“Dall’Ucraina per danzare sulle note della libertà”

L’étoile Olga Golytsia

ph. Ksenia Orlova

Tutte le più grandi Ètoile del Mondo hanno danzato almeno una volta su uno dei brani del repertorio classico tra i più celebri e noti della Storia della danza: The Dying Swan, La morte del cigno, con quell’inconfondibile movimento delle gambe basato sul “pas de bourèe suivi” e la precisione nelle movenze delle braccia e delle mani. Ma quelle di Olga Golytsia, prima ballerina dell’Ukrainian Classical Ballet, non sono braccia. Non sono mani. Sono ali. Si alza il sipario. Vederla danzare è dimenticare e ricordare al tempo stesso. Perché con quelle stesse gambe Olga è dovuta fuggire dalla sua terra, l’Ucraina, e con quelle braccia ha protetto sotto le bombe suo figlio undicenne per salvarsi dalla Guerra e andare incontro al suo sogno di libertà. Ha trovato rifugio dai suoi cari, a Francoforte. «Quando è iniziata la Guerra non sapevo affatto cosa fare… ho pensato: “Dove sarà il rifugio antiaereo più vicino?” “Sarà meglio lasciare l’Ucraina o restare?”. Il padre di mio figlio vive a Francoforte. Chiamava costantemente e chiedeva di venire in Germania. Ma all’inizio mi sembrava che la Guerra non potesse essere vera e credevo che tutto sarebbe finito presto. I bombardamenti erano continui. All’inizio stavamo sempre chiusi nel bagno, poi, quando ho capito che non era un posto sicuro, siamo usciti e abbiamo passato la notte nel parcheggio. Due settimane dopo ho deciso di andarmene. Vivo in un quartiere di Kiev, non lontano da Irpin e Bucha… ero molto spaventata. Il nostro viaggio è durato quattro giorni! A Kiev siamo riusciti a prendere solo il terzo treno… c’era molta gente! Erano tutti inorriditi e presi dal panico. Gli aeroporti sono stati bombardati il ​​primo giorno. Abbiamo viaggiato in treno e in autobus fino a Francoforte».

ph. Ksenia Orlova

Olga Golytsia è arrivata poi in Italia con l’Ukrainian Classical Ballet grazie alla rete di solidarietà che ha coinvolto molti Teatri. In Sardegna ha aperto, insieme alle stelle del balletto ucraino, la stagione della Grande Danza del CeDac (l’Ukrainian Classical Ballet raccoglie artisti delle Compagnie ucraine più prestigiose: dall’Opera nazionale al Teatro Taras Shevchenko, dal Teatro dell’Opera e Balletto di Odessa, al Teatro Accademico di Kharkiv fino all’Opera Nazionale di Lviv, n.d.r.). Protagonisti della straordinaria esibizione, al Teatro Comunale di Sassari e al Massimo di Cagliari, i grandi capolavori della storia del balletto, tra spettacolari assoli e passi a due. Al momento dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, la Compagnia era in tournée in Francia. Il tour italiano non era in programma, è stato organizzato grazie all’impegno del teatro comunale di Ferrara.

«Quando è iniziata la guerra in Ucraina non ho pensato affatto al balletto. Pensavo solo a me e a mio figlio, a come sopravvivere… quando, dopo un mese e mezzo di Guerra, mi è stato offerto di andare in tournée, non capivo come fosse possibile! Ma poi ho pensato: “Cosa posso fare di buono per l’Ucraina? Posso aiutare in qualche modo?”. Ho capito come questa potesse essere una meravigliosa opportunità per presentare la cultura ucraina in Italia, per parlare degli orrori della Guerra e di ciò che ho vissuto personalmente. Spero che questi tour abbiano supportato almeno un po’ il mio Paese». Nel mese di marzo 2023 al Comunale di Ferrara è stato proiettato un documentario realizzato da Gianluca Lul e Angela Onorati e prodotto dallo stesso Teatro Comunale nell’aprile 2022, a pochi giorni dallo scoppio della Guerra, durante la presenza della Compagnia ucraina a Ferrara.  Attraverso le parole, gli occhi e l’arte dei ballerini dell’Ukrainian Classical Ballet il documento racconta l’inizio della Guerra.

ph. Andrey Stanko

Come è nato il tuo amore per la danza? Che cosa sognavi da piccola, desideravi diventare una ballerina?

