“Dall’Ucraina per danzare sulle note della libertà”

L’étoile Olga Golytsia

ph. Ksenia Orlova

Tutte le più grandi Ètoile del Mondo hanno danzato almeno una volta su uno dei brani del repertorio classico tra i più celebri e noti della Storia della danza: The Dying Swan, La morte del cigno, con quell’inconfondibile movimento delle gambe basato sul “pas de bourèe suivi” e la precisione nelle movenze delle braccia e delle mani. Ma quelle di Olga Golytsia, prima ballerina dell’Ukrainian Classical Ballet, non sono braccia. Non sono mani. Sono ali. Si alza il sipario. Vederla danzare è dimenticare e ricordare al tempo stesso. Perché con quelle stesse gambe Olga è dovuta fuggire dalla sua terra, l’Ucraina, e con quelle braccia ha protetto sotto le bombe suo figlio undicenne per salvarsi dalla Guerra e andare incontro al suo sogno di libertà. Ha trovato rifugio dai suoi cari, a Francoforte. «Quando è iniziata la Guerra non sapevo affatto cosa fare… ho pensato: “Dove sarà il rifugio antiaereo più vicino?” “Sarà meglio lasciare l’Ucraina o restare?”. Il padre di mio figlio vive a Francoforte. Chiamava costantemente e chiedeva di venire in Germania. Ma all’inizio mi sembrava che la Guerra non potesse essere vera e credevo che tutto sarebbe finito presto. I bombardamenti erano continui. All’inizio stavamo sempre chiusi nel bagno, poi, quando ho capito che non era un posto sicuro, siamo usciti e abbiamo passato la notte nel parcheggio. Due settimane dopo ho deciso di andarmene. Vivo in un quartiere di Kiev, non lontano da Irpin e Bucha… ero molto spaventata. Il nostro viaggio è durato quattro giorni! A Kiev siamo riusciti a prendere solo il terzo treno… c’era molta gente! Erano tutti inorriditi e presi dal panico. Gli aeroporti sono stati bombardati il ​​primo giorno. Abbiamo viaggiato in treno e in autobus fino a Francoforte».

ph. Ksenia Orlova

Olga Golytsia è arrivata poi in Italia con l’Ukrainian Classical Ballet grazie alla rete di solidarietà che ha coinvolto molti Teatri. In Sardegna ha aperto, insieme alle stelle del balletto ucraino, la stagione della Grande Danza del CeDac (l’Ukrainian Classical Ballet raccoglie artisti delle Compagnie ucraine più prestigiose: dall’Opera nazionale al Teatro Taras Shevchenko, dal Teatro dell’Opera e Balletto di Odessa, al Teatro Accademico di Kharkiv fino all’Opera Nazionale di Lviv, n.d.r.). Protagonisti della straordinaria esibizione, al Teatro Comunale di Sassari e al Massimo di Cagliari, i grandi capolavori della storia del balletto, tra spettacolari assoli e passi a due. Al momento dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, la Compagnia era in tournée in Francia. Il tour italiano non era in programma, è stato organizzato grazie all’impegno del teatro comunale di Ferrara.

«Quando è iniziata la guerra in Ucraina non ho pensato affatto al balletto. Pensavo solo a me e a mio figlio, a come sopravvivere… quando, dopo un mese e mezzo di Guerra, mi è stato offerto di andare in tournée, non capivo come fosse possibile! Ma poi ho pensato: “Cosa posso fare di buono per l’Ucraina? Posso aiutare in qualche modo?”. Ho capito come questa potesse essere una meravigliosa opportunità per presentare la cultura ucraina in Italia, per parlare degli orrori della Guerra e di ciò che ho vissuto personalmente. Spero che questi tour abbiano supportato almeno un po’ il mio Paese». Nel mese di marzo 2023 al Comunale di Ferrara è stato proiettato un documentario realizzato da Gianluca Lul e Angela Onorati e prodotto dallo stesso Teatro Comunale nell’aprile 2022, a pochi giorni dallo scoppio della Guerra, durante la presenza della Compagnia ucraina a Ferrara.  Attraverso le parole, gli occhi e l’arte dei ballerini dell’Ukrainian Classical Ballet il documento racconta l’inizio della Guerra.

ph. Andrey Stanko

Come è nato il tuo amore per la danza? Che cosa sognavi da piccola, desideravi diventare una ballerina?

«Avevo cinque anni quando mia madre mi portò in una Scuola di danza per la Propedeutica. All’inizio non mi piaceva molto. Era noioso e doloroso. Ma gli insegnanti dissero che avevo caratteristiche fisiche adatte al balletto. Perciò mia madre ha continuato a portarmi in Studio, anche quando tutti i miei amici hanno smesso di studiare. Poi, all’età di sette anni, sono entrata alla Pavel Virsky Ensemble School, un ensemble di danza ucraino (Pavlo Pavlovych Virsky, PAU, è stato un ballerino sovietico e ucraino, maestro di balletto, coreografo e fondatore del Pavlo Virsky Ukrainian National Folk Dance Ensemble, il cui lavoro nella danza ucraina è stato rivoluzionario e ha influenzato generazioni di ballerini, n.d.r.). Sono persino andata in tournée… e mi è piaciuta molto! A dieci anni sono entrata al Kyiv State Ballet College. Lì hanno instillato in me l’amore per la danza classica. Quando ero una ragazzina, non mi piaceva molto fare balletto. Era un desiderio di mia madre. Ma col tempo mi sono innamorata della mia professione! Sono molto grata a mia madre per avermi incoraggiata a diventare una ballerina».

ph. Ksenia Orlova

Chi sono stati i tuoi maestri di riferimento e le figure del mondo della danza che ti hanno maggiormente influenzata?

«Quando ero bambina non avevo idoli nel balletto. Non mi sono mai ispirata a nessuna. Volevo essere unica e diversa da chiunque altro. Nutro riconoscenza verso i miei insegnanti del College e del teatro, hanno lavorato molto con me. A scuola insegnavano l’accademismo e a teatro la mia insegnante Eleonora Steblyak mi ha aiutato ad aprirmi come attrice. Finora ho lavorato con attenzione e precisione su ogni gesto e movimento».

Hai utilizzato la tecnica dell’osservazione per raggiungere una tale perfezione e grazia?

«Questo pezzo richiede una preparazione speciale. Sembra facile, ma non lo è affatto. La mia maestra mi ha chiesto di andare al lago a guardare i cigni: come nuotano, come si muovono… ci sono tante versioni di questo numero! Io e il mio insegnante abbiamo realizzato Il lago dei Cigni adattandolo alle mie capacità. Lavoriamo sulle mie mani da molto tempo! È la cosa più importante. Abbiamo anche lavorato molto sull’immagine. Cerco di trasmettere la voglia di vivere e la lotta contro l’inevitabile morte».

ph. Oleksandra Zlunitsyna

Che rapporti hai con gli altri ballerini della compagnia? C’è amicizia tra voi?

