ERRI DE LUCA

“La parola d’ordine di questo tempo? Per me è Fraternità”

“Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.
Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle.
Considero valore il vino finché dura il pasto, un sorriso involontario,
la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano.
Considero valore quello che domani non varrà più niente
e quello che oggi vale ancora poco.

Considero valore tutte le ferite.
Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe,
tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi,
provare gratitudine senza ricordare di che.

Considero valore sapere in una stanza dov’è il nord,
qual è il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca,
la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.

Considero valore l’uso del verbo amare e l’ipotesi che esista un creatore.
Molti di questi valori non ho conosciuto”.

(Erri De Luca, Valore, tratto da Opera sull’acqua e altre poesie, Einaudi, Torino, 2002)

Il mare, la montagna, l’impegno civile. Parole che racchiudono il valore di un uomo. Di uno scrittore, uno dei più grandi della Letteratura contemporanea, che nell’era della tecnologia e dell’intelligenza artificiale non ha mai sostituito la sua penna con la tastiera di un computer. «Ho cominciato a scrivere in adolescenza ma dopo essere diventato un lettore – ricorda –.  Avevo a disposizione la biblioteca dei miei genitori e una predisposizione a starmene in disparte invece che con dei coetanei. Allora è venuta la scrittura, in aggiunta alla lettura come modo di tenermi compagnia. Ho scritto la prima storia a undici anni, raccontava di un pesce. Da allora ho proseguito e ancora oggi considero la scrittura il tempo felice della mia giornata». Il suo stile è ormai riconoscibile e inconfondibile, dal suo primo libro (Non ora, non qui), pubblicato nel 1989 e tradotto in oltre trenta lingue, all’ultimo Le regole dello Shangai, presentato all’ultima Fiera del libro di Torino. È quel modo limpido di raccontare le storie, la cura e la precisione nella scelta dei vocaboli e quella semplicità apparente che ti induce a riflettere, a scavare in profondità e a guardarti dentro. A cercare di andare oltre l’apparenza. Lui che non solo in montagna e in completa solitudine percepisce l’immensità, ma quando ancora una volta tende la mano, al bambino o all’anziano, in mezzo alla gente che soffre. In prima linea, per donare il suo immancabile supporto. In silenzio, senza clamori. Perché la parola d’ordine di questo tempo per Erri De Luca resta sempre e solo una: “Fraternità”.

In un’intervista ha dichiarato: «Non avevo orec­chio per la musica. […] A Napoli era un grande difetto fisico. Me lo hanno cor­retto incul­can­domi musica fino a farmi into­nato. Ma ero anche, di pre­fe­renza, zitto. Allora le can­zoni mi hanno aperto le vie ingol­fate delle corde vocali. Ho impa­rato a par­lare come i bal­bu­zienti: can­tando. Per­ciò la musica mi ha medicato». Quanto è profondo il legame tra la musica e la sua scrittura?

«La musica è con me troppo esigente, se c’è non posso fare altro che ascoltarla. Non la posso usare come sottofondo di un’attività, neanche quando guido, perché assorbe tutta la mia attenzione. Perciò quasi mai ho musica intorno. Mi capita di canticchiare quando sto scalando una parete ma è una tecnica per regolare la respirazione. Nella scrittura che faccio conta invece la voce del personaggio che la sta raccontando. La mia scrittura è orale, la sento nell’orecchio interno mentre la stendo sul quaderno. Io scrivo a penna, non su tastiera».

Lei ha detto: “Oggi il successo viene esposto in tutte le varie gradazioni. Il successo nel mestiere, nell’amore, nello sport. Dall’altra parte ci sono quelli che tentano di sottrarsi da questo chiasso del successo e a consistere in valori più silenziosi, in valori di rinuncia a questa esposizione”. Come vive questa epoca e questa società dove ostentazione e narcisismo sono protagonisti?