«Avevo cinque anni quando mia madre mi portò in una Scuola di danza per la Propedeutica. All’inizio non mi piaceva molto. Era noioso e doloroso. Ma gli insegnanti dissero che avevo caratteristiche fisiche adatte al balletto. Perciò mia madre ha continuato a portarmi in Studio, anche quando tutti i miei amici hanno smesso di studiare. Poi, all’età di sette anni, sono entrata alla Pavel Virsky Ensemble School, un ensemble di danza ucraino (Pavlo Pavlovych Virsky, PAU, è stato un ballerino sovietico e ucraino, maestro di balletto, coreografo e fondatore del Pavlo Virsky Ukrainian National Folk Dance Ensemble, il cui lavoro nella danza ucraina è stato rivoluzionario e ha influenzato generazioni di ballerini, n.d.r.). Sono persino andata in tournée… e mi è piaciuta molto! A dieci anni sono entrata al Kyiv State Ballet College. Lì hanno instillato in me l’amore per la danza classica. Quando ero una ragazzina, non mi piaceva molto fare balletto. Era un desiderio di mia madre. Ma col tempo mi sono innamorata della mia professione! Sono molto grata a mia madre per avermi incoraggiata a diventare una ballerina».

ph. Ksenia Orlova

Chi sono stati i tuoi maestri di riferimento e le figure del mondo della danza che ti hanno maggiormente influenzata?

«Quando ero bambina non avevo idoli nel balletto. Non mi sono mai ispirata a nessuna. Volevo essere unica e diversa da chiunque altro. Nutro riconoscenza verso i miei insegnanti del College e del teatro, hanno lavorato molto con me. A scuola insegnavano l’accademismo e a teatro la mia insegnante Eleonora Steblyak mi ha aiutato ad aprirmi come attrice. Finora ho lavorato con attenzione e precisione su ogni gesto e movimento».

Hai utilizzato la tecnica dell’osservazione per raggiungere una tale perfezione e grazia?

«Questo pezzo richiede una preparazione speciale. Sembra facile, ma non lo è affatto. La mia maestra mi ha chiesto di andare al lago a guardare i cigni: come nuotano, come si muovono… ci sono tante versioni di questo numero! Io e il mio insegnante abbiamo realizzato Il lago dei Cigni adattandolo alle mie capacità. Lavoriamo sulle mie mani da molto tempo! È la cosa più importante. Abbiamo anche lavorato molto sull’immagine. Cerco di trasmettere la voglia di vivere e la lotta contro l’inevitabile morte».

ph. Oleksandra Zlunitsyna

Che rapporti hai con gli altri ballerini della compagnia? C’è amicizia tra voi?

«C’è un’atmosfera amichevole a teatro. Soprattutto tutti hanno iniziato a sostenersi a vicenda durante la Guerra. Sono molto contenta di aver deciso di tornare a Kiev e all’Opera Nazionale dell’Ucraina».

Che cosa rappresenta la danza per te?

«Amo il balletto, la danza è la mia vita. Non posso mangiare quello che voglio. Non faccio molte altre cose che possono fare persone che svolgono altre professioni. Ma non me ne pento… il lavoro mi porta piacere e gioia! Spero che il pubblico vada via dalle le mie esibizioni con nuove emozioni».

ph. Katerina Kornienko

***l’intervista a Olga Golytsia è stata tradotta dalla lingua Inglese all’Italiano.

***Le foto sono state concesse alla giornalista Luciana Satta dalla sign.ra Olga Golytsia, che ha autorizzato la pubblicazione per lo speciale a lei dedicato. Questo testo e gli scatti non possono essere riprodotti né pubblicati, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autrice che ne detiene i diritti. Il testo e il materiale fotografico sono apparsi sulla rivista Iod (numero di aprile 2023).

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Il mio Blog si veste di nuovo!