«C’è un’atmosfera amichevole a teatro. Soprattutto tutti hanno iniziato a sostenersi a vicenda durante la Guerra. Sono molto contenta di aver deciso di tornare a Kiev e all’Opera Nazionale dell’Ucraina».

Che cosa rappresenta la danza per te?

«Amo il balletto, la danza è la mia vita. Non posso mangiare quello che voglio. Non faccio molte altre cose che possono fare persone che svolgono altre professioni. Ma non me ne pento… il lavoro mi porta piacere e gioia! Spero che il pubblico vada via dalle le mie esibizioni con nuove emozioni».

ph. Katerina Kornienko

***l’intervista a Olga Golytsia è stata tradotta dalla lingua Inglese all’Italiano.

***Le foto sono state concesse alla giornalista Luciana Satta dalla sign.ra Olga Golytsia, che ha autorizzato la pubblicazione per lo speciale a lei dedicato. Questo testo e gli scatti non possono essere riprodotti né pubblicati, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autrice che ne detiene i diritti. Il testo e il materiale fotografico sono apparsi sulla rivista Iod (numero di aprile 2023).

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Eravamo Donne. La violenza di genere nel Mito, nella Storia, nell’Arte, nella Letteratura

di Luciana Satta

Dafne, Ipazia, Francesca da Rimini, Giovanna D’arco, Anna Bolena, Indira Gandhi. Gli esempi di donne vittime di femminicidio sono molteplici, nel mito, nella storia, nell’arte, nella letteratura, a dimostrare come il fenomeno della violenza sulle donne affondi le sue radici in epoche lontane.

Donne escluse dalla vita politica, dall’istruzione, private della propria individualità, appendici dell’uomo, incapaci di agire autonomamente.

Nelle Metamorfosi di Ovidio Apollo si invaghisce perdutamente di Dafne. La insegue senza tregua, ma Dafne chiede a suo padre Peneo di essere trasformata in albero d’alloro pur di sottrarsi alla passione non corrisposta. Da quel momento la pianta diventa sacra per Apollo. D’alloro sarebbero stati incoronati in seguito i vincitori e i condottieri. «Se non puoi essere la sposa mia, sarai almeno la mia pianta”. “E l’alloro annuì con i suoi rami appena spuntati e agitò la cima, quasi assentisse col capo”.

Apollo e Dafne

Grande esempio di libertà di pensiero e di emancipazione femminile fu Ipazia d’Alessandria, scienziata e filosofa greca. Le sue parole “Se mi faccio comprare non sono più libera, e non potrò più studiare: è così che funziona una mente libera” hanno fatto la storia.

Risale al 415 la sua uccisione, per mano di fanatici religiosi, in un’epoca fortemente influenzata da Aristotele. Scrive Aristotele: “Così pure nelle relazioni del maschio verso la femmina, l’uno è per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata – ed è necessario che tra tutti gli uomini sia proprio così”.

Ipazia, scienziata e filosofa greca

Nella Grecia delle poleis, la donna era educata alle mansioni domestiche fino ai 13 anni e poi veniva data in sposa. Le donne non avevano il diritto di cittadinanza ed erano escluse dalla vita politica. Alcune tragedie greche lo testimoniano. La donna è istinto, portatrice di affetto.  In un certo senso “pericolosa”, in quanto elemento destabilizzante rispetto all’ordine incarnato dall’uomo. Antigone, ad esempio, viene imprigionata per aver sfidato il re di Tebe, e poi muore suicida; oppure le protagoniste della tragedia “Le Troiane”, di Euripide, il dramma che più di ogni altro mette in scena la violenza contro la donnaEcuba, moglie del re Priamo. Andromaca, sposa del valoroso Ettore morto in duello contro Achille. Cassandra, Figlia di Ecuba e di Priamo. Su ciascuna di loro incombe un destino di dolore: le donne dei vinti diventano bottino di guerra dell’esercito greco vincitore.

Uno degli episodi più significativi della storia di Roma e che mostra la completa subalternità della donna rispetto all’uomo, l’immagine della donna – merce, è il noto Ratto delle Sabine.  Romolo escogita un piano per popolare la città di Roma. Organizza un sontuoso banchetto in onore del re sabino Tito Tazio. Durante la festa alcuni giovani romani rapiscono le donne sabine. Ma nel caos generale è stata per errore rapita anche una donna sabina già sposata, Ersilia. Romolo, primo re di Roma, viene avvertito e rimedia all’errore prendendola in moglie. Una fanciulla poi di nome Tarpea, apre ai sabini le porte della città affinché riescano, alla guida del loro re, appunto, Tito Tazio, a liberare i propri familiari. Il destino di Tarpea è orribile: sarà schiacciata sotto gli scudi dei romani.  Da qui nasce la leggenda sulla cosiddetta rupe Tarpea, rupe dalla quale venivano gettati i condannati a morte con l’accusa di alto tradimento dello Stato. 

È storia nota poi che le donne riescono a fermare i due schieramenti nemici, frapponendosi tra loro. Si giunge così alla pace. Romolo e Tito Tazio regnano sulla città di Roma e i Sabini e Romani si fondono in un solo popolo.

Ca’ Rezzonico – Ratto delle Sabine – Nicolo Bambini

Un interessante approfondimento in tema di femminicidio in epoca romana è certamente quello condotto dalla dottoressa Anna Pasqualini, docente di Antichità romane. La studiosa ha messo in luce una serie di casi di femminicidio nell’antica Roma, attraverso lo studio delle epigrafi latine. La docente, ad esempio, ha svelato dall’analisi di un epitaffio la vicenda di Giulia Maiana, che viveva in Francia, a Lione. L’epitaffio recita così: “Donna specchiatissima uccisa dalla mano di un marito crudelissimo”. 

La letteratura è ricca di esempi celebri di violenza di genere: ad esempio la figura di Desdemona in Shakespeare, che lascia la casa di suo padre per sposare Otello, ma sceglie di non chiedere a suo padre il consenso per sposare il Moro di Venezia, decide in autonomia, per poi finire uccisa per mano del suo stesso marito, accecato dalla gelosia.

E poi proseguendo nell’analisi di esempi celebri, non possiamo naturalmente dimenticare Dante e il canto V dell’Inferno, il noto canto di “Paolo e Francesca”. Al v. 106 Francesca da Rimini racconta a Dante: “Amor condusse noi ad una morte”. Figlia di Guido da Polenta il Vecchio, signore di Ravenna, Francesca andò sposa al rozzo e deforme Gian Ciotto Malatesta, signore di Rimini, dal quale ebbe una figlia. Innamorata di suo cognato, Paolo Malatesta, fu con lui uccisa dal marito, tra il 1283 e il 1286. L’autore inserisce Paolo e Francesca nell’Inferno perché mentre per la società del tempo, per la chiesa, il peccato di adulterio viene condannato, Dante sembra avere compassione di lei e in un certo senso la assolve. Anche se in realtà alcuni ritengono che il termine pietà usato da Dante, non indichi “compassione, ma turbamento angosciato.

Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende,

prese costui de la bella persona

che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende”.

Paolo e Francesca, Dante Inferno, Canto V

Come dimenticare poi il dramma di Anna Bolena – uno dei più efferati femminicidi della storia. Seconda moglie di Enrico VIII, fu accusata dal marito di presunte infedeltà coniugali e condannata a morte.  In segno di clemenza il re optò per decapitazione in sostituzione della la condanna al rogo, al posto di quella per, dunque permise che venisse usata la spada e non la comune scure. La spada, arma più nobile, degna di una regina. Quel mattino il sovrano andrà a caccia con la corte, il giorno dopo si fidanzerà con quella che diventerà poi la sua terza moglie.

Anna Bolena

Donne – streghe. Tra il XV e il XVIII secolo dilaga in tutta Europa per ben quattro secoli la fase più violenta della cosiddetta Caccia alle Streghe. Inizia in Germania e in Italia e si espande poi rapidamente in Francia, in Inghilterra, nel nord Europa, in Spagna. Esempio su tutti della fine terribile a cui venivano destinate le donne, fu Giovanna D’Arco, l’eroina nazionale francese condannata al rogo a soli 19 anni. La “pulzella d’Orleans”, nella Guerra dei Cento Anni porta le truppe francesi alla vittoria contro l’assedio degli Inglesi. Ma viene catturata e venduta agli inglesi e processata per eresia. Ma nell’Ottocento l’attivista americana per i diritti delle donne Matilda Joslyn Gage avanza per prima la tesi che la caccia alle streghe fosse in realtà strumento di repressione e sottomissione delle donne.

Il mondo dell’arte racconta da secoli la violenza di genere. Ci restituisce, ad esempio, la storia di Artemisia Gentileschi, talentuosa pittrice del Seicento. La sua attività inizia nella bottega del padre e lì termina, in seguito alla violenza di Agostino Tassi, suo maestro di prospettiva.  devono subire pesanti condanne morali, i metodi inumani del Tribunale dell’Inquisizione, come la terribile tortura della “Sibilla”, alla quale la pittrice fu sottoposta.

Artemisia Gentileschi

E ancora il ritratto di Costanza di Gian Lorenzo Bernini immortala quel volto di donna nella sua bellezza eterna. Il volto di una donna ritratta in un momento d’intimità, in abiti semplici. Costanza era moglie dello scultore lucchese Matteo Bonarelli, collaboratore di Bernini alla fabbrica di San Pietro. Quando si conoscono, nel 1638,  Costanza ha 22 anni ed è sposata da quattro, Bernini ha 38 anni. Ma lo scultore vede la donna uscire dalla casa di Luigi, fratello dello stesso Bernini. Gian Lorenzo attua così la sua vendetta: assolda un servo che deturpa per sempre il volto della donna.

Costanza

Gli esempi sono molteplici nel mito, nella storia, nell’arte, nella letteratura. Co dimenticare la figura di una donna coraggiosa, Indira Gandhi,  premier indiano in carica dal 1966 al 1977 – assassinata a Nuova Delhi il 31 ottobre del 1984 dalle sue guardie del corpo di etnia Sikh. Sette proiettili colpiscono l’addome, dieci il petto e altri arrivano dritti al cuore.

“Il lavoro di un uomo è fra il sorgere e il tramontare del sole. Quello della donna non finisce mai”. (Indira Gandhi)

Indira Gandhi

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***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione dell’autrice. Non copiare, cita la fonte!

Vivere per il Cinema CARLOTTA BOLOGNINI

Storia di una famiglia romana che ha lasciato un ricordo indelebile nella Storia del Cinema.

*In occasione del Premio Bolognini che si è tenuto a Roma, pubblico un estratto dal mio libro L’Arte di essere Figli (con un anteprima dell’intervista rilasciata dalla produttrice Carlotta Bolognini il 15 luglio del 2022) e vi racconto del Premio Bolognini – Anni D’oro del Cinema a cui ho avuto l’onore di partecipare venerdì 31 gennaio 2025.

di Luciana Satta

 

La voce narrante di Giancarlo Giannini a raccontare un tempo che non c’è più. Sul grande schermo scorrono le immagini di chi quell’epoca d’oro del Cinema italiano l’ha vissuta con gli occhi di un bambino: Renzo Rossellini, Ricky Tognazzi, Simona Izzo, Fabrizio e Fabio Frizzi, George Hilton, Danny Quinn, Alessandro Rossellini, Vera Gemma, Francesco Frigeri, Claudio Risi e tanti volti ancora, “Testimoni del tempo, del tempo dei nostri padri”.

 

 

Questa è la storia della produttrice cinematografica Carlotta Bolognini. Della sua infanzia trascorsa a “respirare Cinema” con suo padre Manolo, produttore cinematografico e con suo zio Mauro, regista. Figli del Set è il docufilm tratto da una sua idea per la regia del catanese Alfredo Lo Piero in cui ricorda la sua storia di figlia d’arte cresciuta sui set cinematografici. Un invito a cena nato dalla decisione di rivedere i suoi amici d’infanzia, i figli d’arte. Seduti intorno a un tavolo, con suo padre Manolo, nel suo film rievoca con nostalgia e attraverso foto, filmati, testimonianze e racconti, cinquant’anni di storia del Cinema. Una macchina dei sogni che andava dritta al cuore e alla testa degli spettatori. «Eravamo una famiglia molto legata – racconta – . Mio papà e mio zio non solo erano fratelli, ma i migliori amici l’uno dell’altro. Mio zio Mauro è stato un secondo papà per me e per mio fratello Andrea. Quando non c’era lui, c’era zio. Era un rapporto bellissimo». «Figli del set è nato dalla nostalgia che avevo del set e di tutte quelle persone che avevo conosciuto e che, purtroppo, non ci sono più. Mio papà me lo sono goduto fino al 2017, perché è morto a novantadue anni, ancora superattivo, stava preparando il Ritorno di Django, probabilmente il suo film prediletto. Zio Mauro invece purtroppo è scomparso nel 2001, dopo cinque anni di Sla, una malattia terribile».

Il docufilm ha partecipato come evento speciale al Giffoni Film Festival a Taormina, encomio del Presidente della Repubblica Mattarella, ventesimo su centoventuno ai David di Donatello, evento al Festival di Taormina.

