“Dall’Ucraina per danzare sulle note della libertà”

L’étoile Olga Golytsia

ph. Ksenia Orlova

Tutte le più grandi Ètoile del Mondo hanno danzato almeno una volta su uno dei brani del repertorio classico tra i più celebri e noti della Storia della danza: The Dying Swan, La morte del cigno, con quell’inconfondibile movimento delle gambe basato sul “pas de bourèe suivi” e la precisione nelle movenze delle braccia e delle mani. Ma quelle di Olga Golytsia, prima ballerina dell’Ukrainian Classical Ballet, non sono braccia. Non sono mani. Sono ali. Si alza il sipario. Vederla danzare è dimenticare e ricordare al tempo stesso. Perché con quelle stesse gambe Olga è dovuta fuggire dalla sua terra, l’Ucraina, e con quelle braccia ha protetto sotto le bombe suo figlio undicenne per salvarsi dalla Guerra e andare incontro al suo sogno di libertà. Ha trovato rifugio dai suoi cari, a Francoforte. «Quando è iniziata la Guerra non sapevo affatto cosa fare… ho pensato: “Dove sarà il rifugio antiaereo più vicino?” “Sarà meglio lasciare l’Ucraina o restare?”. Il padre di mio figlio vive a Francoforte. Chiamava costantemente e chiedeva di venire in Germania. Ma all’inizio mi sembrava che la Guerra non potesse essere vera e credevo che tutto sarebbe finito presto. I bombardamenti erano continui. All’inizio stavamo sempre chiusi nel bagno, poi, quando ho capito che non era un posto sicuro, siamo usciti e abbiamo passato la notte nel parcheggio. Due settimane dopo ho deciso di andarmene. Vivo in un quartiere di Kiev, non lontano da Irpin e Bucha… ero molto spaventata. Il nostro viaggio è durato quattro giorni! A Kiev siamo riusciti a prendere solo il terzo treno… c’era molta gente! Erano tutti inorriditi e presi dal panico. Gli aeroporti sono stati bombardati il ​​primo giorno. Abbiamo viaggiato in treno e in autobus fino a Francoforte».

ph. Ksenia Orlova

Olga Golytsia è arrivata poi in Italia con l’Ukrainian Classical Ballet grazie alla rete di solidarietà che ha coinvolto molti Teatri. In Sardegna ha aperto, insieme alle stelle del balletto ucraino, la stagione della Grande Danza del CeDac (l’Ukrainian Classical Ballet raccoglie artisti delle Compagnie ucraine più prestigiose: dall’Opera nazionale al Teatro Taras Shevchenko, dal Teatro dell’Opera e Balletto di Odessa, al Teatro Accademico di Kharkiv fino all’Opera Nazionale di Lviv, n.d.r.). Protagonisti della straordinaria esibizione, al Teatro Comunale di Sassari e al Massimo di Cagliari, i grandi capolavori della storia del balletto, tra spettacolari assoli e passi a due. Al momento dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, la Compagnia era in tournée in Francia. Il tour italiano non era in programma, è stato organizzato grazie all’impegno del teatro comunale di Ferrara.

«Quando è iniziata la guerra in Ucraina non ho pensato affatto al balletto. Pensavo solo a me e a mio figlio, a come sopravvivere… quando, dopo un mese e mezzo di Guerra, mi è stato offerto di andare in tournée, non capivo come fosse possibile! Ma poi ho pensato: “Cosa posso fare di buono per l’Ucraina? Posso aiutare in qualche modo?”. Ho capito come questa potesse essere una meravigliosa opportunità per presentare la cultura ucraina in Italia, per parlare degli orrori della Guerra e di ciò che ho vissuto personalmente. Spero che questi tour abbiano supportato almeno un po’ il mio Paese». Nel mese di marzo 2023 al Comunale di Ferrara è stato proiettato un documentario realizzato da Gianluca Lul e Angela Onorati e prodotto dallo stesso Teatro Comunale nell’aprile 2022, a pochi giorni dallo scoppio della Guerra, durante la presenza della Compagnia ucraina a Ferrara.  Attraverso le parole, gli occhi e l’arte dei ballerini dell’Ukrainian Classical Ballet il documento racconta l’inizio della Guerra.

ph. Andrey Stanko

Come è nato il tuo amore per la danza? Che cosa sognavi da piccola, desideravi diventare una ballerina?

«Avevo cinque anni quando mia madre mi portò in una Scuola di danza per la Propedeutica. All’inizio non mi piaceva molto. Era noioso e doloroso. Ma gli insegnanti dissero che avevo caratteristiche fisiche adatte al balletto. Perciò mia madre ha continuato a portarmi in Studio, anche quando tutti i miei amici hanno smesso di studiare. Poi, all’età di sette anni, sono entrata alla Pavel Virsky Ensemble School, un ensemble di danza ucraino (Pavlo Pavlovych Virsky, PAU, è stato un ballerino sovietico e ucraino, maestro di balletto, coreografo e fondatore del Pavlo Virsky Ukrainian National Folk Dance Ensemble, il cui lavoro nella danza ucraina è stato rivoluzionario e ha influenzato generazioni di ballerini, n.d.r.). Sono persino andata in tournée… e mi è piaciuta molto! A dieci anni sono entrata al Kyiv State Ballet College. Lì hanno instillato in me l’amore per la danza classica. Quando ero una ragazzina, non mi piaceva molto fare balletto. Era un desiderio di mia madre. Ma col tempo mi sono innamorata della mia professione! Sono molto grata a mia madre per avermi incoraggiata a diventare una ballerina».

ph. Ksenia Orlova

Chi sono stati i tuoi maestri di riferimento e le figure del mondo della danza che ti hanno maggiormente influenzata?

«Quando ero bambina non avevo idoli nel balletto. Non mi sono mai ispirata a nessuna. Volevo essere unica e diversa da chiunque altro. Nutro riconoscenza verso i miei insegnanti del College e del teatro, hanno lavorato molto con me. A scuola insegnavano l’accademismo e a teatro la mia insegnante Eleonora Steblyak mi ha aiutato ad aprirmi come attrice. Finora ho lavorato con attenzione e precisione su ogni gesto e movimento».

Hai utilizzato la tecnica dell’osservazione per raggiungere una tale perfezione e grazia?

«Questo pezzo richiede una preparazione speciale. Sembra facile, ma non lo è affatto. La mia maestra mi ha chiesto di andare al lago a guardare i cigni: come nuotano, come si muovono… ci sono tante versioni di questo numero! Io e il mio insegnante abbiamo realizzato Il lago dei Cigni adattandolo alle mie capacità. Lavoriamo sulle mie mani da molto tempo! È la cosa più importante. Abbiamo anche lavorato molto sull’immagine. Cerco di trasmettere la voglia di vivere e la lotta contro l’inevitabile morte».

ph. Oleksandra Zlunitsyna

Che rapporti hai con gli altri ballerini della compagnia? C’è amicizia tra voi?

«C’è un’atmosfera amichevole a teatro. Soprattutto tutti hanno iniziato a sostenersi a vicenda durante la Guerra. Sono molto contenta di aver deciso di tornare a Kiev e all’Opera Nazionale dell’Ucraina».

Che cosa rappresenta la danza per te?

«Amo il balletto, la danza è la mia vita. Non posso mangiare quello che voglio. Non faccio molte altre cose che possono fare persone che svolgono altre professioni. Ma non me ne pento… il lavoro mi porta piacere e gioia! Spero che il pubblico vada via dalle le mie esibizioni con nuove emozioni».

ph. Katerina Kornienko

***l’intervista a Olga Golytsia è stata tradotta dalla lingua Inglese all’Italiano.

***Le foto sono state concesse alla giornalista Luciana Satta dalla sign.ra Olga Golytsia, che ha autorizzato la pubblicazione per lo speciale a lei dedicato. Questo testo e gli scatti non possono essere riprodotti né pubblicati, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autrice che ne detiene i diritti. Il testo e il materiale fotografico sono apparsi sulla rivista Iod (numero di aprile 2023).

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NURAGUS, nel cuore del Sarcidano

Terra di vino e di racconti che sanno di vita e di umanità

di Luciana Satta

L’impegno a custodire nel tempo la memoria di una lunga storia. Una storia che affonda le radici nel passato e che ha segnato la via del ritorno: all’isola, alla terra, alle vigne e al lavoro delle mani che le curano quotidianamente. Nella linea di un cerchio che si chiude è la spirale di un tralcio di vite. Un segno che apre alla ciclicità e all’incessante movimento del vivere e del generare”.

C’è un filo sottile che collega le persone che credono ancora nella meraviglia. Nella bellezza del restare umani. A volte le incontri per caso. Sono anime che lasciano il segno, perché hanno gli occhi che sorridono. Ho conosciuto Stefano Soi nel 2016 e oggi vi racconto la storia del suo sogno diventato realtà nel cuore del Sarcidano, vent’anni orsono. È l’Agricola Soi, a Nuragus. Il rispetto per la tutela della tradizione vitivinicola e la sostenibilità ne sono i valori fondanti. «Alla base c’è l’obiettivo di lasciare il mondo migliore (così come si diceva una volta) rispetto a come l’abbiamo trovato – mi spiega Stefano -. È una scelta etica di coinvolgimento profondo, non un atteggiamento “modaiolo”. Da me ci sono ancora i ricci e i porcospini, le volpi, le api e le vespe: tutti gli animali che dobbiamo in qualche modo proteggere».

Stefano Soi nelle sue vigne. (ph. V. Sanna)

Tanto impegno, che ha portato i vini Agricola Soi a ottenere riconoscimenti importanti, dal Gambero Rosso dell’Oscar 2017, ai due bicchieri nelle edizioni 2018 e 2019. Inoltre tutti i vini Soi sono inseriti con tre stelle nella Guida Vini Buoni d’Italia del Touring e tra le dieci eccellenze della Sardegna nella selezione a parte tra le Guide di “La Repubblica.

«Mio nonno è stato uno dei primi enologi di scuola sarda – racconta –. Figlio di un notaio, aveva intrapreso una strada completamente diversa, perché si era diplomato in Enologia nel 1900. Era un proprietario terriero, ma scelse di lavorare come agronomo per quasi quarant’anni nella colonia penale del Sarcidano, per concludere la sua carriera in quella di Castiadas. Io l’ho visto relativamente poche volte nella vita, perché era già molto grande, dunque il legame che mi ha portato in maniera viscerale e imprescindibile a Nuragus non è nato da un’eredità diretta, ma da una trasmissione d’amore data soprattutto dai racconti di mio padre: ogni fine settimana ci caricava sul suo maggiolino bianco e ci portava a visitare questi luoghi. Tutti i suoi racconti affascinanti mi hanno infarcito di voglia di approfondire il rapporto con questa zona. Ho frequentato il liceo classico a Cagliari, poi Ingegneria, senza grande entusiasmo. Non la sentivo la mia vera strada. Un’estate andai a lavorare in Alto Adige e lì ci fu la classica “folgorazione”, perché mi sono sentito in un ambiente più allegro, più disincantato e più creativo, che era l’ambiente dell’architettura. Era quello che avrei voluto fare. Quindi, a ventidue anni, mi trasferii a Venezia. Abitavo a Padova e viaggiavo con il treno, ho dovuto lavorare per mantenermi».

«Con la campagna avevo solo un rapporto vissuto attraverso la narrazione, era un legame acquisito dai racconti di mio padre. La vera conoscenza è arrivata da mio zio Gino, il fratello di mia mamma. Aveva una tenuta in Toscana, dove mi trasferivo ogni estate, a fine anno scolastico. Lì da ragazzino usavo il trattore, ma la passione per questo prodotto meraviglioso, l’uva che veniva trasformata in vino, mi ha intrigato al punto che dicevo a tutti che da grande avrei voluto fare questo lavoro. Quando mio zio è mancato ho giurato a me stesso che prima o poi avrei voluto ripercorrere le sue orme, avere un piccolo possedimento mio».

Il tuo progetto nasce da un obiettivo: trasformare il concetto di “agricoltura” in “agricultura”? Cosa significa?

«Ci sono lavori che nessuno vuole intraprendere più perché si pensa siano di “categoria inferiore”. Inoltre nessuno si impegna seriamente anche dal punto di vista economico, a impiegare risorse importanti. Può sembrare una cosa quasi ovvia, ma spesso l’agricoltura viene vista come un lavoro di livello “basso”. Ci sono invece figure specialistiche (come il potatore), che potrebbero guadagnare e vivere molto bene tutto l’anno. Il lavoro agricolo ti dà innanzitutto la possibilità di stare all’aria aperta. Nel periodo della pandemia molti di noi hanno riscoperto il piacere di non sentirsi confinati a casa. Noi non abbiamo subito neanche per un giorno questo oltraggio, semplicemente perché avevamo la terra. Eravamo in qualche modo giustificati: potevamo andare in campagna e io quando sono nella mia terra mi sento il re del mondo. Proprio in queste situazioni mi sono domandato più volte perché il lavoro agricolo debba essere considerato come un lavoro di secondo ordine o di bassa qualifica. Questo mi ha sempre urtato».

Agricola Soi. Le vigne. (ph. V. Sanna)

«Mi sono reso conto che negli ultimi anni tutti coloro che si sono avvicinati all’agricoltura sono spesso “agricoltori di ritorno”. È un concetto che aveva sottolineato l’antropologa Alessandra Guigoni: gli “agricoltori di ritorno” sono persone che, dopo aver conseguito una laurea o un corso formativo qualificato, a un certo punto hanno pensato che le loro mani dovessero essere asservite anche a svolgere un qualcosa di pratico, di materiale. Avevano perso l’uso delle mani, dei piedi, del camminare, che non significa soltanto muoversi, o spostarsi. Ho parlato dunque spesso del concetto di “agricultura”: il campo, la vigna, la cantina, il caseificio, il settore dell’allevamento, delle olive, luoghi in cui materialmente avviene il passaggio dalla produzione, dalla creazione del prodotto agricolo, dell’uva, o del latte, o dell’olio (dunque la cantina, o il frantoio, o l’ovile) potessero diventare luoghi di cultura. Fenoglio definiva la campagna “luogo della parola”, che poi genera cultura, letteratura».

«Mi sono laureato in Architettura e continuo a fare l’Architetto, ma anche il contadino, il vignaiolo. So cosa voglia dire concimare e usare gli strumenti agricoli. Ne sentivo proprio l’esigenza. La campagna è vista (nel migliore dei casi) in modo idilliaco, ma spesso di idilliaco non c’è niente, è un lavoro legato alla produzione di beni primari, senza i quali non ci nutriremmo e non potremmo sopravvivere.

Da quando il vino ha assunto il ruolo di ospite primario nelle tavole, è diventato un prodotto che forse più di tanti altri è riuscito a coniugare questi due concetti di “agricoltura” e di “agricultura”, perché intorno al vino sono sorti movimenti, discorsi, e tutti coloro che si sono avvicinati al vino, da poeti come Rimbaud, Verlaine, lo hanno utilizzato come strumento per elevarsi, non per abbruttirsi, non per scendere in basso. Io ho provato a fare questo percorso, accogliendo le persone, semplicemente raccontando loro quello che è il nostro lavoro».

La Vendemmia 2020 – Video

«Dico con convinzione che mi sento quasi un “presidio territoriale”, perché quando sono arrivato a Nuragus le vigne stavano scomparendo, non c’era più nessuno che le coltivava, se non per fare un po’ di vinello per casa. Invece la vigna è economia e, se guidata in un contesto un po’ più ampio a livello regionale, può diventare un luogo da visitare, così come avviene con i musei. Le vigne del Chianti, del Salento, delle Langhe, sono diventate esempi di “cultura enogastronomica” e hanno offerto lo spunto per fare Festival. Penso “Collisioni”, a Barolo, e a tutti gli eventi che vengono organizzati periodicamente nel Chianti. La campagna è diventata un luogo reale dove ritrovarsi, perché abbiamo spazi ampi, perché non c’è il frastuono della città. Abbiamo la possibilità di pensare, di concentrarci di più. Spesso quando sono in campagna – tranne quando uso il trattore perché non riuscirei a sentire – metto le cuffiette e ascolto musica classica, jazz.

