere diventano delle scenografie all’aperto che raccontano in maniera chiara quella che è stata la tradizione del posto. «Così è nato il mio grande amore, che è rimasto latente in me per qualche anno ma poi, all’età di trentatré anni è sbocciato, esploso, con il concorso di murales a Tinnura, da dove sono partita e dove ancora adesso mi ritrovo».
«Ho sempre seguito mio padre. Da ragazzino studiavo e poi venivo in laboratorio a osservarlo mentre lavorava la filigrana. Era uno di quei maestri di altri tempi: dovevi imparare attraverso l’osservazione. Lo guardavo, lo osservavo all’opera e “rubavo i gesti”». Sguardo attento, quello del maestro orafo cagliaritano Pierandrea Carta, mani laboriose di chi si è accostato ai segreti di quest’arte millenaria da bambino, un’arte che non è solo una passione ma un’eredità da conservare e tramandare con cura e amore. Una tradizione di famiglia. «Mi sono sempre piaciute l’arte della filigrana e la vita di laboratorio, inoltre vivevo il vantaggio di avere a casa uno dei massimi esponenti di questa disciplina. Per mio padre il lavoro doveva raggiungere la perfezione tecnica. Mi ha appassionato sempre la ricerca di un’esecuzione che presentasse le caratteristiche degne della filigrana: leggerezza, pulizia dell’esecuzione, rendere le saldature non visibili. Realizziamo il saldante in laboratorio, non compriamo quelli già pronti, proprio perché anni e anni di esperienza ci hanno portati a cercare di raggiungere uno standard elevato di produzione. Io ho imparato così. Papà poi non era una persona facile, quando un lavoro non lo soddisfava te lo diceva anche a muso duro. Ma ho continuato e trasformato la passione in una professione».
Video di Confartigianato Imprese Bergamo
La gioielleria Carta è stata fondata nel 1920 da Francesco Carta, tuo nonno. Qual è la storia della vostra famiglia, come nasce questa passione?
Mio nonno ha iniziato da ragazzino in una bottega di argentieri nel rione vecchio di Cagliari, il quartiere di Castello, e poi ha aperto un laboratorio, in cui hanno iniziato a lavorare degli apprendisti. Mio nonno era un abilissimo incisore, ha realizzato tantissimi stemmi nobiliari di Castello. Tutti i nobili di Cagliari si rivolgevano a lui, anche perché agli inizi del secolo scorso la città era un centro piccolo e mio nonno era diventato punto di riferimento del settore. Mio padre era ragazzino quando ha iniziato a lavorare come apprendista e, dopo la guerra, si è appassionato ancora di più alla filigrana portandola ai massimi vertici. Così anche lui si è affermato per stile e precisione.
Era il 1963 quando ha aperto l’attività, in via Garibaldi, dove siamo presenti ancora oggi. Ha realizzato tante opere, come il noto Rosario esposto nella sala matrimoni del Comune di Cagliari. Invece nel Cinquantasei, nel vecchio laboratorio di via Castello, è stata realizzata l’aureola di Sant’Efisio. L’Arciconfraternita di Sant’Efisio aveva incaricato mio padre di realizzare un’aureola d’oro e lui fu entusiasta di questa proposta. Il 30 aprile del 1956 consegnò l’aureola di Sant’Efisio. Qualche anno dopo gli chiesero di realizzare anche la Palma d’oro che il santo tiene in mano durante la sfilata. Realizzò anche quell’opera.
L’aureola di san’Efisio
Ma come mai secondo te la commissionarono proprio a lui, che cosa aveva in più, quali erano le sue qualità?
Il laboratorio di nonno e di papà era molto conosciuto per la precisione stilistica, per la pulizia delle esecuzioni. Oltre ad essere un grandissimo incisore, nonno aveva appreso tanto dagli argentieri e aveva frequentato una scuola di gioielleria. Per questi motivi aveva un tocco più leggero, dal punto di vista tecnico e pratico. L’aureola di sant’Efisio presenta infatti una serie di incastonature molto rifinite.
Pierandrea Carta e l’Aureola di Sant’Efisio
Hai seguito tanti progetti in giro per il mondo, Quali ti sono rimasti impressi, quali ti hanno colpito di più?
L’esperienza giapponese resterà indelebile nella memoria. Andare dall’altra parte del mondo e affrontare quel tipo di mercato è stata un’esperienza forte, entusiasmante. Ma anche l’esperienza a Barcellona, con l’Istituto orafo, e le mostre a Vienna. È importante confrontarsi con un pubblico che non è il tuo, vedere come riesci ad affascinarlo, a spiegare questa tradizione e la tecnica sarda. Sicuramente lo scambio con il Giappone è stato il più forte.
Vienna. Ph. Nicola Castangia
Come si svolgevano questi eventi? Mostravi l’arte orafa?
In Giappone siamo stati ospiti della Fiera Internazionale di Tokio e lì, all’interno dello stand organizzato da una società di import export di filigrana sard,a facevamo delle dimostrazioni dal vivo. Avevamo un banco orafo e mostravamo quali fossero i processi costruttivi della filigrana. Questa è stata un’idea mia che proviene dall’esperienza con Nicola Castangia delle varie dimostrazioni dal vivo perché ho pensato “In un mercato e in un paese così lontano, molto tecnologico, dove l’artigianato è ridotto veramente all’osso, dobbiamo far capire che tutto quello che viene realizzato, è fatto a mano. Questa è stata, soprattutto nelle prime due Fiere, una mossa vincente perché ha attirato moltissimi visitatori e ha prodotto anche interesse notevole. Difficilmente si sa che cosa succeda dentro un laboratorio orafo, soprattutto per quanto riguarda l’arte della filigrana Questa è sempre una mossa vincente per divulgare qualcosa: mostrarla dal vivo, spiegare come si realizza.
ph. Nicola Castangia
Che cosa hanno apprezzato della Sardegna? Cosa ha colpito particolarmente il pubblico internazionale? Quali tipologie di gioielli?