 

 

Quello che mi colpisce maggiormente di Carlotta Bolognini è la sua straordinaria umiltà e dolcezza, doti che rendono difficile credere di essere di fronte a chi ha ricevuto tutti questi riconoscimenti: Premio “Donna che fa la differenza 2014”, in Campidoglio; Premi “Gianni Di Venanzo”, “ITFF international Film Festival”, “Premio Circeo”, ” Musa d’argento”, “Dea alata” a Venezia”, “Premio alla memoria Mauro Bolognini”, “Premio alla memoria Manolo Bolognini”, “Premio CortoDino Film Festival”, “Premio speciale Cinema, l’eco del litorale Anzio”, “Premio speciale Le donne nell’Arte”, “Premio Raf Vallone”, “Premio S.Te.P Festival, Teatro”. Tra questi, anche il Premio Apoxiomeno a Forte Dei Marmidove si è svolta la XXIV edizione del Premio internazionale Apoxiomeno, prestigiosa manifestazione promossa dell’International Police Association (Ipa) in collaborazione con l’Associazione Arte di Apoxiomeno.

«Essendo nata sul set, era quasi inevitabile – racconta -. Mio papà si è sposato mentre stava realizzando Il generale Della Rovere (1959, regia di Roberto Rossellini, n.d.r.), con Vittorio De Sica, al Teatro 5 degli Studi di Cinecittà a Roma. Ha detto: «Scusate, mi assento due o tre ore e torno!». È andato a sposare mia mamma e sono tornati al Teatro 5. Quindi io e mio fratello siamo nati e cresciuti sui set. Il mio primissimo film, è stato Django. Avevo cinque anni e una grande voglia di lavorare. Stando sul set ero la mascotte della troupe, la piccolina che saltava da un reparto all’altro, andavo al trucco, al parrucco. Mi infilavo in mezzo ai costumi e nelle ceste. A cinque anni dicevo: «Papà ma io voglio lavorare!». E lui: «Ma dove vai che sei piccolina!». Invece poi mi mise accanto (probabilmente per farmi stare buona) la segretaria di edizione, Patrizia Zulini, e mi raccomandò di stare attenta a tutti i particolari e di controllare se fossero presenti degli errori. Da lì ho ereditato la precisione nel lavoro, sto sempre molto attenta agli sbagli e che tutto sia collegato».

 

 

«Mio zio mi teneva tra le braccia spesso affinché controllassi quando era in moviola
(è il nome di un sistema elettromeccanico utilizzato per la visione rallentata di filmati, n.d.r.), davanti alla mitica Catozzo  (un tipo di giuntatrice specifica del montaggio dei film inventata da Leo Catozzo e utilizzata dai montatori cinematografici di tutto il mondo, fino all’avvento del montaggio digitale, n.d.r.). Ho da sempre avuto questa “febbre”. In Figli del Set ho voluto la stessa segretaria di edizione di Django. È stato il suo ultimo lavoro nel cinema, siamo ancora amiche».

 

ph. Giancarlo Fiori

 

«Del Cinema del passato mi manca tutto. Dalle persone al modo di lavorare e di filmare… il digitale ha tante convenienze, opportunità, agevolazioni, però la pellicola aveva un altro sapore, c’erano macchine enormi che venivano sollevate da tre macchinisti. Era tutto più artigianale, con le scatole delle pizze si facevano i portaceneri! (ride, n.d.r.). Adesso è tutto digitale. Nell’ultimo corto che ho realizzato abbiamo girato in una stanza dove c’erano i monitor, apparecchi sofisticati. Non si vive il set. Un tempo era un Cinema di tipo artigianale, stavamo tutti insieme».

 

 

Quali sono i valori più grandi che ha ereditato da suo padre e da suo zio, che le restano e che porta sempre con sé?

«L’onestà sempre, in tutto, il rispetto verso gli altri e verso il lavoro degli altri. Il riguardo per se stessi, per la famiglia, per gli amici. Zio aveva un grande rispetto per l’amicizia. Zeffirelli e Tosi erano suoi amici. 

Valori rarissimi in quest’epoca…

Purtroppo sì, ma io dico sempre che preferisco “mangiare pane e cipolle”, ma rimanere pulita, corretta, onesta. Fino all’ultimo».

Una storia immensa, quella dei Bolognini, raccontata in Compagni d’arte, il nuovo docufilm diretto da Carlotta Bolognini e Fabio Luigi Lionello presentato a Roma lo scorso ottobre. Al centro della pellicola i giganti del Cinema italiano, di cui non si deve perdere memoria: da Mauro e Manolo Bolognini a Franco Zeffirelli, da Anna Allegri a Piero Tosi.

 

 

Venerdì 31 gennaio nella Sala della Regina di Montecitorio si è svolta la IV edizione del Premio Bolognini, alla presenza di tanti grandi professionisti del Cinema. «In occasione del centenario del mio papà – ha spiegato Carlotta Bolognini – ho voluto accanto a me un suo amico con il quale ha fatto cinque film: Franco Nero».

«Ho dei bellissimi ricordi di tuo padre – ha detto l’attore Franco Nero – ricordo in particolare la sua voce. Gli dicevo “Ma tu devi fare il doppiatore!”. Lui è stato il produttore del vero Django, nel 1966».

 

ph. Luciana Satta

***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e dell’autrice. Le foto private della famiglia Bolognini sono state gentilmente concesse da Carlotta Bolognini per il mio saggio L’Arte di essere Figli.

https://www.carlodelfinoeditore.it/scheda-titolo.aspx?isbn=9788893613040

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L’essenza di un fotografo. ROBERTO PINTUS

di Luciana Satta

Ci sono storie che vanno urlate. Anche se, come ricorda Roberta – una delle donne protagoniste della mostra e del calendario Le urla delle donne – ideati e realizzati dal fotografo Roberto Pintus – a volte la violenza non fa rumore e non lascia lividi, ma fa comunque a pezzi (*cit. Susanna Casciani).

Donne riprese in momenti di vita quotidiana, durante la loro professione, o nel tempo libero. Di contro, quello sguardo attento, intimo, l’occhio del fotografo che è l’anima della donna, quasi la sua coscienza, sguardo indagatore dietro quell’immagine apparente mostrata agli altri.

L’esposizione fotografica Le urla delle donne è stata patrocinata dal comune di Sassari e inaugurata lo scorso 25 novembre – in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne – a Palazzo Ducale. Ospitata fino al 7 dicembre, è diventata un calendario i cui proventi saranno devoluti al Progetto Aurora. Protagoniste dodici donne. «Con questo mio progetto – spiega Pintus – ho voluto creare dodici racconti che mostrassero cosa si può nascondere dietro il sorriso di una donna. È stato complicato portare a termine tutto il lavoro, ci sono voluti cinque mesi per realizzarlo. Ho scelto donne comuni, non modelle. Alcune di loro non avevano mai posato.

Ero preoccupato, perché non sapevo come il mio progetto potesse essere percepito dall’esterno. Attraverso le mie foto ho voluto mostrare ciò che può celarsi dietro l’immagine di una donna “felice” e mostrare i diversi aspetti della violenza, dalla psicologica, alla fisica, alla verbale».