A mio avviso questo è il futuro vero dell’agricoltura: non soltanto luogo di produzione di beni primari, ma luogo di riflessione, di confronto tra il bene prodotto e i fruitori di questo bene che possono trovare un vantaggio più ampio unendo cultura e letteratura».

La tua attività è anche fulcro di incontri, da Mauro Corona e Erri De Luca, entrambi spiriti liberi. Come li hai conosciuti e che cosa avete in comune?

«Mauro è stato il primo con cui ho iniziato un rapporto di fratellanza. Ci chiamiamo “fratellini”, anche se lui è un po’ più grande di me. Ormai ci conosciamo da quasi venticinque anni e siamo diventati inseparabili. Non c’è stato un momento importante della nostra vita che non abbiamo condiviso insieme. Si cresce insieme, si invecchia insieme. Io ho la fortuna di ricevere spesso i suoi manoscritti prima che vengano pubblicati. Insieme a Mauro una sera di tanti anni fa sono andato a Belluno dove c’era una serata dedicata a Erri De Luca, del quale avevo letto solo il primo libro, perché lui non era ancora uno scrittore, era un operaio che cominciava a scrivere. È una persona con cui si è creato un rapporto incredibile, al punto che quando è morta sua mamma lui è venuto a casa mia, sentiva di rifugiarsi in un posto dove nessuno gli facesse domande, lo consolasse in maniera eccessiva, perché è una persona molto schiva, molto particolare. Sono stato più volte a casa sua, ho condiviso in parte anche le sue passioni politiche, anche se all’epoca non ci conoscevamo. Ho creduto che, in qualche modo, il mondo sarebbe potuto essere oggetto di miglioramento. Regolarmente – la gente non lo sa – Erri va in Ucraina per cercare di portare conforto. Sente l’esigenza di un ruolo sociale. Prima di conoscere Mauro Corona e Erri De Luca avevo già la casa piena di libri, da quando conosco loro ancora di più. Sono stato con Mauro una quindicina di volte al Premio Nonino, siamo stati al premio Strega, ho conosciuto grazie a lui quattro premi Nobel, siamo stati a Torino, a Francoforte, a Gavoi… ho fatto con loro delle cose meravigliose, fino a quando ho avuto il coraggio (e spesso questo mi manca) di separarmi da quel mondo. Abbiamo vissuto un periodo magico, però poi il richiamo della terra è stato forte, ci vediamo periodicamente e non più a livello settimanale, come accadeva prima. È un rapporto meraviglioso (sono citato anche nell’ultimo libro di Erri, Spizzichi e Bocconi, n.d.r.) e a volte Mauro mi ha usato come personaggio di qualche sua storia. È un rapporto che mi gratifica moltissimo, penso anche di non meritarlo, ma è andato così».

Stefano Soi con l’amico Erri De Luca

Ciò che ti ha spinto è la passione per l’edilizia biosostenibile. L’uso della pietra, il legno, l’acciaio e gli isolanti sostenibili come la lana di pecora e il sughero. Appartenenza e rispetto: è la tua filosofia. Che significato hanno queste parole per te? Come le applichi nella tua azienda, nel tuo modo di vivere?

«Ho sempre creduto molto nel recupero dei materiali. La cantina è stata costruita con questi principi: materiali che non fossero da smaltire, ma che, alla fine del loro percorso, fossero recuperabili. A Nuragus sono stato il primo, dopo sessant’anni, ad utilizzare la pietra come materiale da costruzione. Molti usavano i blocchetti, o altri materiali. Avendo studiato a Venezia, dove c’è un’attenzione particolare, mi sono specializzato e ovviamente, quando si è trattato di costruire la cantina, ho adottato i materiali tra i più puliti: l’isolamento è fatto con il sughero, i muri con Gasbeton (materiale completamente riciclabile). I muri hanno circa sessanta centimetri di spessore, quindi non serve usare tanto la climatizzazione, quanto l’intervento passivo del materiale che ti permette di non fare entrare il caldo o il freddo. Inoltre noi in vigna non usiamo diserbanti, i pali della vigna sono tutti in legno e quando marciscono vengono sostituiti. Hanno una loro motivazione di tipo sostenibile, oltre che estetica.

Un altro aspetto importante, che ci tengo sempre a sottolineare quando parlo della vigna, è che noi abbiamo seguito la tradizione di fare le vigne in aridocoltura. Prendono acqua quando piove, ma abbiamo lavorato con gli innesti sulle viti americane, che sono viti selvatiche (non abbiamo preso le barbatelle già pronte) e queste hanno approfondito le radici, hanno fatto sì che scendessero fino in fondo, quindi anche nelle annate più siccitose la nostra parete verde delle vigne è sempre rigogliosa. Quando abitui le viti ad andare a cercare l’umidità in fondo, loro lo fanno. In campagna i migliori pomodori, i migliori meloni e la migliore uva, viene sempre in luoghi dove l’acqua non viene utilizzata. I noti meloni in asciutto della Marmilla, ad esempio, non ricevono un goccio d’acqua e sono presidio slow food. Ho creduto che la natura non vada troppo manomessa. Se in Sardegna per secoli e secoli hanno fatto degli ottimi vini senza usare irrigazione, c’è un motivo. Questa è la mia filosofia».

«Mi piacerebbe che questo spazio, questa corte in pietra dove si svolge la mia attività, possa diventare un luogo non soltanto di vino ma di racconti. Vorrei utilizzare questo spazio per dire: “Apriamo una bottiglia, mangiamo qualcosa e però condividiamo con le persone che ancora credono in questo tipo di racconto e che non vogliono soltanto stare attaccati ai cellulari!”. Uso internet e i social network, è inevitabile, ma con parsimonia. Ci sono persone che invece vivono per raccontarsi sui social. Non voglio essere tutti i giorni presente e dire la mia su tutto, per carità! Lo faccio con un compito quasi sociale, adoro l’idea che qualche ragazzo possa trarre spunto dal mio lavoro. Sono felice quando qui arrivano i giovani, è successo con gli studenti dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo di Carlo Petrini».

L’evento “Il Tinello”, Agricola Soi Nuragus

«Continuo a pensare che in Sardegna non tutto sia perduto. Si tratta di parlare forse con cento persone, di queste quattro ti seguiranno e solo una effettivamente avrà successo, ma io credo che pian piano il nostro territorio stia cambiando, che si stia creando una rete di persone che vogliono restare a stretto contatto con la terra. Non mi interessa l’idea di muovermi per fare turismo, ma per scambiare idee, acquisirle e riportarle qui a Nuragus. La mia officina, il mio bacino deve restare qui, perché mi fa piacere che la gente arrivi e capisca che non è vero che la terra è un qualcosa “da sfigati”, ma è un posto meraviglioso dove si possono raccontare storie. È quello che facciamo quando organizziamo le serate del “Tinello”. A me piace molto che venga raccontato quello che si mangiava un tempo. Da me si fanno i piatti che hanno le radici nella nostra cucina storica. Portare la gente qui, fare trascorrere loro una bella serata con musica dal vivo, raccontare, leggere un brano. Io ho scoperto nella gente che frequenta questi eventi, che preferisco chiamare “accadimenti”, una luce negli occhi. Qui la gente ha il piacere di venire e non se ne andrebbe più. Dobbiamo farlo vivere questo interno della Sardegna. Perché è meraviglioso. Credo che qui si possa vivere, non soltanto sopravvivere».

Il Tinello – Video

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Eravamo Donne. La violenza di genere nel Mito, nella Storia, nell’Arte, nella Letteratura

di Luciana Satta

Dafne, Ipazia, Francesca da Rimini, Giovanna D’arco, Anna Bolena, Indira Gandhi. Gli esempi di donne vittime di femminicidio sono molteplici, nel mito, nella storia, nell’arte, nella letteratura, a dimostrare come il fenomeno della violenza sulle donne affondi le sue radici in epoche lontane.

Donne escluse dalla vita politica, dall’istruzione, private della propria individualità, appendici dell’uomo, incapaci di agire autonomamente.

Nelle Metamorfosi di Ovidio Apollo si invaghisce perdutamente di Dafne. La insegue senza tregua, ma Dafne chiede a suo padre Peneo di essere trasformata in albero d’alloro pur di sottrarsi alla passione non corrisposta. Da quel momento la pianta diventa sacra per Apollo. D’alloro sarebbero stati incoronati in seguito i vincitori e i condottieri. «Se non puoi essere la sposa mia, sarai almeno la mia pianta”. “E l’alloro annuì con i suoi rami appena spuntati e agitò la cima, quasi assentisse col capo”.

Apollo e Dafne

Grande esempio di libertà di pensiero e di emancipazione femminile fu Ipazia d’Alessandria, scienziata e filosofa greca. Le sue parole “Se mi faccio comprare non sono più libera, e non potrò più studiare: è così che funziona una mente libera” hanno fatto la storia.

Risale al 415 la sua uccisione, per mano di fanatici religiosi, in un’epoca fortemente influenzata da Aristotele. Scrive Aristotele: “Così pure nelle relazioni del maschio verso la femmina, l’uno è per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata – ed è necessario che tra tutti gli uomini sia proprio così”.

Ipazia, scienziata e filosofa greca

Nella Grecia delle poleis, la donna era educata alle mansioni domestiche fino ai 13 anni e poi veniva data in sposa. Le donne non avevano il diritto di cittadinanza ed erano escluse dalla vita politica. Alcune tragedie greche lo testimoniano. La donna è istinto, portatrice di affetto.  In un certo senso “pericolosa”, in quanto elemento destabilizzante rispetto all’ordine incarnato dall’uomo. Antigone, ad esempio, viene imprigionata per aver sfidato il re di Tebe, e poi muore suicida; oppure le protagoniste della tragedia “Le Troiane”, di Euripide, il dramma che più di ogni altro mette in scena la violenza contro la donnaEcuba, moglie del re Priamo. Andromaca, sposa del valoroso Ettore morto in duello contro Achille. Cassandra, Figlia di Ecuba e di Priamo. Su ciascuna di loro incombe un destino di dolore: le donne dei vinti diventano bottino di guerra dell’esercito greco vincitore.

Uno degli episodi più significativi della storia di Roma e che mostra la completa subalternità della donna rispetto all’uomo, l’immagine della donna – merce, è il noto Ratto delle Sabine.  Romolo escogita un piano per popolare la città di Roma. Organizza un sontuoso banchetto in onore del re sabino Tito Tazio. Durante la festa alcuni giovani romani rapiscono le donne sabine. Ma nel caos generale è stata per errore rapita anche una donna sabina già sposata, Ersilia. Romolo, primo re di Roma, viene avvertito e rimedia all’errore prendendola in moglie. Una fanciulla poi di nome Tarpea, apre ai sabini le porte della città affinché riescano, alla guida del loro re, appunto, Tito Tazio, a liberare i propri familiari. Il destino di Tarpea è orribile: sarà schiacciata sotto gli scudi dei romani.  Da qui nasce la leggenda sulla cosiddetta rupe Tarpea, rupe dalla quale venivano gettati i condannati a morte con l’accusa di alto tradimento dello Stato. 

È storia nota poi che le donne riescono a fermare i due schieramenti nemici, frapponendosi tra loro. Si giunge così alla pace. Romolo e Tito Tazio regnano sulla città di Roma e i Sabini e Romani si fondono in un solo popolo.

Ca’ Rezzonico – Ratto delle Sabine – Nicolo Bambini

Un interessante approfondimento in tema di femminicidio in epoca romana è certamente quello condotto dalla dottoressa Anna Pasqualini, docente di Antichità romane. La studiosa ha messo in luce una serie di casi di femminicidio nell’antica Roma, attraverso lo studio delle epigrafi latine. La docente, ad esempio, ha svelato dall’analisi di un epitaffio la vicenda di Giulia Maiana, che viveva in Francia, a Lione. L’epitaffio recita così: “Donna specchiatissima uccisa dalla mano di un marito crudelissimo”. 

La letteratura è ricca di esempi celebri di violenza di genere: ad esempio la figura di Desdemona in Shakespeare, che lascia la casa di suo padre per sposare Otello, ma sceglie di non chiedere a suo padre il consenso per sposare il Moro di Venezia, decide in autonomia, per poi finire uccisa per mano del suo stesso marito, accecato dalla gelosia.

E poi proseguendo nell’analisi di esempi celebri, non possiamo naturalmente dimenticare Dante e il canto V dell’Inferno, il noto canto di “Paolo e Francesca”. Al v. 106 Francesca da Rimini racconta a Dante: “Amor condusse noi ad una morte”. Figlia di Guido da Polenta il Vecchio, signore di Ravenna, Francesca andò sposa al rozzo e deforme Gian Ciotto Malatesta, signore di Rimini, dal quale ebbe una figlia. Innamorata di suo cognato, Paolo Malatesta, fu con lui uccisa dal marito, tra il 1283 e il 1286. L’autore inserisce Paolo e Francesca nell’Inferno perché mentre per la società del tempo, per la chiesa, il peccato di adulterio viene condannato, Dante sembra avere compassione di lei e in un certo senso la assolve. Anche se in realtà alcuni ritengono che il termine pietà usato da Dante, non indichi “compassione, ma turbamento angosciato.

Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende,

prese costui de la bella persona

che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende”.

Paolo e Francesca, Dante Inferno, Canto V

Come dimenticare poi il dramma di Anna Bolena – uno dei più efferati femminicidi della storia. Seconda moglie di Enrico VIII, fu accusata dal marito di presunte infedeltà coniugali e condannata a morte.  In segno di clemenza il re optò per decapitazione in sostituzione della la condanna al rogo, al posto di quella per, dunque permise che venisse usata la spada e non la comune scure. La spada, arma più nobile, degna di una regina. Quel mattino il sovrano andrà a caccia con la corte, il giorno dopo si fidanzerà con quella che diventerà poi la sua terza moglie.

Anna Bolena

Donne – streghe. Tra il XV e il XVIII secolo dilaga in tutta Europa per ben quattro secoli la fase più violenta della cosiddetta Caccia alle Streghe. Inizia in Germania e in Italia e si espande poi rapidamente in Francia, in Inghilterra, nel nord Europa, in Spagna. Esempio su tutti della fine terribile a cui venivano destinate le donne, fu Giovanna D’Arco, l’eroina nazionale francese condannata al rogo a soli 19 anni. La “pulzella d’Orleans”, nella Guerra dei Cento Anni porta le truppe francesi alla vittoria contro l’assedio degli Inglesi. Ma viene catturata e venduta agli inglesi e processata per eresia. Ma nell’Ottocento l’attivista americana per i diritti delle donne Matilda Joslyn Gage avanza per prima la tesi che la caccia alle streghe fosse in realtà strumento di repressione e sottomissione delle donne.

Il mondo dell’arte racconta da secoli la violenza di genere. Ci restituisce, ad esempio, la storia di Artemisia Gentileschi, talentuosa pittrice del Seicento. La sua attività inizia nella bottega del padre e lì termina, in seguito alla violenza di Agostino Tassi, suo maestro di prospettiva.  devono subire pesanti condanne morali, i metodi inumani del Tribunale dell’Inquisizione, come la terribile tortura della “Sibilla”, alla quale la pittrice fu sottoposta.

Artemisia Gentileschi

E ancora il ritratto di Costanza di Gian Lorenzo Bernini immortala quel volto di donna nella sua bellezza eterna. Il volto di una donna ritratta in un momento d’intimità, in abiti semplici. Costanza era moglie dello scultore lucchese Matteo Bonarelli, collaboratore di Bernini alla fabbrica di San Pietro. Quando si conoscono, nel 1638,  Costanza ha 22 anni ed è sposata da quattro, Bernini ha 38 anni. Ma lo scultore vede la donna uscire dalla casa di Luigi, fratello dello stesso Bernini. Gian Lorenzo attua così la sua vendetta: assolda un servo che deturpa per sempre il volto della donna.

Costanza

Gli esempi sono molteplici nel mito, nella storia, nell’arte, nella letteratura. Co dimenticare la figura di una donna coraggiosa, Indira Gandhi,  premier indiano in carica dal 1966 al 1977 – assassinata a Nuova Delhi il 31 ottobre del 1984 dalle sue guardie del corpo di etnia Sikh. Sette proiettili colpiscono l’addome, dieci il petto e altri arrivano dritti al cuore.