Ci sono storie scritte e storie ancora da scrivere… tante sono rimaste impresse sulla carta, altre sono state nascoste, custodite, amate o odiate, da qualcuno sottratte, alcune consumate, altre ancora scopiazzate. Ma restano. Hanno gambe veloci e occhi grandi, le storie scritte. Rompono silenzi. Valicano muri. Evolvono. Frutto del passato, con lo sguardo orientato verso il nuovo. Si cambia strada, sempre!
Quello che leggerete è frutto del mio lavoro e della mia passione.
Questa è la casa delle mie idee, dei miei pensieri, dei miei incontri.

*BENVENUTI e BENVENUTE!*

Luciana Satta

 

CRISTIANA CIACCI, la figlia di Little Tony

*anteprima capitolo II L’Arte di essere Figli

di Luciana Satta

L’arte di essere figli (Luciana Satta) – Carlo Delfino editore

Cristiana Ciacci da bambina, in compagnia del suo amato padre, Little Tony

«Eravamo simili nell’estro, avevamo entrambi la testa tra le nuvole, un lato artistico, anticonformista, un modo tutto nostro di pensare e di vedere la vita. Camminavamo sempre “sulla luna”. Invece eravamo differenti in altri aspetti del carattere. Papà è sempre stato una persona molto allegra: gli piaceva stare bene, divertirsi, circondarsi di amici e di persone che lo facessero ridere e sorridere. Io invece ho sempre avuto una pesantezza, una tristezza, una malinconia di fondo. Ci siamo scontrati tante volte per questo. Lui avrebbe voluto che fossi più leggera, più simile a lui, più cittadina del mondo, libera, anche nelle frequentazioni, nelle amicizie, mondana. Io invece ero l’opposto». […]

Nel mio saggio L’arte di essere figli (Luciana Satta) – Carlo Delfino editore vi racconto la storia di Cristiana e di suo padre Antonio Ciacci, in arte Little Tony. Con intervista rilasciata il 14 marzo 2022 e foto preziose gentilmente concesse dall’artista.

Questo testo e il materiale fotografico concesso in via esclusiva per specifica pubblicazione non possono essere riprodotti. Non si autorizza alcun tipo di riproduzione o pubblicazione.

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FRANCESCO VENDITTI *anteprima Capitolo I “L’Arte di essere Figli”

di Luciana Satta

L’arte di essere figli (Luciana Satta) – Carlo Delfino editore

Peppino, Peppino, figlio dell’amore
In quale vicolo o strada, batterà il tuo cuore
In quale culla di pietra pura
Imparerai, la vita è un’avventura

Peppino, Peppino, tu la dovrai amare
Amare è dura e senza frutti al sole
C’è più coraggio nella fantasia
La vita tua diventa mia.
(Peppino Peppino, Antonello Venditti, dall’album Venditti e Segreti, 1986)

«Ho capito la canzone Peppino Peppino quando avevo diciassette anni, perché prima non solo non avevo ancora una personalità definita, ma neanche la conoscenza dei fatti, dell’amore, del sapersi raccontare, del sapersi dare». Francesco è il figlio del cantautore Antonello Venditti e della regista, scrittrice, sceneggiatrice, Simona Izzo. Attore e doppiatore, ha percorso la strada di una lunga tradizione familiare nel doppiaggio, iniziata da suo nonno Renato e proseguita dalle zie, Rossella, Fiamma, Giuppy e dalla mamma Simona e abbracciando tutto quel bagaglio di insegnamenti ha costruito il suo essere artista. Quando suo padre scrive Peppino Peppino Francesco ha dieci anni. È il 1986. [continua…]

Vuoi scoprire la storia di Francesco Venditti?