«Un giorno – prosegue il fotografo – ho assistito ad una scena che mi ha colpito particolarmente e mi ha fatto riflettere. Passavo per strada e si è aperta una finestra, si è affacciato un uomo che, mentre stendeva i panni, si rivolgeva ad una donna insultandola e dicendole: Non sai neanche stendere! Lei piangeva».

Secondo i dati del Ministero degli Interni dal primo gennaio al 22 dicembre 2024 in Italia si registrano 300 omicidi, con 109 femminicidi. 109 vittime sono donne. Un fenomeno che a volte è silente. Perché la violenza non è solo fisica. Rompere il silenzio attraverso il linguaggio per immagini. Sono foto “potenti”, che arrivano come urla inascoltate. Questo è il messaggio di Roberto Pintus.

Un incontro casuale, quello tra Roberto Pintus e la fotografia. Una passione nata nel 2012. I suoi scatti messaggi portatori di cultura, di arte e di sensibilità. Oggi le sue fotografie sono racconti della Stagione teatrale del Ce.DA.C di Sassari, per La Grande Prosa & Danza al Teatro Verdi e al Teatro Comunale.

«Mio fratello, Tore Pintus (*Responsabile Circuito Teatro e Danza Ce.DA.C Sassari), aveva necessità di un fotografo per la Stagione teatrale. Odiavo fotografare a teatro, non era un genere che mi piaceva. Ora lo adoro».

 

«Diversi attori e attrici, come Caterina Murino, Anna Foglietta hanno apprezzato i miei lavori, anche tanti ballerini, alcune Compagnie teatrali hanno scelto le mie foto. Mi manca quando non scatto».

«Sono stato il fotografo ufficiale di Miss Grand Prix, Miss Blumare, per sei anni. Ma sono autodidatta, è nato tutto per passione. Ho iniziato per “gioco”. All’inizio mi piaceva fotografare la natura e i paesaggi. Ho iniziato a fare caccia fotografica, mimetizzato. Ho realizzato la mia prima mostra nel 2014 a palazzo Ducale a Sassari, in sala Duce. Si intitolava Un solo momento».

ph. Roberto Pintus

«Nel 2012 mi hanno chiesto di partecipare ad un Workshop fotografico. Ho conosciuto un gruppo di fotografi che si chiama Riscatto foto libera e ho legato con Giammario Cherchi, che in seguito si è appassionato alla caccia fotografica e all’infrarosso. La mia curiosità per l’infrarosso è nata anni fa. Mi aveva colpito una immagine scattata sul lago di Gusana, realizzata con questa tecnica. Mi piacciono le foto di Simone Pollastrini, siamo diventati amici. Amo particolarmente il filtro 590, che trasforma il colore verde in giallo oro».

«Dicevo: «Non diventerò mai bravo!».

***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e dell’autrice. Tutte foto sono state gentilmente concesse da Roberto Pintus, che ha autorizzato la pubblicazione.

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La voce di FRANCA MASU Dalla terra al cielo

di Luciana Satta

Ci sono donne capaci di illuminare i luoghi solo con la loro presenza. Ci sono artiste che con la loro voce sanno arrivare dalla terra al cielo. La luce, immagine che resta più vivida e impressa nella mente, alla fine di un concerto speciale che ha visto lei, Franca Masu, protagonista raffinata, trasmettere amore, fare vibrare ad unisono i cuori di tantissime persone arrivate anche dal sud dell’Isola fino ad Alghero, nella Cattedrale di Santa Maria, per ascoltarla. Ad accompagnare la cantante algherese, i suoi musicisti Fausto Beccalossi (accordeon), Luca Falomi (chitarra) e Salvatore Maiore (violoncello e contrabbasso). Canzoni che diventano preghiere.

ph. Luciana Satta

 

Protagonista, questa volta, non è il mare, elemento che da sempre la accompagna. Comunque presente, nel suo pensiero sulle migrazioni. Resta il viaggio, l’incontro tra popoli e culture differenti, le mescolanze linguistiche, il desiderio di pace, la fratellanza.

 

video Luciana Satta

 

Da Ennio Morricone a Mia Martini, da Noa a Franco Battiato, fino a Sergio Endrigo. Scelte musicali che segnano la profondità di una serata dove non esiste barriera tra sacro e profano. Si valicano i muri, si abbattono i confini. Volesse il cielo di Mia Martini torna, ancora una volta, con la forza del suo testo, a comunicarci la necessità di comprensione, sapere rinascere anche quando si è spezzati, rifiorire in un tempo malato, in una società ormai confusa. Forse per questo, non a caso, acquista ancora più senso e valore la scelta di cantarla all’inizio, dopo l’apertura affidata ai musicisti e al tema Deborah’s Theme di Morricone, da C’era una volta in America.

 

ph. Luciana Satta

 

È una serata di condivisione, dove tutto è un fluire armonico. I versi nascono da una suggestione, svelano il senso del mistero e arrivano chiari, accompagnati dalla melodia. Nel silenzio quasi surreale il pubblico si fa cullare dalla voce di Franca Masu. Suoni e parole rimettono in ordine emozioni sopite, nel suo abbraccio simbolico all’Umanità.

 

Dalla terra al cielo, produzione di Franca Masu, è uno degli appuntamenti del cartellone del Cap d’Any de l’Alguer 2024/25 del Comune di Alghero.

Allestimento scenico: Tonino Serra, in collaborazione con Marco Velli. Regia del suono e delle luci: Jo Erre di Artesonos.

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“VOLEVO ESSERE UNA FARFALLA”

“La lunga notte” dei Figli d’Arte Medas

di Luciana Satta

La lunga notte di Raffaella. Dove le emozioni e i ricordi vagano, alla ricerca di un “perché”. Dove lei attende che qualcuno un giorno sciolga i nodi della matassa dei suoi pensieri che all’imbrunire si ripresentano per terminare all’alba, quando suo padre la chiama per andare a scuola. Ha dodici anni, Raffaella. Come una farfalla, immagina di volare via. Di librarsi in volo e di liberarsi da quel piccolo mondo che non la comprende, fatto di gesti e parole crudeli che arrivano dai coetanei, ma anche dagli adulti.

Cala la notte e, puntuale, la giostra dei suoi pensieri non si arresta.

Così una ragazzina di dodici anni diventa come uno specchio, di fronte al quale lo spettatore non può riflettere se stesso con indifferenza. Lo spettacolo invita a rompere le barriere del moralismo e dei pregiudizi sul tema dei Disturbi Specifici del Linguaggio. La difficoltà di comunicazione di una ragazza che si affaccia al mondo con difficoltà e sofferenza diventa specchio della mancanza di comunicazione dei nostri tempi. Il non capire e il non capirsi. Respingere ciò che è “altro” rispetto a noi, a causa delle nostre abitudini radicate e strutturate.