“Il lavoro di un uomo è fra il sorgere e il tramontare del sole. Quello della donna non finisce mai”. (Indira Gandhi)

Indira Gandhi

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BOB MARONGIU Un vortice di gioia e voglia di vivere

di Luciana Satta

«Ho sempre amato l’approccio alla vita concreto e allo stesso tempo sognante. Sono inclassificabile. Mi sento un artista in movimento». Parlare con Bob Marongiu è come entrare in un fiume in piena. Una corrente piena di parole, di idee, di sogni. Come gli occhi grandi dei suoi personaggi, che ti chiamano a giocare. Occhi che ti invitano a entrare nel quadro, a prenderli per mano e a tuffarsi nei colori . Il giallo, il rosso, l’azzurro. «L’espressionismo e il Fauvismo (https://it.wikipedia.org/wiki/Fauves) mi hanno influenzato, per l’uso dei colori: il mare verde, il cielo giallo e per la loro reinterpretazione della realtà attraverso lo stato d’animo – spiega -. Io sono positivo, quindi voglio rappresentare quel mio modo di sentire». Un vortice di gioia e di voglia di vivere.

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«Sono apprezzato da chi di arte “non capisce un tubo”, da chi nella sua vita non ha mai acquistato un quadro, da chi ha comprato una casa perché ha visto un mio dipinto all’interno, la mia arte è definita arte ai massimi livelli, o “non arte”. C’è chi li definisce commerciali, chi geniali, c’è chi mi reputa un artista a tutto tondo e chi mi percepisce come un paraculo. Ho anche dei clienti internazionali, che hanno i miei quadri a fianco ad artisti importanti. Io non saprei chi difendere dei due schieramenti, sono d’accordo. L’unica cosa per ingannare il tempo, a parte l’amore era la pittura. Mi diverte e concordo con chi dice che non siano opere d’arte e con chi afferma che siano dei capolavori».

«Ho preso un sogno e gli ho tracciato le misure. Mi sono seduto a progettarlo con le squadrette».

Non so bene cosa volessi fare esattamente nella vita. Diciamo che ero molto “confuso”. Ho affrontato anche la pittura con questa “incoscienza”. Amavo la storia dell’Arte, mi sono appassionato quando frequentavo il liceo. Poi ho iniziato ad andare per gallerie. “Divoravo” i quadri di Picasso, o di Mirò, volevo capire cosa si nascondesse dietro quelle pennellate. Quel filo sottilissimo che lega l’artista alla follia. Avevo questa confusione, mista alla joie de vivre, all’allegria. Volevo manifestare la mia felicità, attraverso il sole, il mare, i colori. Ho vissuto a Firenze, uscivo di casa e mi immergevo nella città».

Esorcizzare il dolore, l’arte di Bob Marongiu ha anche questo intento. «Ho vissuto gli anni Novanta e mi rivedevo moltissimo nel modo di esprimersi di Jovanotti, di Leonardo Pieraccioni (*il regista possiede due quadri di Bob, n.d.r.), ad esempio. Consapevoli dei propri limiti, ma avevano grande capacità di comunicare con la gente. Io non volevo essere empatico o accomodante con gli altri, ero e sono proprio così. Mi sono sempre sentito un po’ “figlio delle stelle”, una specie di extraterrestre».

«Partivo da Mordillo e da Jacovitti, poi sono arrivati i Simpson. L’occhio di Mordillo era un “puntino”, un po’ stralunato. Gli occhi per me devono invitare al gioco, quell’atteggiamento di volerti coinvolgere».

«Questa era la mia idea. E’ quasi un invito a entrare nel quadro. L’occhio nasce con quell’obiettivo, anche se prima di disegnare gli occhi, c’erano “le Margherite di Bob”. Rappresentavo scene di vita ideale, storie a lieto fine».

«Andavo sempre a comprare i colori e un giorno ho acquistato tutto l’espositore. Per strada, tra i palazzoni marroni, immaginavo le margherite colorate. Ho vissuto un’esperienza forte che mi ha messo in contatto con artisti internazionali. Ero alla ricerca di qualcosa… Ero sempre spinto dalla curiosità e dall’osare il più possibile. A me piace il silenzio totale, la tranquillità, o il demenziale. Mi piacciono gli opposti».

Perché «Non è Bob se non è provocatorio».

***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e dell’autrice. Tutte foto sono state gentilmente concesse da Bob Marongiu, che ha autorizzato la pubblicazione.

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Vivere per il Cinema CARLOTTA BOLOGNINI

Storia di una famiglia romana che ha lasciato un ricordo indelebile nella Storia del Cinema.

*In occasione del Premio Bolognini che si è tenuto a Roma, pubblico un estratto dal mio libro L’Arte di essere Figli (con un anteprima dell’intervista rilasciata dalla produttrice Carlotta Bolognini il 15 luglio del 2022) e vi racconto del Premio Bolognini – Anni D’oro del Cinema a cui ho avuto l’onore di partecipare venerdì 31 gennaio 2025.

di Luciana Satta

 

La voce narrante di Giancarlo Giannini a raccontare un tempo che non c’è più. Sul grande schermo scorrono le immagini di chi quell’epoca d’oro del Cinema italiano l’ha vissuta con gli occhi di un bambino: Renzo Rossellini, Ricky Tognazzi, Simona Izzo, Fabrizio e Fabio Frizzi, George Hilton, Danny Quinn, Alessandro Rossellini, Vera Gemma, Francesco Frigeri, Claudio Risi e tanti volti ancora, “Testimoni del tempo, del tempo dei nostri padri”.

 

 

Questa è la storia della produttrice cinematografica Carlotta Bolognini. Della sua infanzia trascorsa a “respirare Cinema” con suo padre Manolo, produttore cinematografico e con suo zio Mauro, regista. Figli del Set è il docufilm tratto da una sua idea per la regia del catanese Alfredo Lo Piero in cui ricorda la sua storia di figlia d’arte cresciuta sui set cinematografici. Un invito a cena nato dalla decisione di rivedere i suoi amici d’infanzia, i figli d’arte. Seduti intorno a un tavolo, con suo padre Manolo, nel suo film rievoca con nostalgia e attraverso foto, filmati, testimonianze e racconti, cinquant’anni di storia del Cinema. Una macchina dei sogni che andava dritta al cuore e alla testa degli spettatori. «Eravamo una famiglia molto legata – racconta – . Mio papà e mio zio non solo erano fratelli, ma i migliori amici l’uno dell’altro. Mio zio Mauro è stato un secondo papà per me e per mio fratello Andrea. Quando non c’era lui, c’era zio. Era un rapporto bellissimo». «Figli del set è nato dalla nostalgia che avevo del set e di tutte quelle persone che avevo conosciuto e che, purtroppo, non ci sono più. Mio papà me lo sono goduto fino al 2017, perché è morto a novantadue anni, ancora superattivo, stava preparando il Ritorno di Django, probabilmente il suo film prediletto. Zio Mauro invece purtroppo è scomparso nel 2001, dopo cinque anni di Sla, una malattia terribile».

Il docufilm ha partecipato come evento speciale al Giffoni Film Festival a Taormina, encomio del Presidente della Repubblica Mattarella, ventesimo su centoventuno ai David di Donatello, evento al Festival di Taormina.

 

 

Quello che mi colpisce maggiormente di Carlotta Bolognini è la sua straordinaria umiltà e dolcezza, doti che rendono difficile credere di essere di fronte a chi ha ricevuto tutti questi riconoscimenti: Premio “Donna che fa la differenza 2014”, in Campidoglio; Premi “Gianni Di Venanzo”, “ITFF international Film Festival”, “Premio Circeo”, ” Musa d’argento”, “Dea alata” a Venezia”, “Premio alla memoria Mauro Bolognini”, “Premio alla memoria Manolo Bolognini”, “Premio CortoDino Film Festival”, “Premio speciale Cinema, l’eco del litorale Anzio”, “Premio speciale Le donne nell’Arte”, “Premio Raf Vallone”, “Premio S.Te.P Festival, Teatro”. Tra questi, anche il Premio Apoxiomeno a Forte Dei Marmidove si è svolta la XXIV edizione del Premio internazionale Apoxiomeno, prestigiosa manifestazione promossa dell’International Police Association (Ipa) in collaborazione con l’Associazione Arte di Apoxiomeno.

«Essendo nata sul set, era quasi inevitabile – racconta -. Mio papà si è sposato mentre stava realizzando Il generale Della Rovere (1959, regia di Roberto Rossellini, n.d.r.), con Vittorio De Sica, al Teatro 5 degli Studi di Cinecittà a Roma. Ha detto: «Scusate, mi assento due o tre ore e torno!». È andato a sposare mia mamma e sono tornati al Teatro 5. Quindi io e mio fratello siamo nati e cresciuti sui set. Il mio primissimo film, è stato Django. Avevo cinque anni e una grande voglia di lavorare. Stando sul set ero la mascotte della troupe, la piccolina che saltava da un reparto all’altro, andavo al trucco, al parrucco. Mi infilavo in mezzo ai costumi e nelle ceste. A cinque anni dicevo: «Papà ma io voglio lavorare!». E lui: «Ma dove vai che sei piccolina!». Invece poi mi mise accanto (probabilmente per farmi stare buona) la segretaria di edizione, Patrizia Zulini, e mi raccomandò di stare attenta a tutti i particolari e di controllare se fossero presenti degli errori. Da lì ho ereditato la precisione nel lavoro, sto sempre molto attenta agli sbagli e che tutto sia collegato».

 

 

«Mio zio mi teneva tra le braccia spesso affinché controllassi quando era in moviola
(è il nome di un sistema elettromeccanico utilizzato per la visione rallentata di filmati, n.d.r.), davanti alla mitica Catozzo  (un tipo di giuntatrice specifica del montaggio dei film inventata da Leo Catozzo e utilizzata dai montatori cinematografici di tutto il mondo, fino all’avvento del montaggio digitale, n.d.r.). Ho da sempre avuto questa “febbre”. In Figli del Set ho voluto la stessa segretaria di edizione di Django. È stato il suo ultimo lavoro nel cinema, siamo ancora amiche».

 

ph. Giancarlo Fiori

 

«Del Cinema del passato mi manca tutto. Dalle persone al modo di lavorare e di filmare… il digitale ha tante convenienze, opportunità, agevolazioni, però la pellicola aveva un altro sapore, c’erano macchine enormi che venivano sollevate da tre macchinisti. Era tutto più artigianale, con le scatole delle pizze si facevano i portaceneri! (ride, n.d.r.). Adesso è tutto digitale. Nell’ultimo corto che ho realizzato abbiamo girato in una stanza dove c’erano i monitor, apparecchi sofisticati. Non si vive il set. Un tempo era un Cinema di tipo artigianale, stavamo tutti insieme».

 

 

Quali sono i valori più grandi che ha ereditato da suo padre e da suo zio, che le restano e che porta sempre con sé?

«L’onestà sempre, in tutto, il rispetto verso gli altri e verso il lavoro degli altri. Il riguardo per se stessi, per la famiglia, per gli amici. Zio aveva un grande rispetto per l’amicizia. Zeffirelli e Tosi erano suoi amici. 

Valori rarissimi in quest’epoca…

Purtroppo sì, ma io dico sempre che preferisco “mangiare pane e cipolle”, ma rimanere pulita, corretta, onesta. Fino all’ultimo».

Una storia immensa, quella dei Bolognini, raccontata in Compagni d’arte, il nuovo docufilm diretto da Carlotta Bolognini e Fabio Luigi Lionello presentato a Roma lo scorso ottobre. Al centro della pellicola i giganti del Cinema italiano, di cui non si deve perdere memoria: da Mauro e Manolo Bolognini a Franco Zeffirelli, da Anna Allegri a Piero Tosi.

 

 

Venerdì 31 gennaio nella Sala della Regina di Montecitorio si è svolta la IV edizione del Premio Bolognini, alla presenza di tanti grandi professionisti del Cinema. «In occasione del centenario del mio papà – ha spiegato Carlotta Bolognini – ho voluto accanto a me un suo amico con il quale ha fatto cinque film: Franco Nero».

«Ho dei bellissimi ricordi di tuo padre – ha detto l’attore Franco Nero – ricordo in particolare la sua voce. Gli dicevo “Ma tu devi fare il doppiatore!”. Lui è stato il produttore del vero Django, nel 1966».

 

ph. Luciana Satta

***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e dell’autrice. Le foto private della famiglia Bolognini sono state gentilmente concesse da Carlotta Bolognini per il mio saggio L’Arte di essere Figli.

https://www.carlodelfinoeditore.it/scheda-titolo.aspx?isbn=9788893613040

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L’essenza di un fotografo. ROBERTO PINTUS

di Luciana Satta

Ci sono storie che vanno urlate. Anche se, come ricorda Roberta – una delle donne protagoniste della mostra e del calendario Le urla delle donne – ideati e realizzati dal fotografo Roberto Pintus – a volte la violenza non fa rumore e non lascia lividi, ma fa comunque a pezzi (*cit. Susanna Casciani).

Donne riprese in momenti di vita quotidiana, durante la loro professione, o nel tempo libero. Di contro, quello sguardo attento, intimo, l’occhio del fotografo che è l’anima della donna, quasi la sua coscienza, sguardo indagatore dietro quell’immagine apparente mostrata agli altri.

L’esposizione fotografica Le urla delle donne è stata patrocinata dal comune di Sassari e inaugurata lo scorso 25 novembre – in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne – a Palazzo Ducale. Ospitata fino al 7 dicembre, è diventata un calendario i cui proventi saranno devoluti al Progetto Aurora. Protagoniste dodici donne. «Con questo mio progetto – spiega Pintus – ho voluto creare dodici racconti che mostrassero cosa si può nascondere dietro il sorriso di una donna. È stato complicato portare a termine tutto il lavoro, ci sono voluti cinque mesi per realizzarlo. Ho scelto donne comuni, non modelle. Alcune di loro non avevano mai posato.

Ero preoccupato, perché non sapevo come il mio progetto potesse essere percepito dall’esterno. Attraverso le mie foto ho voluto mostrare ciò che può celarsi dietro l’immagine di una donna “felice” e mostrare i diversi aspetti della violenza, dalla psicologica, alla fisica, alla verbale».

«Un giorno – prosegue il fotografo – ho assistito ad una scena che mi ha colpito particolarmente e mi ha fatto riflettere. Passavo per strada e si è aperta una finestra, si è affacciato un uomo che, mentre stendeva i panni, si rivolgeva ad una donna insultandola e dicendole: Non sai neanche stendere! Lei piangeva».

Secondo i dati del Ministero degli Interni dal primo gennaio al 22 dicembre 2024 in Italia si registrano 300 omicidi, con 109 femminicidi. 109 vittime sono donne. Un fenomeno che a volte è silente. Perché la violenza non è solo fisica. Rompere il silenzio attraverso il linguaggio per immagini. Sono foto “potenti”, che arrivano come urla inascoltate. Questo è il messaggio di Roberto Pintus.

Un incontro casuale, quello tra Roberto Pintus e la fotografia. Una passione nata nel 2012. I suoi scatti messaggi portatori di cultura, di arte e di sensibilità. Oggi le sue fotografie sono racconti della Stagione teatrale del Ce.DA.C di Sassari, per La Grande Prosa & Danza al Teatro Verdi e al Teatro Comunale.

«Mio fratello, Tore Pintus (*Responsabile Circuito Teatro e Danza Ce.DA.C Sassari), aveva necessità di un fotografo per la Stagione teatrale. Odiavo fotografare a teatro, non era un genere che mi piaceva. Ora lo adoro».

 

«Diversi attori e attrici, come Caterina Murino, Anna Foglietta hanno apprezzato i miei lavori, anche tanti ballerini, alcune Compagnie teatrali hanno scelto le mie foto. Mi manca quando non scatto».