Leggi L’arte di essere figli (Luciana Satta) – Carlo Delfino editore

*contiene l’intervista esclusiva a Francesco Venditti rilasciata in data 17 febbraio 2022 e foto inedite gentilmente concesse dall’artista

Francesco Venditti, alle sue spalle suo figlio Tommaso. Foto gentilmente concessa dall’artista, pubblicata per la prima volta ne “L’Arte di essere Figli”

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Ad occhi chiusi per sentire il suono dell’ANIMA

NICOLA AGUS

di Luciana Satta

ph. Nicola Castangia

Era un giorno di fine estate del 2019 quando il suo “Viaggio intorno al mondo in ottanta strumenti”, spettacolo di musica e immagini da lui ideato, è arrivato alla trentaseiesima edizione di Voci d’Europa, a Porto Torres, uno dei festival più longevi di musiche polifoniche della Sardegna. Lì ho conosciuto l’energia di Nicola Agus, il suo mondo straordinario di compositore e di polistrumentista e quell’universo affascinante di suoni e di strumenti musicali, che aprono un varco nell’immaginazione e dal Mediterraneo ti fanno volare nelle aree nordiche e celtiche, dalla Spagna alla Scozia e ancora dall’America giungere fino in Cina. Chiudi gli occhi e ti ritrovi in un’altra dimensione. In spazi sconfinati. È un percorso in cui le sonorità della Sardegna “svestono gli abiti della tradizione ed entrano in un mondo di suoni moderni e contemporanei, in cui lo strumento è valorizzato in ogni suo aspetto tecnico e sonoro”. È vento che soffia, o mare in tempesta, è il respiro dell’infinito. Il suono dell’Anima. Dall’Occidente all’Oriente. Dalla Gaita de Cuerno, strumento spagnolo dell’Andalucia all’UDU, lo strumento a percussione delle donne nigeriane, dal Shakuhachi Flute, al Koto, l’arpa giapponese, dall’Hichiriki ad ancia doppia, all’Eram, lo strumento inventato quattro anni fa da Nicola Agus con le canne portate da una mareggiata improvvisa fino al Poetto di Cagliari… «A me interessa – spiega – che la mia musica conduca in punti lontani dell’anima, la devi sentire sulla pelle. Ti devi lasciare trasportare, voglio che sia un’esperienza, altrimenti non avrebbe senso. La posso suonare ovunque, anche chiuso in una stanza, ma la gente la percepisce, viaggia… poi quando a fine concerto qualcuno si avvicina e mi dice: “Ah, mi hai portato lontano…” io sono felice. Il significato è questo: con me bisogna lasciare fluire, farsi trasportare. E poi, siccome viaggiare costa (ride, n.d.r.), almeno con la mia musica sognano di essere in un luogo lontano nell’immaginario, sentono una cornamusa e attraverso quel suono magari immaginano di trovarsi in Irlanda, o in Scozia».

ph. Nicola Castangia

Il tuo percorso nella musica ha origine molto tempo fa, quando eri piccolo. Cosa ricordi di quando eri bambino e cosa ti ha affascinato del mondo dei suoni?

«Da bambino ero attratto dai suoni, ero curioso, avevo voglia di capire. Ero irrequieto, non stavo mai fermo, mai tranquillo. Ho messo alla prova i nervi dei miei genitori! Ma ho manifestato e capito da subito che la musica era la mia vita. Giocavo… con le costruzioni non creavo case, ma strumenti musicali, come i flauti, avevo già questa propensione. A casa c’erano gli strumenti classici, perché gli zii si dilettavano a suonarli, a mio padre piaceva la chitarra, non era eccelso, ma gli piaceva canticchiare a modo suo, credeva di essere bravo. Ma la mia passione non è nata dall’osservazione. Per me è qualcosa di innato, sei affascinato da un suono e lo sviluppi. In realtà tutti noi già quando siamo nel ventre materno percepiamo i suoni che provengono dall’esterno. Appartengono alla nostra memoria. La voce della madre poi tranquillizza il bambino e riesce a farlo addormentare. Non è la ninnananna in sé che lo calma, ma è la voce che è abituato a sentire. Assorbiamo tutti i suoni, è una curiosità che ci appartiene da sempre. La musica ha un ruolo importante. Poi, logicamente, un conto è essere curiosi, un conto è cercare di riprodurre quei suoni e farne una professione. Quello arriva con il tempo e con lo studio e l’approfondimento. Per me la musica è linguaggio, è la mia seconda lingua. È una grande forma di comunicazione, un modo per lanciare un messaggio. Il mio obiettivo è di farti trovare in un’altra dimensione e “staccare” la mente da tutto. Già nelle tribù africane era una forma di comunicazione molto potente, perché la voce non poteva essere percepita a grandi distanze, mentre il suono dei tamburi raggiungeva chilometri di distanza. La musica nasce dove l’uomo non può arrivare».

ph. Nicola Castangia

I tuoi strumenti provengono da tutto il mondo, ma molti sono da te costruiti. Dove li hai acquistati o come li recuperi?