I giapponesi hanno apprezzato soprattutto la Storia della Sardegna. L’accostamento della storia dell’oggetto alla simbologia che cela. Per esempio abbiamo spiegato che Su Dominu è il gioiello che la mamma dello sposo regala alla nuora nel momento in cui viene accolta in casa. È un passaggio di consegne. Oppure che la Spilla Piccione è la spilla degli innamorati. Spieghiamo sempre che un gioiello sardo ha un valore sociale. Questo li ha affascinati moltissimo e siamo stati lieti di portare l’immagine della Sardegna oltremare. È un prodotto che va raccontato, devi saper spiegare quanta passione c’è, quanta tecnica.
Particolari bicolore
I primi due anni in Giappone ho collaborato anche con un professore di oreficeria dell’Istituto orafo di Tokio, prof. Kavasaki, e ovviamente ci siamo scambiati delle opinioni. Il professore era molto colpito da quest’arte antica, ma così precisa. Quando incontro persone del settore ci tengo molto a scambiare idee su questi gioielli, perché il senso di divulgazione è fondamentale. È un’arte bellissima, che dovrebbe essere tutelata per evitare che si perda, perché ormai c’è la prepotenza della fusione, dei semilavorati e del semi industriale che stanno prendendo piede. È un peccato. Come tutte le professioni artigianali è necessario un apprendistato molto lungo, a volte i riconoscimenti economici non arrivano subito e le spese sono tante.
I lavori di Pierandrea Carta
Ci sono dei giovani che hanno ancora la voglia di imparare e che fanno anche dei sacrifici per apprendere quest’arte così come l’hai appresa tu?
Secondo me siamo arrivati a un punto significativo nella storia della filigrana, a una sorta di spartiacque. Sto ricevendo molte richieste di persone che hanno voglia di imparare. Tempo fa avevo un’allieva, che ora ha aperto il suo laboratorio ad Arbus ed espone in varie parti d’Italia, in fiera a Milano, e sono molto contento. È difficile fare l’apprendistato, ci vorrebbe proprio una scuola, infatti stiamo cercando di portare avanti un progetto per crearne una seria, una vera scuola di filigrana. Il punto è questo: siamo talmente pochi artigiani a realizzare la filigrana a mano che sarebbe indispensabile rigenerare il settore. Quindi ho sposato con grande entusiasmo il progetto della Fondazione Colgni, quando mi ha contattato e mi ha chiesto se volessi fare un apprendistato per una ragazza o un ragazzo sardo. Ho accettato subito volentieri, perché sono necessarie leve nuove e chi ha la passione ha il diritto di continuare. I costi non possono essere un problema, perché questo artigianato è talmente importante dal punto di vista socioculturale che poi alla fine cosa ci rimane? Solo le spiagge della Sardegna? Invece abbiamo delle arti bellissime da tramandare che possono produrre reddito: l’oreficeria, la ceramica, il legno, la tessitura. Ci devono credere le Istituzioni! Facendo sistema, struttura, si risolverebbero tanti problemi della nostra Isola.
***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e l’autorizzazione dell’autrice. Le foto mi sono state gentilmente concesse da Pierandrea Carta e sono di sua proprietà.
“Un viaggio tra le righe e i versi della scrittrice Premio Nobel per la Letteratura“
Toni Servillo legge Grazia Deledda (ph. Luciana Satta)
Sarà quello scenario così unico in Sardegna, con la sua torre che dalla cima del promontorio domina l’antica città di Nora e il mare intorno è una cornice impressionista. Sarà il vento salino che ti accarezza la pelle e la luce del tramonto che ti illumina gli occhi. Sarà l’incanto del Teatro romano, che si apre alla vista tra le rovine dell’antica civiltà fenicio punica, e poi romana. Sarà che La Notte dei poeti del CEDAC festeggia quarant’anni e che stasera uno dei più grandi attori italiani legge Grazia Deledda. Sarà, ma questa è una serata imperdibile. Qui oggi si respira arte. Qui, dove il tempo è sospeso. Silenzio, parlano i poeti.
“Il filosofo ammonisce: se tuo figlio scrive versi correggilo e mandalo per la strada dei monti. Se lo trovi nella poesia la seconda volta, puniscilo ancora. Se va per la terza volta, lascialo in pace perché è un poeta”.
(Toni Servillo legge grazia deledda al teatro romano di nora)
Toni Servillo legge Grazia Deledda (Videoclip di Luciana Satta)La XL edizione de “La Notte dei poeti del CEDAC (ph. Luciana Satta)ph. Luciana Satta(ph. Anna Brotzu)(ph. Luciana Satta)
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Il cartellone
Il XL Festival “La Notte dei Poeti” è organizzato dal CeDAC / Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo dal Vivo in Sardegna con il patrocinio e il sostegno del MiC / Ministero della Cultura, dell’Assessorato della Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport della Regione Autonoma della Sardegna e del Comune di Pula con il contributo della Fondazione di Sardegna e il prezioso apporto di Sardinia Ferries, che ospita artisti e compagnie sulle sue navi.
***un ringraziamento particolare alla cara collega Anna Brotzu, sempre preziosa.