«Sono stato il fotografo ufficiale di Miss Grand Prix, Miss Blumare, per sei anni. Ma sono autodidatta, è nato tutto per passione. Ho iniziato per “gioco”. All’inizio mi piaceva fotografare la natura e i paesaggi. Ho iniziato a fare caccia fotografica, mimetizzato. Ho realizzato la mia prima mostra nel 2014 a palazzo Ducale a Sassari, in sala Duce. Si intitolava Un solo momento».

ph. Roberto Pintus

«Nel 2012 mi hanno chiesto di partecipare ad un Workshop fotografico. Ho conosciuto un gruppo di fotografi che si chiama Riscatto foto libera e ho legato con Giammario Cherchi, che in seguito si è appassionato alla caccia fotografica e all’infrarosso. La mia curiosità per l’infrarosso è nata anni fa. Mi aveva colpito una immagine scattata sul lago di Gusana, realizzata con questa tecnica. Mi piacciono le foto di Simone Pollastrini, siamo diventati amici. Amo particolarmente il filtro 590, che trasforma il colore verde in giallo oro».

«Dicevo: «Non diventerò mai bravo!».

***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e dell’autrice. Tutte foto sono state gentilmente concesse da Roberto Pintus, che ha autorizzato la pubblicazione.

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MASSIMO MANCA I coltelli di Pattada orgoglio dell’Isola nel mondo

di Luciana Satta

Il martello che batte sull’incudine. La sega nastro che taglia il corno. La raspa e la lima per le rifiniture. Quelli che per tutti sono percepiti come “rumori”, per un maestro forgiatore come Massimo Manca si trasformano in suoni. Suoni familiari che ogni giorno, da vent’anni, lo accompagnano nel suo laboratorio alla ricerca della perfezione nella costruzione di un oggetto diventato l’orgoglio dell’Isola nel mondo: sa resolza, il coltello di Pattada (***A serramanico, la sua lama viene realizzata in diverse lunghezze).

 

Simbolo di identità culturale, con la sua tipica lama “a foglia di mirto”, sa resolza ha una storia secolare. «L’utilizzo dei materiali – spiega l’artigiano – era il corno, che si ricavava dal bestiame per realizzare i manici. Il metallo, perché in antichità in Sardegna erano presenti vari giacimenti ferrosi. Le prime attestazioni risalgono al 1800. Era il coltello che il pastore possedeva per qualsiasi esigenza. Ora è un oggetto prezioso, ma realizzato con materiali semplici. Quella è la base».

«La mia intenzione – prosegue – era (ed è) di trasformarlo, utilizzando anche materiali preziosi. Considera che uno dei miei coltelli ha 331 diamanti. Ci vuole il mercato giusto, non sono oggetti che espongo nel mio laboratorio, perché chi viene qui da me cerca il coltello classico. Chi viene a Pattada vuole il coltello tradizionale, cerca la Storia».

 

 

Una tradizione destinata all’estinzione, come tante – purtroppo. «È un’arte che si perderà, la mia attività inizia con me e finirà con me. Nessuno mi ha mai chiesto di imparare, molti artigiani e tradizioni si perderanno».

Lucio Dalla aveva, sulla sua scrivania, un coltello realizzato da Massimo Manca. «È ancora nel suo studio – racconta l’artista di Pattada – glielo regalò un cugino. Lo utilizzava come tagliacarte».

 

 

Da Montecarlo a Dubai, da Londra alla Corsica. Oggetto da collezione, orgoglio dell’Isola, il coltello di Massimo Manca è arrivato in diverse parti del mondo. Dalla famiglia reale del Principato di Monaco, dal principe arabo Hamdan Al Maktoum di Dubai. «Sette anni fa ho ottenuto una vetrina esclusiva nell’hotel Burj Al Arab. Avevo sempre la passione per questo hotel, è particolare perché ha una forma che riproduce una vela. Ho provato a realizzare un coltello, perché la vela ne ricorda la forma. Ho conosciuto un signore che trascorre le giornate in questo hotel e tramite lui sono stato contattato dal direttore».

 

 

«Sono stato invitato a Dubai e ho consegnato personalmente un coltello al direttore del Burj Al Arab; inoltre, attraverso l’interprete, gli è stata raccontata la storia ed è rimasto affascinato. Non sapeva come sdebitarsi per questo omaggio e mi ha proposto di realizzare lo stesso coltello, in formato più piccolo, poi mi ha chiesto di creare circa dodici pezzi, destinati alla vendita nelle boutique dell’hotel. Per un piccolo artigiano come me è stato un evento incredibile».

 

 

«Nel 2007 Ferrari organizzò un tour mondiale, con circa duecento Ferrari che hanno girato il mondo. Ogni Stato o regione interessato offriva un omaggio della propria tradizione. Sono arrivati in Sardegna, da Porto Cervo a Cagliari. Mi hanno scelto per realizzare i coltelli, sono gli unici al mondo con il marchio Ferrari».

 

 

Gli appassionati sono numerosi e alcuni coltelli sono delle rarità. «Vengono venduti ai collezionisti, molti vogliono acquistare il coltello di Pattada perché hanno sentito la storia. Molti lo acquistano per regalarlo. A Bolotana, ad esempio, ho creato dodici coltelli per uno sposo che ha voluto donarli come “bomboniera”. È un simbolo. Richiedono moltissimo anche i set da tavola. Poco prima dell’estate ho creato 120 pezzi per un ristorante in Corsica, un altro centinaio per l’Harris bar di Londra, altri pezzi ancora per un privato, sempre a Londra».

 

 

«Da quattro anni la mia attività sta andando tantissimo, grazie soprattutto ai sacrifici e all’impegno. Ho iniziato in un momento molto complicato della mia vita. Avevo alle spalle un lavoro andato male ma, grazie a Dio, ho sempre avuto una buona manualità e il lavoro manuale è sempre stato fondamentale per me ma, non essendo figlio di un artigiano, è stato difficilissimo. Lo considero “un dono”».

Un dono, per il quale Massimo Manca ringrazia soprattutto sua madre, che vent’anni fa lo ha incoraggiato a intraprendere quest’arte e a realizzare i suoi meravigliosi coltelli.

 

 

***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e dell’autrice. Tutte foto sono state gentilmente concesse da Massimo Manca, che ha autorizzato la pubblicazione.

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La voce di FRANCA MASU Dalla terra al cielo

di Luciana Satta

Ci sono donne capaci di illuminare i luoghi solo con la loro presenza. Ci sono artiste che con la loro voce sanno arrivare dalla terra al cielo. La luce, immagine che resta più vivida e impressa nella mente, alla fine di un concerto speciale che ha visto lei, Franca Masu, protagonista raffinata, trasmettere amore, fare vibrare ad unisono i cuori di tantissime persone arrivate anche dal sud dell’Isola fino ad Alghero, nella Cattedrale di Santa Maria, per ascoltarla. Ad accompagnare la cantante algherese, i suoi musicisti Fausto Beccalossi (accordeon), Luca Falomi (chitarra) e Salvatore Maiore (violoncello e contrabbasso). Canzoni che diventano preghiere.

ph. Luciana Satta

 

Protagonista, questa volta, non è il mare, elemento che da sempre la accompagna. Comunque presente, nel suo pensiero sulle migrazioni. Resta il viaggio, l’incontro tra popoli e culture differenti, le mescolanze linguistiche, il desiderio di pace, la fratellanza.

 

video Luciana Satta

 

Da Ennio Morricone a Mia Martini, da Noa a Franco Battiato, fino a Sergio Endrigo. Scelte musicali che segnano la profondità di una serata dove non esiste barriera tra sacro e profano. Si valicano i muri, si abbattono i confini. Volesse il cielo di Mia Martini torna, ancora una volta, con la forza del suo testo, a comunicarci la necessità di comprensione, sapere rinascere anche quando si è spezzati, rifiorire in un tempo malato, in una società ormai confusa. Forse per questo, non a caso, acquista ancora più senso e valore la scelta di cantarla all’inizio, dopo l’apertura affidata ai musicisti e al tema Deborah’s Theme di Morricone, da C’era una volta in America.

 

ph. Luciana Satta

 

È una serata di condivisione, dove tutto è un fluire armonico. I versi nascono da una suggestione, svelano il senso del mistero e arrivano chiari, accompagnati dalla melodia. Nel silenzio quasi surreale il pubblico si fa cullare dalla voce di Franca Masu. Suoni e parole rimettono in ordine emozioni sopite, nel suo abbraccio simbolico all’Umanità.

 

Dalla terra al cielo, produzione di Franca Masu, è uno degli appuntamenti del cartellone del Cap d’Any de l’Alguer 2024/25 del Comune di Alghero.

Allestimento scenico: Tonino Serra, in collaborazione con Marco Velli. Regia del suono e delle luci: Jo Erre di Artesonos.

***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e dell’autrice.

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SIMONE CRISTICCHI in FRANCISCUS

Il folle che parlava agli uccelli apre la stagione del CEDAC

Riflessioni, canzoni inedite, domande si alternano in un gioco di chiaroscuri. Con Franciscus/ Il folle che parlava agli uccelli Simone Cristicchi porta sul palco del teatro Verdi di Sassari per la prima del CEDAC, tutta la sua sensibilità, alter ego di «Franciscus, il rivoluzionario, l’estremista, l’innamorato della vita. Franciscus che visse per un sogno. Il folle che parlava agli uccelli e che vedeva la sacralità e la bellezza in ogni dove: nel volto di una persona, nello sguardo di un animale, ma anche nel sole, nella morte, nella terra su cui camminava insieme agli altri».

Al centro della scena, i grandi temi dell’Umanità: la vita e la morte, la gioia del donarsi, il dolore, la guerra interiore e tra gli uomini. La follia. Perdersi per ritrovarsi. E uno scambio intenso e profondo con il pubblico.

ph. Roberto Pintus

 

Simone Cristicchi veste Francesco D’Assisi di contemporaneità, attraverso i suoi occhi di artista viscerale, quando toglie il copricapo e svela se stesso con le sue mille domande sul senso dell’esistenza e attraverso lo sguardo di Cencio, personaggio centrale, quando il copricapo lo indossa insieme agli abiti di tela di sacco.

Foto di Roberto Pintus

Cencio, lo “straccivendolo”, voce narrante, non comprende la scelta di Francesco, è specchio dei suoi detrattori. E’ alla fine, nella sofferenza, che coglie il significato del suo messaggio.

ph. Roberto Pintus

«Mi era necessario approssimarlo , sia nel senso di avvicinarlo, tramite approfondite letture, conferenze, e visite nei suoi luoghi; sia nel senso di semplificarlo, per poterlo comprendere e sentire accanto, correndo il rischio di essere impreciso, insolente, insolito – ha spiegato Cristicchi -. Così è uscita fuori l’idea che ho di lui. Il mio Francesco. Non riuscivo a mettermi nei suoi panni, perciò me li sono fatti prestare da Cencio».

 

ph. Roberto Pintus
ph. Roberto Pintus

di e con Simone Cristicchi
scritto con Simona Orlando
canzoni inedite di Simone Cristicchi e Amara
musiche e sonorizzazioni Tony Canto
scenografia Giacomo Andrico
luci Cesare Agoni
costumi Rossella Zucchi
aiuto regia Ariele Vincenti
produzione Centro Teatrale Bresciano, Accademia Perduta Romagna Teatri
in collaborazione con Corvino Produzioni

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ALGHERO, mille storie e mille passati

***Reportage di Luciana Satta

ph. Luciana Satta

Una città dalle mille storie e dai mille passati, che ha visto il susseguirsi di popoli differenti, dai Fenici, ai Bizantini, dai Pisani ai Genovesi. Ma l’anima di Alghero è catalana. E il suono delle voci, la lingua, le case, i volti della gente svelano subito questa sua indole. Non a caso la città è conosciuta come la “Barceloneta d’Italia”. O più spesso “Riviera del Corallo”, perché nei fondali marini di Alghero il cosiddetto oro rosso, uno dei più pregiati al mondo, da sempre trova il suo habitat naturale. Tutto concorre a fare del territorio algherese, come scriveva nel 1891 Gaston Vuillier nelle sue Isole dimenticate, un luogo altro rispetto al resto della Sardegna. Un luogo che si presta alle più svariate forme di turismo. Perché ad Alghero non si viene solo per la costa, per le splendide spiagge di roccia, di ciottoli, di sabbia fine, protette dalla macchia mediterranea, per le cale riparate dai forti venti di maestrale. Chi arriva in città non si accontenta della semplice escursione. Vuole inoltrarsi in un percorso ricco di fascino e di storia. Viaggiatori di ogni età si mescolano tra i residenti e fanno vivere non solo d’estate ma ormai tutto l’anno le vie e i vicoli più antichi e suggestivi dell’Alguer, che dal mare appena fuori dal porto mostra l’imponenza delle sue antiche mura.

ph. F.H. ph. Luciana Satta

Approdo di notevole rilevanza strategica, Alghero deriva il suo nome dalla quantità di vegetali marini deposti sul litorale dalle correnti. Nasce così l’Algerium, secondo la forma latina riscontrata nei documenti dei Doria, S’Alighera in sardo e l’Alguer in catalano. Racchiuso tra i bastioni, visibile dal mare, nell’antico borgo si staglia uno dei monumenti più significativi della città: la cattedrale di Santa Maria, del XVI secolo. Il suo campanile, con le eleganti forme gotico-catalane e la cupola di San Michele, con le caratteristiche maioliche policrome, spiccano nel cielo azzurro, il colore vivido caratteristico del Nord Sardegna.

 

ph. Luciana Satta

Sono scorci e panorami incantevoli, trionfo di questa perla del Mediterraneo, segno delle memorie del passato, da quando nel 1353 la flotta aragonese, comandata dall’ammiraglio Bernart De Cabrera, ebbe la meglio su quella genovese, nella celebre battaglia di Porto Conte. Dopo aver lasciato la città nelle mani del barone Gispert de Castellet, e con la partenza del Cabrera a Cagliari, gli algheresi si ribellarono ai nuovi dominatori. Ma l’anno successivo, Pietro IV d’Aragona riconquistò la Fortezza. Da allora e per ben quattro secoli gli aragonesi divennero protagonisti indiscussi della storia dell’Alguer, quando Pietro IV decise di allontanare dalla città tutti gli abitanti originari per ripopolarla con le genti della penisola Iberica.

Ad Alghero si tocca il segno di questa forte identità. Nelle rime dei suoi poeti, nelle canzoni, nelle associazioni che lottano per conservare intatta la tradizione e in tutte le iniziative che l’amministrazione comunale promuove per divulgare l’immagine di una città che mai dimentica questo stretto legame di sangue.

ph. Luciana Satta

Un altro luogo degno di nota della storia culturale di Alghero, esemplare raro in Italia e unico in tutta la Sardegna, è il Teatro Civico, della seconda metà del XIX secolo. Qui si sono svolti e si svolgono prestigiosi Convegni e spettacoli di prosa e di lirica. L’idea di una struttura adeguata ad accogliere le rappresentazioni teatrali nacque in seguito all’interessamento della “Società degli armatori del teatro”. L’architetto Franco Poggi diede quindi il via ai lavori. Nel 1982 la città aveva il suo teatro, con quattrocento posti tra la platea, i tre ordini dei palchetti e il loggione. Attualmente si presenta come un piccolo gioiello, con i suoi 284 posti e una struttura portante interamente di legno, caratteristica principale dell’edificio.

ph. https://museialghero.it/teatro-civico/

Bastano pochi minuti dal centro storico della città per raggiungere uno degli arenili più lunghi dell’Isola, Il Lido di Alghero, o Lido di San Giovanni, che prosegue fino alla spiaggia di Maria Pia.

ph. Luciana Satta

E poi i colori caldi della macchia mediterranea non si spengono. Dopo aver superato la frazione di Fertilia, passando dalle spiagge più note della marina, le Bombarde e il Lazzaretto, si arriva a Mugoni, racchiusa nel golfo di Porto Conte. E ancora, mete indimenticabili sono la Cala Dragunara, fino alle insenature nascoste, irte e per questo meno frequentate, come le calette del Lazzaretto, le rocce rosse di Cala Viola, vicino al Porticciolo e la Bramassa, nei pressi di Punta Giglio. Il promontorio di Punta Giglio delimita a Est quello che era l’antico Portus Ninpharum dei romani, il porto naturale più vasto del Mediterraneo: la Baia di Porto Conte.

ph. Luciana Satta

Nella parte più interna della Baia si trova la lunghissima spiaggia di Mugoni, annunciata dalla pineta. Quindi la costa riprende a salire fino a culminare con le pareti a strapiombo sul mare di Punta Semaforo, a Capo Caccia, e Punta Cristallo. Non si può dimenticare, inoltre, la cala di Tramariglio, a Capo Caccia, all’interno del grande Golfo di Alghero, che offre agli occhi dei visitatori uno spettacolo naturale incantevole. Un tempo era la sede di una colonia penale, ora è a tutti gli effetti un centro turistico. Su un piccolo promontorio sorge la Torre di Tramariglio, di età spagnola, costruita alla fine del Cinquecento.