Questa degli strumenti musicali è una “malattia”. Viviamo il mondo come se fosse a nostra immagine e somiglianza, ma all’interno del nostro sistema non siamo soli, arrivano tante influenze da parte di diverse culture. La sardità che diventa “egocentrismo” non mi appartiene e non mi interessa, non mi sento in un ombelico del mondo da cui tutto ha origine, dove tutto nasce e si sviluppa. Io guardo oltre il mare. Prendere strumenti da ogni parte del mondo deriva da una mia ricerca musicale, ma anche dalla domanda: “Se fossi nato lì come avrei utilizzato questo strumento?”. Tutto nasce dalla mia curiosità, mi piace vedere come in parti diverse del mondo esistano strumenti anche molto simili tra loro. Nella Via della Seta, ad esempio, ci sono tanti strumenti affini, dal mondo arabo sino all’Oriente. Si presentano in forme diverse ma la timbrica è la stessa e lo stesso è il principio. Non mi fermo solo a questo tipo di ricerca, mi piace crearne anche di nuovi, strumenti che non esistono, con forme differenti, ma anche apparentemente banali: dal suono che posso ricavare da una bottiglia d’acqua o da quella sonorità che posso creare dal nulla. Tutto viene naturale, ma bisogna anche studiare. La ricerca va in una determinata direzione se c’è dietro uno studio. Altrimenti stai creando ponti che non hanno un significato».

Sei entrato in contatto con qualcuno che ti ha insegnato qualcosa per quanto riguarda anche la costruzione degli strumenti?

«No, perché ognuno ha un suo pensiero. Mi hanno sempre appassionato la fisica e la chimica, che sono importanti per la musica. La fisicità dello strumento ne determina anche la timbrica, la chimica e il tipo di sostanze che possono entrare e possono danneggiare gli strumenti, come gli agenti atmosferici. Oppure se, ad esempio, se utilizzo la plastica in una certa modo, posso ottenere lo stesso suono prodotto da una chitarra in legno. Sono modi differenti di vedere le cose».

Come nasce la tua musica, da quali evocazioni?

«Innanzitutto il mio è un filone “New Age Spiritual Colossal”, rientra nel mondo della Cinematografia e appartiene al mondo Contemporaneo, olistico documentaristico. “Olistico”, perché è una musica che induce al rilassamento, da non confondere con la “musica rilassante per massaggi”, perché la mia non è lineare, cambia, accelera, rallenta. Tende a riportare l’uomo alle sue origini naturali, affinché risvegli in lui una forma di spiritualità e non sia concentrato solo sul progresso e sul denaro».

ph. Nicola Castangia

Tu sei stato fuori, hai viaggiato… come mai poi hai scelto di ritornare in Sardegna?

In realtà non ho scelto di rientrare in Sardegna. Si sono combinate alcune situazioni per cui mi sono arrivate delle proposte dalla Regione… ma penso che le mie idee fossero troppo innovative, io non sono un suonatore di launeddas tradizionale, sono un musicista che utilizza le launeddas in maniera diversa. La mia è una ricerca innovativa, dove lo strumento prende forma come se fosse una chitarra elettrica, o una cornamusa, o un sax, o un’armonica a bocca. Questo a volte fa storcere il naso ai tradizionalisti. Ma non è che io rifiuti la Sardegna… noi nasciamo liberi, in una terra chiamata “mondo”. A me interessa stare nel mondo. La Sardegna ce l’hai già dentro, ma io sono nato nell’ottantadue e ho avuto la possibilità di sperimentare e di capire perché la musica si è evoluta in una determinata maniera.