L’attrice Sofia Quagliano ph. Luciana Satta

«Vengo qui un po’ come un pellegrino – afferma il regista, Franz di Maggio, al termine dello spettacolo -. Sono ligure, di adozione, poi ho vissuto a Pavia. Per tanti anni ho visto gli spettacoli di Gianluca Medas e ho sognato un giorno di poter lavorare con lui. Un giorno ha fatto una cosa straordinaria: ha preso un aereo, è venuto a Pavia e mi ha chiesto di fare la regia di questo spettacolo. Sono onorato e felice di questa occasione che mi ha dato e onorato e felice di lavorare con queste persone che sono qui accanto, Sofia Quagliano e Nicola Agus».

Il polistrumentista Nicola Agus ph. Luciana Satta

La Lunga notte – Volevo essere una farfalla (di Gianluca Medas, regia di Franz di Maggio, con Sofia Quagliano, musica dal vivo Nicola Agus) è andato in scena sabato 23 novembre ed è inserito nel cartellone del XXXIV Festival Etnia e Teatralità della Compagnia Teatro Sassari.

Un altro momento dello spettacolo al teatro Astra ph. Luciana Satta

 

***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte

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Pensiero libero

di Luciana Satta

(*Associazione GiULia GIORNALISTE UNITE LIBERE AUTONOME)

Arriverà oggi la sentenza della Corte d’Assise per Alessandro Impagnatiello, l’ex barman che il 27 maggio 2023 uccise con 37 coltellate la sua compagna Giulia Tramontano, incinta al settimo mese

 

Video di Luciana Satta

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LILIANA, la figlia di Totò

(Raccontata dalla nipote, Elena Alessandra Anticoli De Curtis)

*Anteprima del III capitolo dell’opera L’Arte di essere Figli

di Luciana Satta

https://www.carlodelfinoeditore.it/scheda-titolo.aspx?isbn=9788893613040

Liliana De Curtis con suo padre, Totò

Liliana e suo padre Antonio. Uno sguardo per capirsi. Un legame che è come una coperta che ripara e protegge in quei momenti della vita in cui si sente freddo. Il prima e il dopo, la vita e la morte, spartiacque tra la presenza e l’assenza di un’artista immenso che rimane, a dispetto del tempo che passa e come in un fermo immagine, nel cuore e nell’affetto del suo pubblico, conquistando così il dono dell’immortalità. Una rete di protezione che, quando manca, lascia un senso di vuoto incolmabile e una struggente nostalgia in Liliana, per quel rapporto così stretto e speciale tra padre e figlia. Questa è la storia di Liliana De Curtis. La racconta per lei sua figlia, Elena Alessandra Anticoli De Curtis, nipote di Totò, erede di una memoria storica custodita negli anni da sua madre (scomparsa il 3 giugno 2022, n.d.r.). […]

Se la vuoi scoprire, continua a leggere il terzo capitolo del mio saggio L’Arte di essere Figli. Con foto inedite e l’intervista esclusiva alla nipote, rilasciata il 1° maggio 2022, quando Liliana De Curtis era ancora in vita. Ha vissuto con la figlia Elena Alessandra, che si è presa cura di lei fino all’ultimo suo giorno). https://www.carlodelfinoeditore.it/scheda-titolo.aspx?isbn=9788893613040

***Questo testo e il materiale fotografico concessi in via esclusiva per specifica pubblicazione non possono essere riprodotti. Non si autorizza alcun tipo di riproduzione o pubblicazione. Ringrazio la sign.ra Elena Alessandra Anticoli De Curtis per l’immensa disponibilità e gentilezza.

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CRISTIANA CIACCI, la figlia di Little Tony

*anteprima capitolo II L’Arte di essere Figli

di Luciana Satta

L’arte di essere figli (Luciana Satta) – Carlo Delfino editore

Cristiana Ciacci da bambina, in compagnia del suo amato padre, Little Tony

«Eravamo simili nell’estro, avevamo entrambi la testa tra le nuvole, un lato artistico, anticonformista, un modo tutto nostro di pensare e di vedere la vita. Camminavamo sempre “sulla luna”. Invece eravamo differenti in altri aspetti del carattere. Papà è sempre stato una persona molto allegra: gli piaceva stare bene, divertirsi, circondarsi di amici e di persone che lo facessero ridere e sorridere. Io invece ho sempre avuto una pesantezza, una tristezza, una malinconia di fondo. Ci siamo scontrati tante volte per questo. Lui avrebbe voluto che fossi più leggera, più simile a lui, più cittadina del mondo, libera, anche nelle frequentazioni, nelle amicizie, mondana. Io invece ero l’opposto». […]

Nel mio saggio L’arte di essere figli (Luciana Satta) – Carlo Delfino editore vi racconto la storia di Cristiana e di suo padre Antonio Ciacci, in arte Little Tony. Con intervista rilasciata il 14 marzo 2022 e foto preziose gentilmente concesse dall’artista.

Questo testo e il materiale fotografico concesso in via esclusiva per specifica pubblicazione non possono essere riprodotti. Non si autorizza alcun tipo di riproduzione o pubblicazione.

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LELLA COSTA

Parole che parlano di donne

L’attrice Lella Costa

di Luciana Satta

Non dimentica mai le ragioni per vivere, il tema dell’identità e della memoria, la solidarietà verso gli altri popoli e lo dimostra con il suo costante impegno civile a favore, soprattutto, di Emergency. Ma Lella Costa, una delle attrici più caratteristiche della scena teatrale italiana, amata dalla critica e dal pubblico per la sua intelligenza e ironia, non dimentica mai, soprattutto, i diritti delle donne, sia sul palcoscenico sia nella vita. «Io sono la mia storia, la mia formazione – spiega – e sono arrivata tardi a fare questo mestiere, perché prima ho fatto il liceo, l’università, la politica. Questo è il mio bagaglio, il mio vissuto, che mi porto addosso e a cui non rinuncerei mai».

Ma ha avuto difficoltà all’inizio della sua carriera?

Come tutti… io ho avuto la grande fortuna di capire che volevo fare il teatro e lo spettacolo dal vivo, tra l’altro facendo l’autrice, quindi non mi sono messa nella competizione schiacciante, divorante dei provini, non ho mai cercato scritture televisive e nemmeno cinematografiche. Per una donna è comunque più faticoso. Io lavoro dall’inizio della mia carriera con una piccola agenzia che è anche la mia casa di produzione, che è di donne, oltretutto, e abbiamo cominciato con un piccolo spettacolo e piano piano siamo andate avanti.

Questo penso sia molto femminile: la capacità di unire concretezza e positività.

Quindi lei pensa che esista la solidarietà tra donne?