Ph. Luciana Satta

Nel 1999 Porto Conte, Capo Caccia divennero Parco Regionale. Qui, all’interno della Foresta demaniale “Le Prigionette”, vivono specie animali e vegetali rare, salvaguardate da convenzioni internazionali. Oltre alla ginestra, all’elicriso, al corbezzolo l’area protetta ospita la Centaurea Horrida, presente in Sardegna solo a Tavolara e all’Asinara. Tante anche le specie animali che sono state reintrodotte nella zona, dal cinghiale, al daino, ai cavallini della Giara, fino al Grifone.

Sul lato ovest di Capo Caccia, aperta al pubblico con visite guidate per tutto l’anno, la maestosa Grotta di Nettuno richiama migliaia di visitatori di varie nazionalità. Sono attratti non solo dalla risonanza storica, ma anche dalla imponenza di questa meraviglia geologica, con i suoi cunicoli angusti, la trasparenza delle acque al suo interno, le gallerie. Una grotta che ha un’ampiezza di 2.500 metri, considerata ad oggi una delle più interessanti in tutto il Mediterraneo.  Può essere raggiunta con il servizio barche che, partendo dal porto o dalla Cala Dragunara, nei pressi di Capo Caccia, permette di ammirare lo splendido scenario naturale della Riviera del Corallo. O ancora, via terra, raggiungendo il promontorio di Capo Caccia dopo un percorso in auto di circa 24 chilometri. Si scende poi sul lato occidentale, lungo una suggestiva gradinata di 654 scalini, costruita nel 1954: la Escala  Cabirol. Tanti gli scrittori che in passato ne furono affascinati. Tanti i principi e i re che la vollero visitare. Tra questi Carlo Alberto di Savoia, che la vide in tre circostanze. Nel 1829, quando era Principe di Carignano e nel 1841 e nel 1843, come sovrano del Regno di Sardegna.

 

ph. Luciana Satta

Quasi parallela alla Grotta di Nettuno grande rilievo dal punto di vista archeologico ha la Grotta Verde o di Sant’Elmo; e poi, ancora, il Monte Doglia, punto panoramico sull’intero golfo algherese e lo stagno di Calich, patrimonio ambientale al centro dell’attenzione degli studiosi.

Ma Alghero è anche luogo di interesse archeologico. Tra Alghero e Capo Caccia si trova il Complesso Nuragico di Palmavera.

ph. Luciana Satta

Sulla strada dei due mari, verso Porto Torres, invece, si trova la necropoli di Anghelu Ruju, uno dei più grandi complessi di Domus de janas dell’Isola. Sulla strada verso il paese di Ittiri sorge invece un’altra necropoli, quella di Santu Pedru.

Ad Alghero sembra non arrivi mai il tempo per annoiarsi. È una città dove gli appuntamenti con la tradizione e con l’innovazione si rinnovano continuamente, d’estate e d’inverno. I concerti, dal Festivalguer che nella stagione estiva porta in città artisti di fama internazionale, la festa del patrono, San Michele, il Cap D’Any, e i numerosi eventi che si susseguono senza tregua, lasciano ricordi indelebili in chi ha avuto la fortuna di conoscere questa città.

 

ph. Luciana Satta

ph. Luciana Satta

***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza l‘autorizzazione dell’autrice

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“VOLEVO ESSERE UNA FARFALLA”

“La lunga notte” dei Figli d’Arte Medas

di Luciana Satta

La lunga notte di Raffaella. Dove le emozioni e i ricordi vagano, alla ricerca di un “perché”. Dove lei attende che qualcuno un giorno sciolga i nodi della matassa dei suoi pensieri che all’imbrunire si ripresentano per terminare all’alba, quando suo padre la chiama per andare a scuola. Ha dodici anni, Raffaella. Come una farfalla, immagina di volare via. Di librarsi in volo e di liberarsi da quel piccolo mondo che non la comprende, fatto di gesti e parole crudeli che arrivano dai coetanei, ma anche dagli adulti.

Cala la notte e, puntuale, la giostra dei suoi pensieri non si arresta.

Così una ragazzina di dodici anni diventa come uno specchio, di fronte al quale lo spettatore non può riflettere se stesso con indifferenza. Lo spettacolo invita a rompere le barriere del moralismo e dei pregiudizi sul tema dei Disturbi Specifici del Linguaggio. La difficoltà di comunicazione di una ragazza che si affaccia al mondo con difficoltà e sofferenza diventa specchio della mancanza di comunicazione dei nostri tempi. Il non capire e il non capirsi. Respingere ciò che è “altro” rispetto a noi, a causa delle nostre abitudini radicate e strutturate.

L’attrice Sofia Quagliano ph. Luciana Satta

«Vengo qui un po’ come un pellegrino – afferma il regista, Franz di Maggio, al termine dello spettacolo -. Sono ligure, di adozione, poi ho vissuto a Pavia. Per tanti anni ho visto gli spettacoli di Gianluca Medas e ho sognato un giorno di poter lavorare con lui. Un giorno ha fatto una cosa straordinaria: ha preso un aereo, è venuto a Pavia e mi ha chiesto di fare la regia di questo spettacolo. Sono onorato e felice di questa occasione che mi ha dato e onorato e felice di lavorare con queste persone che sono qui accanto, Sofia Quagliano e Nicola Agus».

Il polistrumentista Nicola Agus ph. Luciana Satta

La Lunga notte – Volevo essere una farfalla (di Gianluca Medas, regia di Franz di Maggio, con Sofia Quagliano, musica dal vivo Nicola Agus) è andato in scena sabato 23 novembre ed è inserito nel cartellone del XXXIV Festival Etnia e Teatralità della Compagnia Teatro Sassari.

Un altro momento dello spettacolo al teatro Astra ph. Luciana Satta

 

***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte

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ALESSANDRO BARICCO in “ABEL CONCERTO”

di Luciana Satta

Farsi trasportare dalla musica, dalle parole. Perché Abel Concerto fa “entrare lo spettatore in un fiume”. “Lasciate andare”, dice Alessandro Baricco al pubblico del Teatro Verdi, glielo sussurra, con quella voce calma che lo fa entrare in una danza, in un vortice dove la frase e il suono si fondono e si confondono, scivolano, lo accompagnano, lo cullano in un mare di grazia e di leggerezza. Insieme allo scrittore torinese, Cesare Picco, Roberto Tarasco e Nicola Tescari. “Ho scelto tre musicisti che mi piacciono molto, perché mi accompagnassero, e sono a loro molto grato”.

“Non è importante se avete letto il libro, non è neanche molto importante se capite bene la storia… Ho pensato di scegliere alcune pagine.

Sono colori, paesaggi, personaggi qua e là, frasi, cose che accadono ma, soprattutto, mi piacerebbe che entraste in questa specie di corrente di suono di questo Western”.

“Quando pensavo a questo libro non sapevo bene esattamente cosa volessi fare, ma avevo in mente una storia di pirati. Seguivo queste storie. Ero stato su un grande fiume sudamericano, enorme, caldo terrificante… alla fine ho scelto un Western, è un genere magnifico, io lo amo molto. È la storia di un pistolero fantastico, che per strada perde le ragioni per sparare. Ma le perde con leggerezza e gioia”.

Abel Concerto è “per Baricco un’esperienza sonora”, per noi che ascoltiamo rapiti un dialogo intimo. “I narratori sono strani – afferma lo scrittore – Porto qua questo mondo strambo che ogni tanto mi nasce in testa”.

Credits: Mattia Uldanck

Baricco ritorna a Sassari dopo tanto tempo, “dopo un secolo”, dice lo scrittore. Dal suo primo romanzo, Castelli di Rabbia (1991), a Oceano mare, da Novecento, tradotto in ventitré Paesi, a Seta, il suo successo è stato enorme. “E’ strano, noi scriviamo libri e si pensa spesso che scriviamo cose che ci sono successe. Non vorrei che mi prendeste per pazzo, ma voi non avete idea di quante cose si scrivono e non ci sono successe, ma ci succederanno. Spesso sono Profezie”.

L’evento al teatro Verdi di Sassari è stato organizzato da Le Ragazze Terribili in collaborazione con Mister Wolf per la quinta edizione del Festival letterario Fino a Leggermi Matto-Musica tra le pagine. Abel Concerto è una produzione Savà Produzioni Creative e Feltrinelli, in collaborazione con Scuola Holden, che nel 2024 celebra 30 anni dalla fondazione.

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GIUSEPPE BIASI

Alla Pinacoteca di Sassari le sue opere straordinarie

Processione in Barbagia (olio su tela) ph. Luciana Satta

Quando si viene quaggiù per guardare le cose da vicino… e non si viaggia come le sardine dentro a una scatola o come le acciughe, in un barile… non si fa fatica a comprendere che questo non è un popolo barbaro. E la sua civiltà è nobile e antica“.

Giuseppe Biasi

Così il pittore Giuseppe Biasi descriveva la sua amata Terra.

La Sardegna, che era sempre stata descritta dagli antropologi dell’epoca come un luogo derelitto, oppresso dalla fame e devastato dalla malaria e dal banditismo, riconquistò, finalmente, nelle opere di Biasi, la sua dignità.

Proprio a questo straordinario artista del Novecento è stata dedicata nel 2008 una esposizione all’ex Convento del Carmelo. Si trattava del cosiddetto “Fondo Biasi”, la collezione delle opere di proprietà dell’Amministrazione regionale, il più significativo corpus di lavori mai esposti fino ad allora.

La mostra, curata da Giuliana Altea e allestita da Antonello Cuccu e dalla Ilisso, comprendeva 283 oli, tempere, ma anche chine, linoleografie e xilografie.

2024 – La collezione è stata esposta, a distanza di anni, alla Pinacoteca nazionale di Sassari, in piazza Santa Caterina, in un allestimento nuovo, curato dalla direttrice Maria Paola Dettori.

La mostra alla Pinacoteca nazionale di Sassari

Resterà aperta, in tutto il suo splendore, fino a gennaio del 2025. In alcune sale del museo, gestito dalla direzione regionale musei della Sardegna, sono presenti dipinti, incisioni, la produzione grafica e le opere dedicate al periodo africano.

Un viaggio a tutto tondo nell’arte di Biasi, attraverso i diversi aspetti della sua produzione: dalla pittura al disegno, fino all’incisione. Il Fondo Biasi fu acquistato nel 1956 e fu conservato nei depositi della Soprintendenza di Sassari, finché nel 1984 fu esposto in due mostre, a Sassari e a Nuoro. Nel 2004, poi, la regione la affidò in custodia al comune di Sassari in due differenti depositi, in via di una sistemazione definitiva.

Alcuni dei dipinti più significativi sono stati restaurati.

Il Caffé (olio su faesite) e di seguito particolari del dipinto ph. Luciana Satta

Nei 1.600 metri quadri di spazi espositivi nel 2008 si era evitato di separare le opere che raccontano l’Isola da quelle che evocano l’Africa, preferendo piuttosto un ordine cronologico, mettendo così in evidenza l’evoluzione del linguaggio dell’artista. Allo stesso tempo le opere pittoriche non erano state separate da quelle grafiche, per dare maggiore risalto al legame inscindibile tra i due settori.

Uscita dalla chiesa (olio su tela) ph. Luciana Satta

La Sardegna popolare e l’Africa vivono attraverso gli occhi di questo artista sardo influenzato dalla pittura secessionista e espressionista.

Il Fondo Biasi raccoglie l’intera opera del pittore. Dal decorativismo degli anni Dieci di alcune grandi tele, all’olio Processione in Barbagia, “Dove lo sguardo dello spettatore si sposta bruscamente dalle figure in primo piano immerse nella penombra, sullo sfondo del paese illuminato dal sole. Questo quadro segnò il debutto del pittore alla Biennale di Venezia del 1909 e ne testimonia la fase secessionista giovanile, molto vicina all’illustrazione.

La pennellata densa rivela invece, nella seconda metà degli anni Dieci, l’evoluzione stilistica del pittore. Risale a questi anni, precisamente al 1923, Germania Lonati, dipinto da Biasi a Bellagio, in Lombardia, in cui si vede l’influenza dell’austriaco Klimt.

Ancora, gli splendidi ritratti di fanciulle in abiti tradizionali, come la Sposa di Ollolai, La ragazza di Busachi, La ragazza di Oliena e Il ritratto di Mintonia, del 1935 circa.

Il percorso espositivo conduce alla fase del suo lungo soggiorno in Nordafrica, dal 1924 al 1927, durante il quale la pittura diventa un’indagine sulle differenze, sul rapporto tra cultura occidentale e “mondo altro”.

“Un mondo bellissimo, fatto soprattutto di corpi femminili”…

Studio di donna africana 1924-26 (olio su compensato) ph. Luciana Satta
Studio di donna africana 1924-25 (olio su tela) ph. Luciana Satta

“Come colui che ha fatto il giro del mondo – spiegava l’artista – svilupperò tutto l’intero materiale raccolto, e qualche cosa ne deve nascere. Tra l’arte egiziana e quella indiana di cui arriva qui l’ondata, ho subito una potente lavatura”.

***Questo testo e gli scatti non possono essere riprodotti, senza l’autorizzazione dell’autrice, che ne detiene i diritti. Il testo riferito alla mostra di Biasi nell’ex Convento del Carmelo è apparso nel 2008 sulla rivista “Il Messaggero sardo (e pubblicato qui di seguito).

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Il mio Blog si veste di nuovo!

Ci sono storie scritte e storie ancora da scrivere… tante sono rimaste impresse sulla carta, altre sono state nascoste, custodite, amate o odiate, da qualcuno sottratte, alcune consumate, altre ancora scopiazzate. Ma restano. Hanno gambe veloci e occhi grandi, le storie scritte. Rompono silenzi. Valicano muri. Evolvono. Frutto del passato, con lo sguardo orientato verso il nuovo. Si cambia strada, sempre!
Quello che leggerete è frutto del mio lavoro e della mia passione.
Questa è la casa delle mie idee, dei miei pensieri, dei miei incontri.

*BENVENUTI e BENVENUTE!*

Luciana Satta

 

LILIANA, la figlia di Totò

(Raccontata dalla nipote, Elena Alessandra Anticoli De Curtis)

*Anteprima del III capitolo dell’opera L’Arte di essere Figli

di Luciana Satta

https://www.carlodelfinoeditore.it/scheda-titolo.aspx?isbn=9788893613040

Liliana De Curtis con suo padre, Totò

Liliana e suo padre Antonio. Uno sguardo per capirsi. Un legame che è come una coperta che ripara e protegge in quei momenti della vita in cui si sente freddo. Il prima e il dopo, la vita e la morte, spartiacque tra la presenza e l’assenza di un’artista immenso che rimane, a dispetto del tempo che passa e come in un fermo immagine, nel cuore e nell’affetto del suo pubblico, conquistando così il dono dell’immortalità. Una rete di protezione che, quando manca, lascia un senso di vuoto incolmabile e una struggente nostalgia in Liliana, per quel rapporto così stretto e speciale tra padre e figlia. Questa è la storia di Liliana De Curtis. La racconta per lei sua figlia, Elena Alessandra Anticoli De Curtis, nipote di Totò, erede di una memoria storica custodita negli anni da sua madre (scomparsa il 3 giugno 2022, n.d.r.). […]

Se la vuoi scoprire, continua a leggere il terzo capitolo del mio saggio L’Arte di essere Figli. Con foto inedite e l’intervista esclusiva alla nipote, rilasciata il 1° maggio 2022, quando Liliana De Curtis era ancora in vita. Ha vissuto con la figlia Elena Alessandra, che si è presa cura di lei fino all’ultimo suo giorno). https://www.carlodelfinoeditore.it/scheda-titolo.aspx?isbn=9788893613040

***Questo testo e il materiale fotografico concessi in via esclusiva per specifica pubblicazione non possono essere riprodotti. Non si autorizza alcun tipo di riproduzione o pubblicazione. Ringrazio la sign.ra Elena Alessandra Anticoli De Curtis per l’immensa disponibilità e gentilezza.