Arte, musica e riciclo. Tra i tanti strumenti che hai ideato, con le canne del Poetto tempo fa hai creato uno strumento che hai chiamato “Eram”…

Nel 2019 in seguito ad una mareggiata la spiaggia del Poetto fu completamente invasa dalle canne. È stato un forte momento di aggregazione, i bambini giocavano con le canne come se non le avessero mai viste. Ero rimasto molto colpito, perché era la prima volta che non ero stato io a cercarle per costruire i miei strumenti, ma loro erano giunte fino a me. Avevo voluto rendere omaggio a quel momento particolare, pensando anche al fenomeno dell’immigrazione, perché le canne spiaggiate ricordavano anche i corpi delle vittime portate dal mare, che oggi purtroppo è un cimitero a cielo aperto. Allora ho pensato di creare l’unico strumento che potesse parlare di quello che sta vivendo il mare, una sorta di strumento a corda… la corda può simulare le onde del mare, perché quando la fai vibrare produce un’onda e il suono viene propagato. Ho deciso di sperimentare e di creare uno strumento a corda utilizzando la canna e come tastiera un rostro, la spada del pesce spada e ho realizzato così uno strumento del mare… in seguito ne ho creato tantissimi.

Mi piace anche far cantare la voce dell’acqua utilizzando una semplice bottiglietta di acqua

naturale.

Sei anche autore delle musiche de “I venerdì della storia – Le bugie” dell’attore e autore Gianluca Medas, voce narrante dello spettacolo. In questo caso come nascono le tue composizioni per questo appuntamento alla manifattura Tabacchi di Cagliari?

Lì è un altro lavoro sull’improvvisazione diretta, in simbiosi con l’artista. Non ci sono prove. È fatto tutto sul momento e a me piace perché spazio e posso giocarmela sempre in maniera diversa. Misteri irrisolti e strumenti diversi, e ogni volta musiche e sensazioni nuove.

Ph. Nicola Castangia

Licia Colò ti ha chiamato diverse volte nelle sue trasmissioni. Sei stato invitato a portare la tua musica nello studio di “Il mondo insieme”, proprio per quella tua capacità di riuscire a fare suonare qualsiasi oggetto della quotidianità e ovviamente per i tuoi strumenti musicali dedicati ai vari paesi del mondo. Come è stata questa esperienza?

Inizialmente mi hanno invitato in trasmissione per suonare la carta e altri oggetti semplici e comuni. È stata una bella esperienza, sono stati gentilissimi, ma prevalentemente cercavano qualcosa che potesse stupire… suonare un pezzo di carta, o il vetro o un uovo magari è una forma spettacolare che colpisce maggiormente in tv. Poi, lei (Licia Colò) era rimasta colpita dall’Eram, perché unisce alla ricerca sonora una riflessione più profonda sull’emigrazione. Quando ho avuto la possibilità di suonare l’Eram ho potuto dare un senso più profondo e strutturato a ciò che voglio esprimere. È stata una pubblicità positiva e poi è una strada tutto da costruire. Io credo che non bisogna restare statici, ma perseverare e migliorare, sempre con umiltà. Io non suono esclusivamente per esibirmi in concerto, suono perché amo la musica. La vivo con umiltà e spensieratezza. Se il pubblico viene, bene, altrimenti suono lo stesso.

***Questo testo e gli scatti non possono essere riprodotti, senza l’autorizzazione dell’autrice e del fotografo, che ne detengono i diritti. Il testo e il materiale fotografico sono apparsi sulla rivista Iod (numero di settembre 2023).

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PINA MONNE muralista

L’amore per la Sardegna attraverso l’arte dei murales

Le sue figure femminili esprimono tanta dolcezza, ma altrettanta fierezza.

Il murales di Pina Monne dedicato a Maria Carta

di Luciana Satta

«Ho sempre messo al primo posto il mio sogno: raccontare l’amore per la Sardegna attraverso l’arte. Ed è quello che faccio tuttora. Ho ricevuto tantissime proposte per potermi trasferire definitivamente all’estero, ma ho sempre rifiutato. Senza la mia Sardegna non sarei Pina Monne muralista». Per lei, che dal 1996 ha realizzato centinaia di murales in oltre novanta paesi dell’Isola, da bambina dipingere e colorare significava tutto. «Ho trascorso la mia infanzia a Irgoli – ricorda –,  paese nel quale sono nata. Alla scuola materna la maestra portava me e altri quattro bambini in una sala dove c’era il laboratorio di arte. Lì si dipingevano i cartelloni. Alle elementari la maestra mi fece scrivere un tema, il titolo era: “Cosa vuoi fare da grande?”. Io avevo già chiare le idee, volevo fare l’artista, volevo essere pittrice». 