La misoginia è una delle armi preferite della cultura occidentale, non vedo perché noi dobbiamo praticarla. È vero che siamo comunque in una situazione di inferiorità, perché dobbiamo conquistarci maggiore credibilità, è ovvio… sono le cosiddette guerre tra poveri… tra noi donne viene incitata la competizione, che spesso sfocia in rivalità, in aggressività. È chiaro che non ritengo che l’appartenenza al genere femminile in sé sia un valore assoluto, però io tendo comunque a privilegiare le donne come interlocutrici e, soprattutto, a trovare le attenuanti, perché credo che per le donne sia comunque più difficile…

In uno dei suoi spettacoli, “Alice una meraviglia di Paese”, ci racconta di una bambina che si sente a disagio, che ha la sensazione di essere sempre o troppo grande, o troppo piccola, o troppo grassa, o troppo magra… sensazioni e timori che ogni ragazza, ogni donna, ha provato nella propria vita.

“O troppo alta, o troppo bassa,
le dici magra, si sente grassa,
son tutte bionde, lei è corvina,
vanno le brune, diventa albina.
Troppo educata! piaccion volgari!
Troppo scosciata per le comari!
Sei troppo colta e preparata,
intelligente e qualificata,
il maschio è fragile, non lo umiliare,
se sei più brava non lo ostentare!
Sei solo bella ma non sai far niente,
guarda che oggi l’uomo è esigente,
l’aspetto fisico più non gli basta,
cita Alberoni e butta la pasta.
Troppi labbroni, non vanno più!
Troppo quel seno, buttalo giù!
Sbianca la pelle, che sia di luna
Se non ti abbronzi, non sei nessuna!
L’estate prossima, con il cotone
tornan di moda i fianchi a pallone,
ma per l’inverno, la moda detta,
ci voglion forme da scolaretta.
Piedi piccini, occhi cangianti,
seni minuscoli, anzi, giganti!
Alice assaggia, pilucca, tracanna,
prima è due metri poi è una spanna
Alice pensa, poi si arrabatta,
niente da fare, è sempre inadatta
Alice morde, rosicchia, divora,
ma non si arrende, ci prova ancora.
Alice piange, trangugia, digiuna,
è tutte noi,
è se stessa, è nessuna”.

(Tratto dal monologo “Alice una meraviglia di Paese”)

Secondo lei perché le donne vivono questo senso di inadeguatezza?

Lella Costa in “Alice una meraviglia di Paese”

Io penso che si sia marciato su questa ruolizzazione di genere così pesante, proprio per mantenere la stabilità dell’ordine sociale. Le donne vengono costrette a un ruolo che prevede un adeguamento a determinati canoni. Mi vengono in mente, ad esempio, le pubblicità dei detersivi, in cui viene data un’immagine della donna agghiacciante. Sembrano delle pazze, con le croste sui fornelli che bisogna pulire e i bucati che devono essere sempre più bianchi e, ancora, mi ricordo che un po’ di anni fa c’era un uomo che invitava la signora di turno a fare, addirittura, una gita dentro le tovaglie… noi donne dobbiamo liberarci di tutto questo, credo che l’ironia e l’autoironia siano armi indispensabili, però se la competizione deve essere fatta sul bucato più bianco, su come cucini, su come sei fisicamente, è chiaro che ti senti perennemente inadeguata. Però c’è qualcuno che su nostre potenziali insicurezze ci marcia…

Per quanto riguarda la politica… qual è la sua posizione in merito alle quote rosa?

Le quote rosa non mi piacciono pazzamente, però ho anche visto e verificato che se le quote rosa non ci sono le donne spariscono dalle liste elettorali, per cui non bastano, non garantiscono, ma se non altro sono un inizio. Credo anche che una delle cose gravi della politica sia quella di usare le donne come schermo, cioè c’è l’obbligo delle quote rosa, allora noi le mettiamo in lista ma poi non vengono sostenute e, oltretutto, facendo ricadere ancora una volta la colpa su di noi dicendo che le donne non votano le donne. Non puoi per secoli essere trattata come una minusapiens, che sa fare niente, che deve chiedere la delega maschile, perché gli uomini sanno, e poi pretendere che le donne abbiano fiducia nelle altre donne sebbene siano regolarmente sminuite, prese in giro e ridicolizzate.

 “Alice” è anche il nome di tante giovani donne che sono «nate quando i loro genitori pensavano che il mondo si potesse cambiare»… lei pensa che ci sia stato un cambiamento riguardo alla parità uomo-donna, o pensa che il cambiamento sia solo apparente?

No, il cambiamento non è apparente, ci sono in corso provvedimenti legislativi importanti. Sicuramente, però, la parità non è stata conquistata del tutto e, soprattutto, non la vedo garantita. Credo che ci siano sempre in atto nei momenti di crisi economica, in questo caso planetaria, dei tentativi di rimandare, di rinchiudere in casa le donne. I segnali sono tanti: c’è meno occupazione? Si mandano a casa le donne, indipendentemente dalle competenze. È spaventoso. Queste sono emergenze fondamentali per la società intera.  Sono assolutamente convinta che maggiori diritti e maggiori tutele per le donne siano maggiori diritti e maggiori tutele per tutti. Chi lavora in Paesi più svantaggiati, per esempio in tante zone dell’Africa, dice: “mandare a scuola un bambino significa educare un bambino, educare una bambina significa educare una comunità”… questa è una forza delle donne innegabile. Penso quindi che la parità non sia stata raggiunta, che ci sia un percorso in atto e che mai come in questo momento si debba vigilare perché venga proseguito.

(***Ho visto tante volte Lella Costa a teatro e mi ha sempre affascinato la sua abilità nell’arte della parola. Questa intervista mi fu da lei rilasciata nel 2008. La ripubblico perché le sue parole sono di un’attualità sconcertante e ogni sua risposta è un insegnamento. La scrissi per il giornale on-line donnenews e resta un bellissimo ricordo per me di un’esperienza giornalistica che mi ha dato tanto, soprattutto per tutto ciò che mi ha trasmesso l’allora direttrice della rivista, Rosanna Romano, amica e professionista che considero mia maestra. Le foto sono tratte dal web, purtroppo dopo tanti anni ho perso le mie, n.d.r.).

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PINA MONNE muralista

L’amore per la Sardegna attraverso l’arte dei murales

Le sue figure femminili esprimono tanta dolcezza, ma altrettanta fierezza.

Il murales di Pina Monne dedicato a Maria Carta

di Luciana Satta

«Ho sempre messo al primo posto il mio sogno: raccontare l’amore per la Sardegna attraverso l’arte. Ed è quello che faccio tuttora. Ho ricevuto tantissime proposte per potermi trasferire definitivamente all’estero, ma ho sempre rifiutato. Senza la mia Sardegna non sarei Pina Monne muralista». Per lei, che dal 1996 ha realizzato centinaia di murales in oltre novanta paesi dell’Isola, da bambina dipingere e colorare significava tutto. «Ho trascorso la mia infanzia a Irgoli – ricorda –,  paese nel quale sono nata. Alla scuola materna la maestra portava me e altri quattro bambini in una sala dove c’era il laboratorio di arte. Lì si dipingevano i cartelloni. Alle elementari la maestra mi fece scrivere un tema, il titolo era: “Cosa vuoi fare da grande?”. Io avevo già chiare le idee, volevo fare l’artista, volevo essere pittrice». 