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CRISTIANA CIACCI, la figlia di Little Tony

*anteprima capitolo II L’Arte di essere Figli

di Luciana Satta

L’arte di essere figli (Luciana Satta) – Carlo Delfino editore

Cristiana Ciacci da bambina, in compagnia del suo amato padre, Little Tony

«Eravamo simili nell’estro, avevamo entrambi la testa tra le nuvole, un lato artistico, anticonformista, un modo tutto nostro di pensare e di vedere la vita. Camminavamo sempre “sulla luna”. Invece eravamo differenti in altri aspetti del carattere. Papà è sempre stato una persona molto allegra: gli piaceva stare bene, divertirsi, circondarsi di amici e di persone che lo facessero ridere e sorridere. Io invece ho sempre avuto una pesantezza, una tristezza, una malinconia di fondo. Ci siamo scontrati tante volte per questo. Lui avrebbe voluto che fossi più leggera, più simile a lui, più cittadina del mondo, libera, anche nelle frequentazioni, nelle amicizie, mondana. Io invece ero l’opposto». […]

Nel mio saggio L’arte di essere figli (Luciana Satta) – Carlo Delfino editore vi racconto la storia di Cristiana e di suo padre Antonio Ciacci, in arte Little Tony. Con intervista rilasciata il 14 marzo 2022 e foto preziose gentilmente concesse dall’artista.

Questo testo e il materiale fotografico concesso in via esclusiva per specifica pubblicazione non possono essere riprodotti. Non si autorizza alcun tipo di riproduzione o pubblicazione.

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ERRI DE LUCA

“La parola d’ordine di questo tempo? Per me è Fraternità”

“Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.
Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle.
Considero valore il vino finché dura il pasto, un sorriso involontario,
la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano.
Considero valore quello che domani non varrà più niente
e quello che oggi vale ancora poco.

Considero valore tutte le ferite.
Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe,
tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi,
provare gratitudine senza ricordare di che.

Considero valore sapere in una stanza dov’è il nord,
qual è il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca,
la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.

Considero valore l’uso del verbo amare e l’ipotesi che esista un creatore.
Molti di questi valori non ho conosciuto”.

(Erri De Luca, Valore, tratto da Opera sull’acqua e altre poesie, Einaudi, Torino, 2002)

Il mare, la montagna, l’impegno civile. Parole che racchiudono il valore di un uomo. Di uno scrittore, uno dei più grandi della Letteratura contemporanea, che nell’era della tecnologia e dell’intelligenza artificiale non ha mai sostituito la sua penna con la tastiera di un computer. «Ho cominciato a scrivere in adolescenza ma dopo essere diventato un lettore – ricorda –.  Avevo a disposizione la biblioteca dei miei genitori e una predisposizione a starmene in disparte invece che con dei coetanei. Allora è venuta la scrittura, in aggiunta alla lettura come modo di tenermi compagnia. Ho scritto la prima storia a undici anni, raccontava di un pesce. Da allora ho proseguito e ancora oggi considero la scrittura il tempo felice della mia giornata». Il suo stile è ormai riconoscibile e inconfondibile, dal suo primo libro (Non ora, non qui), pubblicato nel 1989 e tradotto in oltre trenta lingue, all’ultimo Le regole dello Shangai, presentato all’ultima Fiera del libro di Torino. È quel modo limpido di raccontare le storie, la cura e la precisione nella scelta dei vocaboli e quella semplicità apparente che ti induce a riflettere, a scavare in profondità e a guardarti dentro. A cercare di andare oltre l’apparenza. Lui che non solo in montagna e in completa solitudine percepisce l’immensità, ma quando ancora una volta tende la mano, al bambino o all’anziano, in mezzo alla gente che soffre. In prima linea, per donare il suo immancabile supporto. In silenzio, senza clamori. Perché la parola d’ordine di questo tempo per Erri De Luca resta sempre e solo una: “Fraternità”.

In un’intervista ha dichiarato: «Non avevo orec­chio per la musica. […] A Napoli era un grande difetto fisico. Me lo hanno cor­retto incul­can­domi musica fino a farmi into­nato. Ma ero anche, di pre­fe­renza, zitto. Allora le can­zoni mi hanno aperto le vie ingol­fate delle corde vocali. Ho impa­rato a par­lare come i bal­bu­zienti: can­tando. Per­ciò la musica mi ha medicato». Quanto è profondo il legame tra la musica e la sua scrittura?

«La musica è con me troppo esigente, se c’è non posso fare altro che ascoltarla. Non la posso usare come sottofondo di un’attività, neanche quando guido, perché assorbe tutta la mia attenzione. Perciò quasi mai ho musica intorno. Mi capita di canticchiare quando sto scalando una parete ma è una tecnica per regolare la respirazione. Nella scrittura che faccio conta invece la voce del personaggio che la sta raccontando. La mia scrittura è orale, la sento nell’orecchio interno mentre la stendo sul quaderno. Io scrivo a penna, non su tastiera».

Lei ha detto: “Oggi il successo viene esposto in tutte le varie gradazioni. Il successo nel mestiere, nell’amore, nello sport. Dall’altra parte ci sono quelli che tentano di sottrarsi da questo chiasso del successo e a consistere in valori più silenziosi, in valori di rinuncia a questa esposizione”. Come vive questa epoca e questa società dove ostentazione e narcisismo sono protagonisti?

«Il successo per me è solo il participio, passato del verbo succedere.  Mi sono successe molte cose impreviste, compresa questa di rispondere a domande di un’intervista. Faccio lo scrittore, un’attività di limitato impatto pubblico, che non mi espone su clamorose ribalte. Se invitato in televisione, vado solo se posso limitarmi a un dialogo con chi conduce la trasmissione, senza dover partecipare di un dibattito e di un battibecco. Non seguo perciò nessun programma di discussione spettacolo. Insomma mi tengo un po’ in disparte, per temperamento».

Il mare e la montagna: due grandi passioni. Cosa rappresentano per lei?

«Sono spazi dove la presenza umana si dirada fino a scomparire. Appeso a una parete verticale riconosco con precisione la mia taglia minuscola nell’immensità del luogo. È il giusto rapporto tra la presenza umana e la grandezza del pianeta. In luoghi affollati l’ambiente finisce sotto i piedi. In mare come in montagna invece è superficie di attraversamento. La cima di una montagna non è arrivo, solo termine di salita prima della discesa. Non è spazio accogliente, non è un parco giochi, al meglio è indifferente, estraneo, ma basta poco, anche un banco di nebbia, a renderlo impraticabile. Non trovo me stesso in montagna, invece perdo questo me stesso che si crede residente e si ritrova in quegli spazi un intruso, un ospite senza invito».

Che significato ha per lei la parola “libertà”?

«Per me consiste nel tenere insieme quello che dico e quello che faccio. Fare in modo che le parole corrispondano a conseguenti azioni. Da questa interpretazione della mia libertà si capisce che nessuna privazione esterna, neanche una prigione, me la può ridurre. In generale individuo la libertà in quella descritta nel libro dell’Esodo, dove un popolo di schiavi si stacca compatto in schiere dalla sua condizione. Ecco che la libertà è un deserto, non un paese di cuccagna, è uno sbaraglio che dura il tempo di costruire una comunità del tutto nuova, nata e svezzata dal deserto e dalla disciplina di un accampamento mobile. La libertà è un’impresa che si rinnova continuamente, non data una volta per tutte. Perciò le democrazie possono rinunciarci, suicidarsi, regredire verso forme di tirannia».

Ho partecipato al soccorso alimentare nei campi profughi. Oltre all’appoggio materiale serviva a quelle persone accampate il conforto di non sentirsi abbandonate. I nostri arrivi in quei campi erano occasione di abbracci, di strette di mano, di festa per i bambini che ricevevano anche quaderni e matite colorate. Riferisco queste piccole cose perché immenso è il bisogno di calore umano in una guerra”. Cosa ha significato per lei incontrare quei bambini, qual è il suo ricordo più vivido?

«I bambini hanno una forza superiore a quella degli adulti. Giocano pure nelle peggiori condizioni, sopportano denutrizioni, si fanno bastare il poco e niente. Dice una frase del Talmùd che è il frutto a proteggere l’albero. Da più di un anno vado con un furgone e un amico nell’Ucraina di orfanotrofi e di posti che ospitano profughi. Ho visto la disciplina di quel popolo messo alle strette, la disciplina dei bambini pronti a interrompere il gioco, attenti a non far chiasso in accampamenti e alloggi di fortuna ricavati in scuole e altri spazi pubblici. Senza andare così lontano, si possono vedere da noi simili bambini che sbarcano sulle nostre rive da scialuppe sgangherate, dopo aver condiviso uno spazio schiacciato e un tempo di sbaraglio in alto mare». 

Che cosa rappresenta la poesia per lei? A quale poeta della letteratura italiana si sente più affine?

«La mia poeta preferita si chiama Marina Zvetaeva, russa. Sono un lettore di poesia del 1900, un secolo che si è potuto esprimere sotto la pressione di enormi avvenimenti, migrazioni di miriadi di esseri umani, guerre mondiali, deportazioni, campi di concentramento. Poco tempo e poca carta per scrivere, e allora la poesia è stata la forma concentrata della letteratura. Ho conosciuto un poeta di Sarajevo negli anni ‘90 della guerra di Bosnia. Durante gli anni dell’accerchiamento si facevano serate di poesia in un seminterrato di notte. Quei cittadini che mancavano di tutto avevano bisogno di sentire parole capaci di sospendere l’oppressione, di far dimenticare per qualche ora la fame, i lutti.  La poesia è stata all’altezza del compito. Lui, Izet Sarajlic, mi diceva che loro, i poeti, avevano fatto il turno di notte per impedire l’arresto del cuore di Sarajevo e dei suoi abitanti». 

In una città che visito per la prima volta assaggio l’acqua di una fontana pubblica e il pane di un forno. Ogni posto distilla la sua acqua e ha le sue notti per cuocere l’impasto” (da Spizzichi e bocconi). Quale piatto le ricorda maggiormente la sua infanzia e chi glielo preparava?

«Il ragù della domenica a casa di nonna Emma, un’intensità di odore e di papille mai più raggiunto, ma indelebile nei miei sensi. In quella tavola chiacchierona si faceva l’improvviso silenzio della pasta al ragù calata fumante nei piatti. Chiudevo gli occhi per concentrarmi nella masticazione, li riaprivo per infilare la forchetta in quel rosso cupo, denso, cotto un giorno e una notte a fuoco minimo».

A Nuragus in Sardegna, dall’amico Stefano Soi ho bevuto latte di capra, pure quello munto fresco in regalo”. Sempre nel suo libro Spizzichi e bocconi ha citato un suo amico sardo, Stefano Soi, che nel corso di una mia intervista ha detto di lei a sua volta: “È una persona con cui si è creato un rapporto incredibile”. Quanto è importante per lei il valore dell’amicizia?

«L’amicizia è un dono, all’inizio del tutto immeritato, come dev’essere un dono. Poi dev’essere custodita, confermata, anche a distanza. Io ne ho perse molte con rammarico e per validi motivi. Oggi è parola inflazionata dall’uso improprio dei canali social. Io ne conservo il significato ristretto e uso per le altre relazioni il termine di conoscenze».

Nel 2011 ha creato la sua Fondazione che porta il suo nome e con cui si prefigge di seguire diversi progetti a sfondo culturale e sociale. Quali progetti le stanno a cuore?

«È un piccolo sodalizio che si regge sul sostegno dei soci e non di istituti pubblici o privati. Non accediamo a fondi. Procuriamo dei contributi agli studi universitari di studenti immigrati, scelti insieme alla Comunità di Sant’Egidio di Napoli, consideriamo i flussi migratori l’avvenimento maggiore della nostra epoca e la più importante esperienza sostenuta dal volontariato italiano, che è un’eccellenza europea».

Lei è una giovane gitana in fuga dalla famiglia per sottrarsi al matrimonio combinato con un uomo anziano, lui è un orologiaio che sta campeggiando sul confine e la accoglie nella propria tenda”. Le regole dello Shangai è il suo ultimo libro. Qual è il messaggio?

«Racconto storie, non voglio usarle per far passare messaggi. Oggi mi sta a cuore un’alleanza tra giovanissimi e anziani, le due fasce di età che sanno guardare al futuro per immaginarlo, non per contemplarlo. La fascia di età adulta è invece ingolfata nel presente, se lo contende e non è capace di intenderlo né volerlo, chiamando emergenza perfino la raccolta dei rifiuti. C’è una incompetenza di gestione adulta che rende necessaria l’intesa tra nipotini e nonni. Ho scritto una storia che riguarda queste due fasce di età».

“Uno vede la vita come un fiume, uno come un deserto,

 un altro come una partita a scacchi con la morte.

Io la vedo sotto forma di un gioco di Shangai fatto da solo”.

(Erri De Luca, Le regole dello Shangai, Feltrinelli, 2023)

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***Il testo non può essere riprodotto in tutto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autrice. Le foto sono della Fondazione Erri De Luca e concesse dallo scrittore all’autrice dell’articolo. Tutti i diritti sono riservati.

FRANCESCO VENDITTI *anteprima Capitolo I “L’Arte di essere Figli”

di Luciana Satta

L’arte di essere figli (Luciana Satta) – Carlo Delfino editore

Peppino, Peppino, figlio dell’amore
In quale vicolo o strada, batterà il tuo cuore
In quale culla di pietra pura
Imparerai, la vita è un’avventura

Peppino, Peppino, tu la dovrai amare
Amare è dura e senza frutti al sole
C’è più coraggio nella fantasia
La vita tua diventa mia.
(Peppino Peppino, Antonello Venditti, dall’album Venditti e Segreti, 1986)

«Ho capito la canzone Peppino Peppino quando avevo diciassette anni, perché prima non solo non avevo ancora una personalità definita, ma neanche la conoscenza dei fatti, dell’amore, del sapersi raccontare, del sapersi dare». Francesco è il figlio del cantautore Antonello Venditti e della regista, scrittrice, sceneggiatrice, Simona Izzo. Attore e doppiatore, ha percorso la strada di una lunga tradizione familiare nel doppiaggio, iniziata da suo nonno Renato e proseguita dalle zie, Rossella, Fiamma, Giuppy e dalla mamma Simona e abbracciando tutto quel bagaglio di insegnamenti ha costruito il suo essere artista. Quando suo padre scrive Peppino Peppino Francesco ha dieci anni. È il 1986. [continua…]

Vuoi scoprire la storia di Francesco Venditti?

Leggi L’arte di essere figli (Luciana Satta) – Carlo Delfino editore

*contiene l’intervista esclusiva a Francesco Venditti rilasciata in data 17 febbraio 2022 e foto inedite gentilmente concesse dall’artista

Francesco Venditti, alle sue spalle suo figlio Tommaso. Foto gentilmente concessa dall’artista, pubblicata per la prima volta ne “L’Arte di essere Figli”

Questo testo e il materiale fotografico concesso in via esclusiva per specifica pubblicazione non possono essere riprodotti. Non si autorizza alcun tipo di riproduzione o pubblicazione.