«Il successo per me è solo il participio, passato del verbo succedere.  Mi sono successe molte cose impreviste, compresa questa di rispondere a domande di un’intervista. Faccio lo scrittore, un’attività di limitato impatto pubblico, che non mi espone su clamorose ribalte. Se invitato in televisione, vado solo se posso limitarmi a un dialogo con chi conduce la trasmissione, senza dover partecipare di un dibattito e di un battibecco. Non seguo perciò nessun programma di discussione spettacolo. Insomma mi tengo un po’ in disparte, per temperamento».

Il mare e la montagna: due grandi passioni. Cosa rappresentano per lei?

«Sono spazi dove la presenza umana si dirada fino a scomparire. Appeso a una parete verticale riconosco con precisione la mia taglia minuscola nell’immensità del luogo. È il giusto rapporto tra la presenza umana e la grandezza del pianeta. In luoghi affollati l’ambiente finisce sotto i piedi. In mare come in montagna invece è superficie di attraversamento. La cima di una montagna non è arrivo, solo termine di salita prima della discesa. Non è spazio accogliente, non è un parco giochi, al meglio è indifferente, estraneo, ma basta poco, anche un banco di nebbia, a renderlo impraticabile. Non trovo me stesso in montagna, invece perdo questo me stesso che si crede residente e si ritrova in quegli spazi un intruso, un ospite senza invito».

Che significato ha per lei la parola “libertà”?

«Per me consiste nel tenere insieme quello che dico e quello che faccio. Fare in modo che le parole corrispondano a conseguenti azioni. Da questa interpretazione della mia libertà si capisce che nessuna privazione esterna, neanche una prigione, me la può ridurre. In generale individuo la libertà in quella descritta nel libro dell’Esodo, dove un popolo di schiavi si stacca compatto in schiere dalla sua condizione. Ecco che la libertà è un deserto, non un paese di cuccagna, è uno sbaraglio che dura il tempo di costruire una comunità del tutto nuova, nata e svezzata dal deserto e dalla disciplina di un accampamento mobile. La libertà è un’impresa che si rinnova continuamente, non data una volta per tutte. Perciò le democrazie possono rinunciarci, suicidarsi, regredire verso forme di tirannia».

Ho partecipato al soccorso alimentare nei campi profughi. Oltre all’appoggio materiale serviva a quelle persone accampate il conforto di non sentirsi abbandonate. I nostri arrivi in quei campi erano occasione di abbracci, di strette di mano, di festa per i bambini che ricevevano anche quaderni e matite colorate. Riferisco queste piccole cose perché immenso è il bisogno di calore umano in una guerra”. Cosa ha significato per lei incontrare quei bambini, qual è il suo ricordo più vivido?

«I bambini hanno una forza superiore a quella degli adulti. Giocano pure nelle peggiori condizioni, sopportano denutrizioni, si fanno bastare il poco e niente. Dice una frase del Talmùd che è il frutto a proteggere l’albero. Da più di un anno vado con un furgone e un amico nell’Ucraina di orfanotrofi e di posti che ospitano profughi. Ho visto la disciplina di quel popolo messo alle strette, la disciplina dei bambini pronti a interrompere il gioco, attenti a non far chiasso in accampamenti e alloggi di fortuna ricavati in scuole e altri spazi pubblici. Senza andare così lontano, si possono vedere da noi simili bambini che sbarcano sulle nostre rive da scialuppe sgangherate, dopo aver condiviso uno spazio schiacciato e un tempo di sbaraglio in alto mare». 

Che cosa rappresenta la poesia per lei? A quale poeta della letteratura italiana si sente più affine?