Pina Monne ph. Rosy Brau

Una strada che, inizialmente, non fu compresa dalla famiglia. «Dovevo iscrivermi alle superiori e a casa mia arrivò l’insegnante di educazione artistica per parlare con i miei genitori. Volevo che mi permettessero di studiare l’istituto d’arte, ma loro non vollero sentire ragioni. Mi dissero che dovevo frequentare le magistrali per poter avere un’opportunità di lavoro. Io allora rinunciai a quel sogno e con grande fatica mi diplomai alle magistrali. La vivevo come una costrizione». Ma la passione di Pina Monne per l’arte resta forte, anche quando inizia a lavorare come insegnante in un asilo nido. Cinque anni lunghissimi, trascorsi comunque senza mai abbandonare i pennelli e le tele, fino a quando capisce che la sua strada è un’altra. «Ho detto a me stessa: “Non è quello che io amo fare!”. Poi, nella vita di questa artista straordinaria, arriva la svolta.  «Ho scelto di seguire ciò che da sempre desideravo. Ho partecipato a un concorso di murales a Tinnura, l’ho vinto. Da quel momento non mi sono mai fermata, è stato come un decollo e ora mi trovo a volare ad alta quota da tantissimi anni…». Sono trascorsi diciassette anni da allora. Pina Monne, artista eclettica, ceramista, pittrice, di strada ne ha fatta tanta. Un percorso che l’ha portata al muralismo, a raccontare le nostre tradizioni attraverso il ritratto, perché, dice:  «Mi piace cogliere l’anima attraverso i visi dei vecchi bruciati dal sole. Basta osservarli. Se li scruti con attenzione riescono a raccontarti tutto quello che vuoi sapere della loro vita, della fatica, del sacrificio. Arrivano alla fine della loro esistenza con una serenità d’animo che oggi molti di noi non hanno ancora raggiunto. In noi c’è una profonda insoddisfazione, mancano i punti di riferimento. Questi anziani riescono, invece, a infonderti ancora sicurezza, certezza». I volti degli anziani e i volti della donna sarda. Le sue figure femminili  esprimono tanta dolcezza, ma altrettanta fierezza. Come nell’opera La ragazza di Fonni, olio su tela scelto dalla curatrice d’arte Marta Losignore per la Galleria multimediale Mad di Milano, dove resterà in esposizione per un anno. 

«Credo che la donna sarda, soprattutto nella provincia di Nuoro da dove io provengo, abbia veramente grandi doti manageriali. Io ammiro tantissimo questa  capacità e cerco sempre di rappresentarle in quella maniera. Grazia Deledda è il simbolo. Era quasi fuori tempo, era molto avanti rispetto alle donne di quel periodo, lei era già oltre… ». Ma il riassunto di tutto ciò che per l’artista di Irgoli rappresenta la donna sarda è la Donna di Oniferi ritratta a cavallo. «Sono legata a tutte le mie opere – afferma –. Se uno le osserva dall’inizio sino alla fine, riesce a capire la mia crescita artistica nel tempo. Ma, se devo essere sincera, mi piace tantissimo il murale che ho fatto a Oniferi… ha una storia importante. Il sindaco voleva che rappresentassi una persona a cavallo e si era partiti dal presupposto che dovesse essere un uomo. Tutti i ragazzi del paese volevano essere scelti. Io, alla fine dipinsi una donna. Aveva perso il marito. Esprimeva una forza interiore che mi colpì tantissimo, era una persona straordinaria, con un animo grande. Un esempio di donna sarda coraggiosa che è diventata insieme padre e madre per i suoi figli. L’ho portata in campagna e abbiamo fatto degli scatti in abito tradizionale. Poi, ho selezionato accuratamente la foto che preferivo per realizzare il murale. I suoi occhi parlavano, raccontavano chi era e cosa aveva dentro». 

Pina Monne è anche l’autrice del murale di Maria Carta, a Siligo. «Stavo lavorando a Bessude, ma mi serviva un rullo e non trovai un negozio di ferramenta in paese. Dunque andai nella vicina Siligo, ma trovai il negozio chiuso. Così decisi di fare una passeggiata e giunsi nella piazza. Lì, in un angolo, c’era la piccola statua in bronzo dedicata alla cantante. Poi mi voltai e vidi una parete. Pensai a Maria Carta, alla sua voce, a lei che ha rappresentato la musica sarda all’estero, a lei che amava tantissimo la Sardegna. Mi avvicinai in Comune, chiesi di poter parlare col sindaco, ma non lo trovai. Mi chiamò in seguito e dissi che mi sarebbe piaciuto regalare una grande opera alla memoria di Maria Carta, perché la meritava. Mi portò a casa del fratello della cantante, il quale mi mostrò le foto dell’artista. Tra queste abbiamo scelto insieme quel bellissimo scatto. Ho notato subito quello sguardo. Il sindaco mi ha detto che sarebbe stato bellissimo se fossi riuscita a realizzare il murale dopo tre giorni, in occasione dell’inaugurazione della piazza. Allora lavorai giorno e notte, con i fari puntati sulla parete. Il giorno dell’inaugurazione il murale era pronto». 

Ma per Pina Monne il muralismo non è fondamentale solo perché le permette di esprimere  attraverso i colori e le figure quello che sente per la sua terra, ma perché «è il momento in cui qualsiasi spettatore si ferma e mi pone delle domande e diventa curioso, si interessa a quello che sto realizzando. Per me quell’attimo è importante: quando c’è il dialogo con quella persona che senti vicina, che non ti conosce. Infatti per me il mio lavoro non è mai motivo di noia, ma di scoperta, di ricerca. Al primo posto c’è passione, il motore che mi spinge tutti i giorni a salire sull’impalcatura e che mi spinge ad affrontare lunghi viaggi». È la grande superficie ad affascinare Pina Monne, quella che all’età di vent’anni l’ha portata a conoscere i muralisti più famosi:  Angelo Pilloni, Archimede Scarpa, Luciano Lixi, Pinuccio Sciola, Ferdinando Medda. Da lì è iniziata la sua carriera di autodidatta e anche l’amicizia con i due grandi muralisti Angelo Pilloni e Archimede Scarpa. «Utilizziamo il murale allo stesso modo, non come simbolo di protesta, ma come arredo urbano, per rivalutare le zone deturpate dei paesi». Così le loro opere diventano delle scenografie all’aperto che raccontano in maniera chiara quella che è stata la tradizione del posto. «Così è nato il mio grande amore, che è rimasto latente in me per qualche anno ma poi, all’età di trentatré anni è sbocciato, esploso, con il concorso di murales a Tinnura, da dove sono partita e dove ancora adesso mi ritrovo».

(*Anno 2017)

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