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Ad occhi chiusi per sentire il suono dell’ANIMA

NICOLA AGUS

di Luciana Satta

ph. Nicola Castangia

Era un giorno di fine estate del 2019 quando il suo “Viaggio intorno al mondo in ottanta strumenti”, spettacolo di musica e immagini da lui ideato, è arrivato alla trentaseiesima edizione di Voci d’Europa, a Porto Torres, uno dei festival più longevi di musiche polifoniche della Sardegna. Lì ho conosciuto l’energia di Nicola Agus, il suo mondo straordinario di compositore e di polistrumentista e quell’universo affascinante di suoni e di strumenti musicali, che aprono un varco nell’immaginazione e dal Mediterraneo ti fanno volare nelle aree nordiche e celtiche, dalla Spagna alla Scozia e ancora dall’America giungere fino in Cina. Chiudi gli occhi e ti ritrovi in un’altra dimensione. In spazi sconfinati. È un percorso in cui le sonorità della Sardegna “svestono gli abiti della tradizione ed entrano in un mondo di suoni moderni e contemporanei, in cui lo strumento è valorizzato in ogni suo aspetto tecnico e sonoro”. È vento che soffia, o mare in tempesta, è il respiro dell’infinito. Il suono dell’Anima. Dall’Occidente all’Oriente. Dalla Gaita de Cuerno, strumento spagnolo dell’Andalucia all’UDU, lo strumento a percussione delle donne nigeriane, dal Shakuhachi Flute, al Koto, l’arpa giapponese, dall’Hichiriki ad ancia doppia, all’Eram, lo strumento inventato quattro anni fa da Nicola Agus con le canne portate da una mareggiata improvvisa fino al Poetto di Cagliari… «A me interessa – spiega – che la mia musica conduca in punti lontani dell’anima, la devi sentire sulla pelle. Ti devi lasciare trasportare, voglio che sia un’esperienza, altrimenti non avrebbe senso. La posso suonare ovunque, anche chiuso in una stanza, ma la gente la percepisce, viaggia… poi quando a fine concerto qualcuno si avvicina e mi dice: “Ah, mi hai portato lontano…” io sono felice. Il significato è questo: con me bisogna lasciare fluire, farsi trasportare. E poi, siccome viaggiare costa (ride, n.d.r.), almeno con la mia musica sognano di essere in un luogo lontano nell’immaginario, sentono una cornamusa e attraverso quel suono magari immaginano di trovarsi in Irlanda, o in Scozia».

ph. Nicola Castangia

Il tuo percorso nella musica ha origine molto tempo fa, quando eri piccolo. Cosa ricordi di quando eri bambino e cosa ti ha affascinato del mondo dei suoni?

«Da bambino ero attratto dai suoni, ero curioso, avevo voglia di capire. Ero irrequieto, non stavo mai fermo, mai tranquillo. Ho messo alla prova i nervi dei miei genitori! Ma ho manifestato e capito da subito che la musica era la mia vita. Giocavo… con le costruzioni non creavo case, ma strumenti musicali, come i flauti, avevo già questa propensione. A casa c’erano gli strumenti classici, perché gli zii si dilettavano a suonarli, a mio padre piaceva la chitarra, non era eccelso, ma gli piaceva canticchiare a modo suo, credeva di essere bravo. Ma la mia passione non è nata dall’osservazione. Per me è qualcosa di innato, sei affascinato da un suono e lo sviluppi. In realtà tutti noi già quando siamo nel ventre materno percepiamo i suoni che provengono dall’esterno. Appartengono alla nostra memoria. La voce della madre poi tranquillizza il bambino e riesce a farlo addormentare. Non è la ninnananna in sé che lo calma, ma è la voce che è abituato a sentire. Assorbiamo tutti i suoni, è una curiosità che ci appartiene da sempre. La musica ha un ruolo importante. Poi, logicamente, un conto è essere curiosi, un conto è cercare di riprodurre quei suoni e farne una professione. Quello arriva con il tempo e con lo studio e l’approfondimento. Per me la musica è linguaggio, è la mia seconda lingua. È una grande forma di comunicazione, un modo per lanciare un messaggio. Il mio obiettivo è di farti trovare in un’altra dimensione e “staccare” la mente da tutto. Già nelle tribù africane era una forma di comunicazione molto potente, perché la voce non poteva essere percepita a grandi distanze, mentre il suono dei tamburi raggiungeva chilometri di distanza. La musica nasce dove l’uomo non può arrivare».

ph. Nicola Castangia

I tuoi strumenti provengono da tutto il mondo, ma molti sono da te costruiti. Dove li hai acquistati o come li recuperi?

Questa degli strumenti musicali è una “malattia”. Viviamo il mondo come se fosse a nostra immagine e somiglianza, ma all’interno del nostro sistema non siamo soli, arrivano tante influenze da parte di diverse culture. La sardità che diventa “egocentrismo” non mi appartiene e non mi interessa, non mi sento in un ombelico del mondo da cui tutto ha origine, dove tutto nasce e si sviluppa. Io guardo oltre il mare. Prendere strumenti da ogni parte del mondo deriva da una mia ricerca musicale, ma anche dalla domanda: “Se fossi nato lì come avrei utilizzato questo strumento?”. Tutto nasce dalla mia curiosità, mi piace vedere come in parti diverse del mondo esistano strumenti anche molto simili tra loro. Nella Via della Seta, ad esempio, ci sono tanti strumenti affini, dal mondo arabo sino all’Oriente. Si presentano in forme diverse ma la timbrica è la stessa e lo stesso è il principio. Non mi fermo solo a questo tipo di ricerca, mi piace crearne anche di nuovi, strumenti che non esistono, con forme differenti, ma anche apparentemente banali: dal suono che posso ricavare da una bottiglia d’acqua o da quella sonorità che posso creare dal nulla. Tutto viene naturale, ma bisogna anche studiare. La ricerca va in una determinata direzione se c’è dietro uno studio. Altrimenti stai creando ponti che non hanno un significato».

Sei entrato in contatto con qualcuno che ti ha insegnato qualcosa per quanto riguarda anche la costruzione degli strumenti?

«No, perché ognuno ha un suo pensiero. Mi hanno sempre appassionato la fisica e la chimica, che sono importanti per la musica. La fisicità dello strumento ne determina anche la timbrica, la chimica e il tipo di sostanze che possono entrare e possono danneggiare gli strumenti, come gli agenti atmosferici. Oppure se, ad esempio, se utilizzo la plastica in una certa modo, posso ottenere lo stesso suono prodotto da una chitarra in legno. Sono modi differenti di vedere le cose».

Come nasce la tua musica, da quali evocazioni?

«Innanzitutto il mio è un filone “New Age Spiritual Colossal”, rientra nel mondo della Cinematografia e appartiene al mondo Contemporaneo, olistico documentaristico. “Olistico”, perché è una musica che induce al rilassamento, da non confondere con la “musica rilassante per massaggi”, perché la mia non è lineare, cambia, accelera, rallenta. Tende a riportare l’uomo alle sue origini naturali, affinché risvegli in lui una forma di spiritualità e non sia concentrato solo sul progresso e sul denaro».

ph. Nicola Castangia

Tu sei stato fuori, hai viaggiato… come mai poi hai scelto di ritornare in Sardegna?

In realtà non ho scelto di rientrare in Sardegna. Si sono combinate alcune situazioni per cui mi sono arrivate delle proposte dalla Regione… ma penso che le mie idee fossero troppo innovative, io non sono un suonatore di launeddas tradizionale, sono un musicista che utilizza le launeddas in maniera diversa. La mia è una ricerca innovativa, dove lo strumento prende forma come se fosse una chitarra elettrica, o una cornamusa, o un sax, o un’armonica a bocca. Questo a volte fa storcere il naso ai tradizionalisti. Ma non è che io rifiuti la Sardegna… noi nasciamo liberi, in una terra chiamata “mondo”. A me interessa stare nel mondo. La Sardegna ce l’hai già dentro, ma io sono nato nell’ottantadue e ho avuto la possibilità di sperimentare e di capire perché la musica si è evoluta in una determinata maniera.

Arte, musica e riciclo. Tra i tanti strumenti che hai ideato, con le canne del Poetto tempo fa hai creato uno strumento che hai chiamato “Eram”…

Nel 2019 in seguito ad una mareggiata la spiaggia del Poetto fu completamente invasa dalle canne. È stato un forte momento di aggregazione, i bambini giocavano con le canne come se non le avessero mai viste. Ero rimasto molto colpito, perché era la prima volta che non ero stato io a cercarle per costruire i miei strumenti, ma loro erano giunte fino a me. Avevo voluto rendere omaggio a quel momento particolare, pensando anche al fenomeno dell’immigrazione, perché le canne spiaggiate ricordavano anche i corpi delle vittime portate dal mare, che oggi purtroppo è un cimitero a cielo aperto. Allora ho pensato di creare l’unico strumento che potesse parlare di quello che sta vivendo il mare, una sorta di strumento a corda… la corda può simulare le onde del mare, perché quando la fai vibrare produce un’onda e il suono viene propagato. Ho deciso di sperimentare e di creare uno strumento a corda utilizzando la canna e come tastiera un rostro, la spada del pesce spada e ho realizzato così uno strumento del mare… in seguito ne ho creato tantissimi.

Mi piace anche far cantare la voce dell’acqua utilizzando una semplice bottiglietta di acqua

naturale.

Sei anche autore delle musiche de “I venerdì della storia – Le bugie” dell’attore e autore Gianluca Medas, voce narrante dello spettacolo. In questo caso come nascono le tue composizioni per questo appuntamento alla manifattura Tabacchi di Cagliari?

Lì è un altro lavoro sull’improvvisazione diretta, in simbiosi con l’artista. Non ci sono prove. È fatto tutto sul momento e a me piace perché spazio e posso giocarmela sempre in maniera diversa. Misteri irrisolti e strumenti diversi, e ogni volta musiche e sensazioni nuove.

Ph. Nicola Castangia

Licia Colò ti ha chiamato diverse volte nelle sue trasmissioni. Sei stato invitato a portare la tua musica nello studio di “Il mondo insieme”, proprio per quella tua capacità di riuscire a fare suonare qualsiasi oggetto della quotidianità e ovviamente per i tuoi strumenti musicali dedicati ai vari paesi del mondo. Come è stata questa esperienza?

Inizialmente mi hanno invitato in trasmissione per suonare la carta e altri oggetti semplici e comuni. È stata una bella esperienza, sono stati gentilissimi, ma prevalentemente cercavano qualcosa che potesse stupire… suonare un pezzo di carta, o il vetro o un uovo magari è una forma spettacolare che colpisce maggiormente in tv. Poi, lei (Licia Colò) era rimasta colpita dall’Eram, perché unisce alla ricerca sonora una riflessione più profonda sull’emigrazione. Quando ho avuto la possibilità di suonare l’Eram ho potuto dare un senso più profondo e strutturato a ciò che voglio esprimere. È stata una pubblicità positiva e poi è una strada tutto da costruire. Io credo che non bisogna restare statici, ma perseverare e migliorare, sempre con umiltà. Io non suono esclusivamente per esibirmi in concerto, suono perché amo la musica. La vivo con umiltà e spensieratezza. Se il pubblico viene, bene, altrimenti suono lo stesso.

***Questo testo e gli scatti non possono essere riprodotti, senza l’autorizzazione dell’autrice e del fotografo, che ne detengono i diritti. Il testo e il materiale fotografico sono apparsi sulla rivista Iod (numero di settembre 2023).

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Una chiacchierata con… i BERTAS!

Nati per la musica  

   di Luciana Satta

    

“Fino a quando avrai canzoni da cantare
la voce non si stanchi,
la voce non ti manchi mai”

Casa Dau, a Sassari, è un edificio dei primi anni del Novecento. In questo palazzo antico si respira la storia della città, sin dalla rampa di scale dai gradini alti che percorriamo per arrivare allo studio di registrazione dei Bertas. Mi accompagna l’amico Salvatore, che della più longeva band sarda è grande fan. Ciò che da subito mi colpisce è il collage di fotografie, tantissime, attaccate al pannello esposto sulla parete. Il passato dei Bertas è lì, in quei visi di ragazzi, nei capelli e negli abiti degli anni Settanta e ora, oggi, in tutti quelle esperienze impresse sui loro volti. In tutti quegli aneddoti racchiusi in quegli scatti. Quante storie, quante vite. 

Siamo nati nel 1965, facciamo musica, e non sappiamo se mettano più paura gli anni alle spalle o l’idea di non averne altrettanti”… che significato ha per voi questo pensiero?  

ENZO PABA: «È una frase che per noi dice tutto.  Se non avessimo avuto questa idea del futuro e del passato, avremmo smesso già trent’anni fa. Nella nostra lunga storia ci sono stati molti momenti in cui ci siamo guardati in faccia, alla fine di ogni stagione, e ci siamo detti “Che facciamo, continuiamo?” Ci abbiamo pensato due, tre volte. In realtà poi abbiamo capito che non aveva nessun senso smettere, perché il fatto di continuare a fare musica insieme ce l’abbiamo dentro. Continua a essere impensabile lasciare. Certo, la paura che il futuro non sia molto lungo, data l’età, in realtà c’è… ma non ci pensiamo, guardiamo sempre oltre, alle cose che dobbiamo fare. Questo forse ci ha aiutati nel corso di quasi sei decenni di attività musicale».

Nello studio dei bertas (ph. Luciana Satta)

FRANCO CASTIA: «Quando ho scritto questo pensiero, ho espresso forse quello che ci disturba. Capita ci venga chiesto: “Ma non siete stanchi, non avete voglia di smettere, non vi sentite vecchi?” A noi non succede. Ciò che ci succede è di valutare le esperienze che abbiamo fatto con il dispiacere di renderci conto che non potremo farne altrettante per lungo tempo… perché, avendo tutti sui sessant’anni, è così! Premetto che loro sono i Bertas, ma io mi sento parte della famiglia. Gli anni alle spalle hanno un’importanza e un peso, nel senso che dobbiamo onorarli, quelli davanti non potranno essere altrettanti e ci dispiace, perché la voglia di fare musica è la stessa. Cerchiamo di evitare l’inerzia, l’idea di dire “riposiamoci un po’”. Forse in questi ultimi anni abbiamo fatto di più, rispetto a quando avevamo maggiore freschezza fisica, proprio perché l’idea di voler vincere la “vecchiezza” (non la “vecchiaia”) è più forte. Poi, come diceva Enzo, ci spinge l’amore per quello che facciamo».

Tanti gruppi si sciolgono, a volte perché i componenti non vanno più d’accordo, nascono incomprensioni, litigano… qual è stato il vostro segreto per andare d’accordo, per mantenere vivo questo “collante” tra voi? Suppongo abbiate vissuto anche periodi di crisi: come avete fatto a superarli e ad andare avanti?

MARIO CHESSA: «Tutti noi abbiamo saputo anche vivere alcuni “compromessi”, nel senso che ovviamente se sappiamo che a Enzo dà fastidio qualcosa, o a Marco altro, cerchiamo comunque di andare avanti.

Bisticciamo spesso, ma alla fine la pizza ci sta sempre!».

Su cosa bisticciate di più?

MARIO: «Sulla musica soprattutto! Però sono litigi costruttivi, necessari (ride, n.d.r). È così da tanti anni…

MARCO PIRAS: In realtà chi entra a suonare in un gruppo, nel gruppo deve sapere vivere. L’ho capito sin da ragazzino: per poter andar avanti bisognava saper “cedere”, a volte, lasciare il passo anche agli altri, concordare cose che non sono sempre “sposabili” personalmente. Il segreto è dare spazio a tutti, come in una squadra di basket, per fare un esempio: un po’ per tutti e siamo andati avanti sempre tutti insieme. Abbiamo un obiettivo, un compito, che è quello della squadra: così abbiamo sempre cercato di reggere e di proseguire con questo spirito… sempre…».

Nello studio dei Bertas (ph. Luciana Satta)

Ad Antonio Costa e alla sua caparbietà risale la nascita dei Bertas. Andiamo indietro nel tempo, negli anni: come nasce la storia dei Bertas, come vi incontrate? 

MARIO: «Noi seguivamo già i Bertas quando ancora non ne facevamo parte, nel senso che eravamo più piccoli di loro. Io sono anche cugino di Carlo e di Antonio Costa. Seguivo i Bertas per motivi anche “familiari”. Antonio ha fondato i Bertas andando via da un altro gruppo sassarese, i Baronetti. Dopo sei anni sono subentrato io, poi è arrivato Marco, che allora aveva 17 anni, infine si è aggiunto come paroliere Franco e così tutti gli altri… è stata una specie di staffetta… a un certo punto, Antonio ha mollato per seguire la Canepa e l’Ente lirico De Carolis. Lui componeva. Una volta andato via lui, siamo stati costretti a continuare a comporre per proseguire l’attività. E così siamo arrivati ad oggi».