«La mia poeta preferita si chiama Marina Zvetaeva, russa. Sono un lettore di poesia del 1900, un secolo che si è potuto esprimere sotto la pressione di enormi avvenimenti, migrazioni di miriadi di esseri umani, guerre mondiali, deportazioni, campi di concentramento. Poco tempo e poca carta per scrivere, e allora la poesia è stata la forma concentrata della letteratura. Ho conosciuto un poeta di Sarajevo negli anni ‘90 della guerra di Bosnia. Durante gli anni dell’accerchiamento si facevano serate di poesia in un seminterrato di notte. Quei cittadini che mancavano di tutto avevano bisogno di sentire parole capaci di sospendere l’oppressione, di far dimenticare per qualche ora la fame, i lutti.  La poesia è stata all’altezza del compito. Lui, Izet Sarajlic, mi diceva che loro, i poeti, avevano fatto il turno di notte per impedire l’arresto del cuore di Sarajevo e dei suoi abitanti». 

In una città che visito per la prima volta assaggio l’acqua di una fontana pubblica e il pane di un forno. Ogni posto distilla la sua acqua e ha le sue notti per cuocere l’impasto” (da Spizzichi e bocconi). Quale piatto le ricorda maggiormente la sua infanzia e chi glielo preparava?

«Il ragù della domenica a casa di nonna Emma, un’intensità di odore e di papille mai più raggiunto, ma indelebile nei miei sensi. In quella tavola chiacchierona si faceva l’improvviso silenzio della pasta al ragù calata fumante nei piatti. Chiudevo gli occhi per concentrarmi nella masticazione, li riaprivo per infilare la forchetta in quel rosso cupo, denso, cotto un giorno e una notte a fuoco minimo».

A Nuragus in Sardegna, dall’amico Stefano Soi ho bevuto latte di capra, pure quello munto fresco in regalo”. Sempre nel suo libro Spizzichi e bocconi ha citato un suo amico sardo, Stefano Soi, che nel corso di una mia intervista ha detto di lei a sua volta: “È una persona con cui si è creato un rapporto incredibile”. Quanto è importante per lei il valore dell’amicizia?

«L’amicizia è un dono, all’inizio del tutto immeritato, come dev’essere un dono. Poi dev’essere custodita, confermata, anche a distanza. Io ne ho perse molte con rammarico e per validi motivi. Oggi è parola inflazionata dall’uso improprio dei canali social. Io ne conservo il significato ristretto e uso per le altre relazioni il termine di conoscenze».

Nel 2011 ha creato la sua Fondazione che porta il suo nome e con cui si prefigge di seguire diversi progetti a sfondo culturale e sociale. Quali progetti le stanno a cuore?

«È un piccolo sodalizio che si regge sul sostegno dei soci e non di istituti pubblici o privati. Non accediamo a fondi. Procuriamo dei contributi agli studi universitari di studenti immigrati, scelti insieme alla Comunità di Sant’Egidio di Napoli, consideriamo i flussi migratori l’avvenimento maggiore della nostra epoca e la più importante esperienza sostenuta dal volontariato italiano, che è un’eccellenza europea».

Lei è una giovane gitana in fuga dalla famiglia per sottrarsi al matrimonio combinato con un uomo anziano, lui è un orologiaio che sta campeggiando sul confine e la accoglie nella propria tenda”. Le regole dello Shangai è il suo ultimo libro. Qual è il messaggio?

«Racconto storie, non voglio usarle per far passare messaggi. Oggi mi sta a cuore un’alleanza tra giovanissimi e anziani, le due fasce di età che sanno guardare al futuro per immaginarlo, non per contemplarlo. La fascia di età adulta è invece ingolfata nel presente, se lo contende e non è capace di intenderlo né volerlo, chiamando emergenza perfino la raccolta dei rifiuti. C’è una incompetenza di gestione adulta che rende necessaria l’intesa tra nipotini e nonni. Ho scritto una storia che riguarda queste due fasce di età».

“Uno vede la vita come un fiume, uno come un deserto,

 un altro come una partita a scacchi con la morte.

Io la vedo sotto forma di un gioco di Shangai fatto da solo”.

(Erri De Luca, Le regole dello Shangai, Feltrinelli, 2023)

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