“Fino a quando avrai canzoni da cantare la voce non si stanchi, la voce non ti manchi mai”: che cosa rappresenta la musica per i Bertas?

ENZO: «Credo che in questa frase ci sia l’essenza di quello che facciamo. La voce per noi ha la supremazia sullo strumento. Io ricordo che quando si entrava a far parte dei Bertas (molti hanno fatto parte dei Bertas in questi anni – in tutto 26 persone –). Chi entrava nel gruppo, più che saper suonare uno strumento, doveva saper cantare, doveva avere una voce che fosse compatibile con quelle degli altri componenti, perché la cifra dei Bertas sono i cori, lo è sempre stata. Quando c’era Carlo, quando c’era Giuseppe Fiori, il nostro compianto Giuseppe, in realtà eravamo quattro voci soliste, veramente complementari. Ognuno aveva le sue caratteristiche: c’era quello che aveva la voce più “graffiante”, o quello più melodico… queste quattro voci si incastravano molto bene nei cori e, soprattutto, nella scelta dei pezzi da eseguire. Era ed è la voce quello che caratterizzava i Bertas. Gli strumenti devono essere ovviamente suonati bene, col loro giusto impatto, con il giusto fraseggio, ma la vocalità e la coralità sono sempre state le nostre caratteristiche principali. Tant’è vero che poi abbiamo aggiunto dei coristi che ci supportassero in questo campo. Questo è appunto il senso della frase: la voce non si stanchi, la voce non ti manchi mai…».

MARCO: «Dopo l’esperienza della messa in sardo, dove avevamo sperimentato il doppio coro, abbiamo avuto l’esperienza del tributo a Brian Wilson e alla musica dei Beach Boys… anche lì entravano dodici voci, non simultanee, ma diversi cori che si sovrapponevano. Oggi ci stiamo sperimentando nel doppio coro, riusciamo a fare due cori all’interno dei nostri ultimi brani che sono in produzione adesso… per cui la responsabilità vocale è aumentata ancora di più. Ci aspettiamo che la voce regga, perché tutti i nostri progetti sono ad alto livello vocale».

FRANCO: «La frase nasce con una canzone del ’93, con “Amistade”, che era un album di rifondazione, perché per la prima volta i Bertas hanno fatto una scelta di campo, cioè hanno deciso di presentarsi con un repertorio personale, originale. Quell’album ha rappresentato una svolta. Al centro è sempre la voglia di cantare, continuare ad avere quella passione, quella spinta verso la musica. Inizi a pensare che ci sono tante componenti dovute all’età che non puoi governare con la buona volontà… Quando dovrai salire sul palco a 85 anni… vanno bene, Enzo? (si rivolge a Enzo Paba, ride n.d.r.)… ».

ENZO: «Ci son sempre le ambulanze! (ridono n.d.r.)».

Non si vive una volta sola: avevate scelto gennaio 2021 per presentare questo album, col chiaro intento di lasciare indietro la passata stagione. Come è stato l’anno appena trascorso per i Bertas? 

MARIO: «Abbiamo approfittato di questo periodo. Abbiamo sperimentato nuove forme di collaborazione perché, essendo con il lockdown costretti a stare a casa (e gran parte dei musicisti è organizzato e dotato di mezzi per poter registrare per conto proprio a casa), abbiamo progettato così: abbiamo mandato una base, Francesco Piu ha fatto delle sovrapposizioni al nostro brano, registrando la sua parte a casa sua… poi ci sono state anche altre collaborazioni importanti. Abbiamo dunque sfruttato il periodo nel modo migliore possibile».

ENZO PABA: «Forse ti riferivi al fatto che i musicisti hanno pagato un prezzo molto alto perché c’è il problema che tanta gente vive di musica, non soltanto i musicisti ma i tecnici, gli stessi nostri coristi… il musicista in sé ha utilizzato quel tempo per studiare, per provare nuove sonorità… da quel punto di vista questo ha fatto bene ai musicisti, tutto il resto è da dimenticare!».

Giuseppe Fiori (ha militato con i Bertas fino al 1979 per dodici anni, cantando e suonando la batteria, n.d.r.) è mancato di recente. Gli avete dedicato un pensiero molto bello nel vostro album e anche sulla vostra pagina ufficiale di Facebook: “I Bertas sono nati nel 1965, ma i Bertas sardi sono nati con Badde Lontana e Badde Lontana è nata con la voce di Giuseppe Fiori”.

Cosa ha rappresentato per voi? 

ENZO: «Il primo incontro con la musica sarda è nato con Giuseppe Fiori. Quando Antonio ci ha proposto Badde Lontana ci siamo accorti che sembrava molto strano che noi potessimo cantare in sardo. Giuseppe era l’unico che forse poteva essere più adatto di noi a cantare in sardo. Ancora adesso il cantare in sardo ci condiziona un po’, perché secondo noi si sente che non siamo di madrelingua sarda… un po’ come nel caso di Andrea Parodi o dei Tazenda, insomma. Giuseppe aveva una capacità di interpretazione con una passione che forse noi non avevamo, avevamo altre caratteristiche… è stato giusto che la cantasse lui. Era il ‘73 quando loro (senza di me) la presentavano nelle piazze, poi io sono entrato nel gruppo nel dicembre del ‘74 e nella primavera del ’75 abbiamo registrato Badde Lontana».

“Ieri, quando nessuno cantava in limba, l’abbiamo sostenuta a dispetto di qualche naso storto, perché credevamo nella sua bellezza e musicalità, prima ancora che per assecondare una nascente spinta identitaria; oggi, in tempi in cui il sardo, in tutte le varianti possibili, dilaga nel mondo sardista della canzone, spesso per conformismo più che per scelta, ci stiamo riappropriando di una parte di noi, una parte che reputiamo significativa e importante.

Quella che ci permette di essere qui a parlare con tutti, dalla nostra terra; o meglio: dalle nostre terre”.  (Bertas, dalla pagina web ufficiale: https://www.bertas.it/noi-siamo-i-bertas)

Avete portato la vostra musica nelle carceri, nelle comunità di recupero, avete suonato nel carcere di Alghero, nel locale della biblioteca intitolata a “Fabrizio De André”, a San Sebastiano, al centro Maria Madre dei Poveri (La Crucca). Avete detto “Tutte le volte, immancabilmente, alla fine della giornata, il disagio maggiore l’avevamo provato noi, nell’allontanarci da quelle sofferenze per tornare alle nostre fortune…”

ENZO: «Abbiamo suonato nelle carceri… ma l’esperienza nella Comunità di recupero La Crucca è stata un’esperienza ancora più forte… lì ho conosciuto una realtà che mi ha arricchito, ma è stato come un pugno allo stomaco».

Nel 2015 avete festeggiato in musica al teatro Comunale di Sassari il vostro 50° anno di attività. Che ricordo vi resta di quella giornata?

MARCO: Non avremmo mai immaginato tanta stima da parte di colleghi musicisti con i quali non ci vediamo mai o comunque in rare occasioni. Ci hanno onorati con l’esecuzione dei nostri brani… è stata una soddisfazione pazzesca, perché sentire i nostri brani riarrangiati in maniera sopraffina, e così sentita, è stata una soddisfazione grande e non finiremo mai di ringraziarli per questo sforzo nei nostri confronti. Tra l’altro ci siamo resi conto di quanta bravura ci sia in Sardegna, anche se in realtà abbiamo sempre saputo che rispetto al numero di abitanti l’Isola offre un panorama artistico notevole. Ma vederli così, tutti insieme, preparati, è stato davvero emozionante. 

ENZO: All’inizio avevamo pensato di coinvolgere tutti coloro che avevano fatto parte dei Bertas… questa era l’idea iniziale, però era molto complicato organizzarla, invece poi si è scelta questa strada. 

MARIO: Adesso vediamo cosa riusciamo a fare per i 60 anni! 

“Como cheria è una canzone che ha attraversato le generazioni della nostra Sardegna sfuggendo al controllo di chi l’ha scritta. E, maturando un percorso autonomo, brillando di luce propria, ha fatto sì che chi la conosceva conoscesse i Bertas, e viceversa.

È dunque la canzone alla quale dobbiamo una seconda giovinezza, questo è certo”. (Bertas)

“Como cheria” ha compiuto ventotto anni. È un brano che vi ha segnati, è la vostra canzone più popolare, dopo “Badde Lontana”.

Come è nata e perché dopo tanti anni resiste al tempo e alle generazioni?

ENZO: «Quando abbiamo registrato l’album “Amistade” dovevamo scegliere un brano che aprisse il disco, che poi è di solito quello che viene trasmesso in radio… seguendo un consiglio, avevamo scelto “Noranta”… ma alla fine è il pubblico che decide! Ci accorgevamo che “Como Cheria”  era il brano che andava di più, quello che eseguivano maggiormente durante le serate, nei piano bar, nei gruppi, nelle piazze… gran parte dei musicisti sardi lo usavano nel loro repertorio… così sono passati 28 anni e c’è stato sempre un crescendo, dal 1993. 

Como cheria s’oriente

E s’occidente cheria

Su minoreddu sezzidu in palas Pro nunziare sas alas

Arvures de menduleddas

Casu durche e salidas olias Como cheria

Andarisende umpare

Furfere e astore a su niu

Chi donzi Cristu lasset sa rughe Chi s’adduret s’istiu

Tancas de antunnas e binzas

Pane biancu e una ‘ucca sidida Como cheria

Fin’a siccare su mare e su riu

A los intendere colare intr’a mie

E una ‘oghe chi cantet lontanu

Como cheria

E una manu chi istringhet sa manu Como cheria.

(1993 – “Como Cheria”, di Franco Castia e Mario Chessa)

Secondo voi perché la gente è attirata da questo pezzo, che cosa ha in più rispetto ad altri vostri brani?

ENZO: Se lo sapessimo ne avremmo scritti altri venti! (ride n.d.r). Quando abbiamo suonato all’Anfiteatro romano di Cagliari per Emanuela Loi, avevamo fatto due o tre pezzi e questo era piaciuto tantissimo… lo ricordo particolarmente».

Raccontare la vostra storia è come “scavare in un pozzo senza fondo” e allora chiedo direttamente a voi di scegliere un aneddoto curioso o divertente della vostra lunga carriera che ricordate in particolare…

MARIO: «C’era la premiazione di una corsa di cavalli e a quel tempo i palchi non erano come quelli di adesso, ma c’erano i tavoloni che arrivavano dalla base fino al palco con dei gradini… a un certo punto chiamano il vincitore del primo premio e questo sale sul palco col cavallo! Era completamente sbronzo e non riuscivano a tenere il cavallo… farlo scendere dal palco insieme al cavallo è stato molto difficile!».

MARCO: «Un’altra volta ci siamo trovati in mezzo a due fazioni che si lanciavano delle arance… abbiamo continuato a suonare con queste arance che passavano da una parte all’altra del palco! 

MARIO CHESSA: Non erano per noi… ma insieme alle arance lanciavano anche le pietre! (ridono n.d.r.)». 

ENZO: «Ricordo che i nostri concerti (parliamo degli anni Settanta) duravano tre ore… erano tante, eseguivamo un repertorio vastissimo, a volte facevamo anche qualche pezzo in più… i comitati ci dicevano ogni volta che avremmo dovuto continuare a suonare. Ci dicevano: “No! Dovete continuare a suonare! Ci sono stati i Nomadi una settimana fa e loro hanno suonato cinque ore!” Noi pensavamo che non fosse vero… invece era proprio vero, che i Nomadi suonavano davvero per cinque ore, non li fermava nessuno! 

MARIO CHESSA: «Ricordo una delle prima serate che ho fatto sempre negli anni Settanta, in un paese vicino a Sassari… avevano esposto il vecchio manifesto, con la foto dei quattro componenti dei Bertas (precedenti al mio ingresso nel gruppo). A fianco, per un effetto grafico, come in uno specchio erano riflessi sempre gli stessi quattro componenti del gruppo. Alla fine del concerto non ci volevano pagare, perché i componenti erano quattro e invece nel manifesto eravamo in otto! Abbiamo dovuto insistere parecchio per far capire agli organizzatori che si trattava di un equivoco dovuto a un effetto grafico e che nel gruppo eravamo davvero in quattro! (ridono n.d.r.)».

Come vi siete avvicinati alla musica da bambini?

MARIO: «Quando avevo sei sette anni facevo degli spettacolini per altri bambini, cantavo… dai dodici anni in poi mi è nata questa passione. Non facevo altro che sfogliare un catalogo di una nota rivista di acquisti dell’epoca nella quale vendevano la fisarmonica… costava mille lire al mese e mamma non poteva comprarmi la fisarmonica. Dunque sono sempre stato fissato con la musica, però non avevo gli strumenti. Ho iniziato a suonare quando sono andato a lavorare con mio zio, che era il padre di Antonio Costa. Lì c’era la chitarra. Antonio Costa mi ha insegnato i primi accordi con la chitarra e io suonavo nelle pause… quando si è trattato di entrare nei Bertas, Antonio mi ha insegnato a suonare la tastiera».

ENZO: «Ricordo che a casa c’era un androne delle scale strepitoso… quindi io passavo le ore sulle scale cantando, perché impazzivo per l’eco… mia madre mi ascoltava e capiva che avevo una passione per la musica. Devo dire che ho avuto dei genitori fantastici, ma una cosa gli ho sempre rimproverato: mi hanno mandato a lezione di piano privatamente, io facevo le elementari e ho fatto lezioni di piano per tre anni, perché avevano capito che mi piaceva la musica. L’ho studiata dai cinque agli otto anni e ricordo ancora, a distanza di cinquant’anni, l’odore di quei pianoforti. Ogni tanto vado all’orfanotrofio e sento il profumo del pianoforte. Però secondo loro non stavo andando benissimo a scuola e quindi hanno smesso di farmi frequentare le lezioni di piano e questa cosa è stata devastante per me, perché avrei potuto e voluto continuare… e poi a quattordici anni in spiaggia ho iniziato a suonare la chitarra, osservando gli altri». 

MARCO: «Mia madre era amica del maestro Fiori, era un musicista noto, con Dino Puglia… era amica d’infanzia e mi parlava sempre di Fiori. Un giorno mi ha portato a vedere i BAT 66 e ho avuto la mia folgorazione: ho visto la chitarra elettrica azzurra metallizzata… avevo dieci anni. Già ascoltavo I Beatles e il loro pezzo Girl… cercavo di eseguire la melodia con una tavola e una lenza costruita da me. Alla fine mia madre, disperata, mi chiese cosa desiderassi per la quinta elementare. Ho chiesto una chitarra. Mia madre mi ha portato dal maestro Alberto Fiori che suonava la chitarra molto bene e finalmente ho potuto imparare… dagli inizi si capisce. Io ero il chitarrista del mio quartiere, tutti cantavano e io accompagnavo. Questo mi ha stimolato molto. C’è sempre un momento illuminante. Nel ’66 avere una chitarra elettrica era impensabile… ci ho messo tanto prima di averne una. 

FRANCO: «Loro hanno vissuto il beat e il pop, io sono un pochino più giovane. I miei zii compravano a Cagliari e a Sassari i dischi… quindi sono cresciuto ascoltando i Beatles. Poi, la mia vera folgorazione nella musica è stata ascoltare Fabrizio De André… poi ho conosciuto i Bertas… e certo non è stato un incontro come un altro».

“Cambia il mondo intorno a noi

Cambia il mondo

Cambia me

Cambia il mondo intorno a noi”

(2018 – “Cambia il mondo” di Franco Castia e Marco Piras)

Se vi fa piacere, potete leggere il mio articolo qui: https://www.bertas.it/category/press/

Articolo pubblicato il giorno 14 febbraio 2022 per la rivista Iod. È il frutto di una bella chiacchierata che ho avuto il piacere di avere con i Bertas nel gennaio 2022. Un lungo racconto per aneddoti, un’altra storia scritta che ho fissato nella mia agenda e nel mio recorder ma, soprattutto, nella memoria.

Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e l’autorizzazione dell’autrice.

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