Pina Monne ph. Rosy Brau

Una strada che, inizialmente, non fu compresa dalla famiglia. «Dovevo iscrivermi alle superiori e a casa mia arrivò l’insegnante di educazione artistica per parlare con i miei genitori. Volevo che mi permettessero di studiare l’istituto d’arte, ma loro non vollero sentire ragioni. Mi dissero che dovevo frequentare le magistrali per poter avere un’opportunità di lavoro. Io allora rinunciai a quel sogno e con grande fatica mi diplomai alle magistrali. La vivevo come una costrizione». Ma la passione di Pina Monne per l’arte resta forte, anche quando inizia a lavorare come insegnante in un asilo nido. Cinque anni lunghissimi, trascorsi comunque senza mai abbandonare i pennelli e le tele, fino a quando capisce che la sua strada è un’altra. «Ho detto a me stessa: “Non è quello che io amo fare!”. Poi, nella vita di questa artista straordinaria, arriva la svolta.  «Ho scelto di seguire ciò che da sempre desideravo. Ho partecipato a un concorso di murales a Tinnura, l’ho vinto. Da quel momento non mi sono mai fermata, è stato come un decollo e ora mi trovo a volare ad alta quota da tantissimi anni…». Sono trascorsi diciassette anni da allora. Pina Monne, artista eclettica, ceramista, pittrice, di strada ne ha fatta tanta. Un percorso che l’ha portata al muralismo, a raccontare le nostre tradizioni attraverso il ritratto, perché, dice:  «Mi piace cogliere l’anima attraverso i visi dei vecchi bruciati dal sole. Basta osservarli. Se li scruti con attenzione riescono a raccontarti tutto quello che vuoi sapere della loro vita, della fatica, del sacrificio. Arrivano alla fine della loro esistenza con una serenità d’animo che oggi molti di noi non hanno ancora raggiunto. In noi c’è una profonda insoddisfazione, mancano i punti di riferimento. Questi anziani riescono, invece, a infonderti ancora sicurezza, certezza». I volti degli anziani e i volti della donna sarda. Le sue figure femminili  esprimono tanta dolcezza, ma altrettanta fierezza. Come nell’opera La ragazza di Fonni, olio su tela scelto dalla curatrice d’arte Marta Losignore per la Galleria multimediale Mad di Milano, dove resterà in esposizione per un anno. 

«Credo che la donna sarda, soprattutto nella provincia di Nuoro da dove io provengo, abbia veramente grandi doti manageriali. Io ammiro tantissimo questa  capacità e cerco sempre di rappresentarle in quella maniera. Grazia Deledda è il simbolo. Era quasi fuori tempo, era molto avanti rispetto alle donne di quel periodo, lei era già oltre… ». Ma il riassunto di tutto ciò che per l’artista di Irgoli rappresenta la donna sarda è la Donna di Oniferi ritratta a cavallo. «Sono legata a tutte le mie opere – afferma –. Se uno le osserva dall’inizio sino alla fine, riesce a capire la mia crescita artistica nel tempo. Ma, se devo essere sincera, mi piace tantissimo il murale che ho fatto a Oniferi… ha una storia importante. Il sindaco voleva che rappresentassi una persona a cavallo e si era partiti dal presupposto che dovesse essere un uomo. Tutti i ragazzi del paese volevano essere scelti. Io, alla fine dipinsi una donna. Aveva perso il marito. Esprimeva una forza interiore che mi colpì tantissimo, era una persona straordinaria, con un animo grande. Un esempio di donna sarda coraggiosa che è diventata insieme padre e madre per i suoi figli. L’ho portata in campagna e abbiamo fatto degli scatti in abito tradizionale. Poi, ho selezionato accuratamente la foto che preferivo per realizzare il murale. I suoi occhi parlavano, raccontavano chi era e cosa aveva dentro». 

Pina Monne è anche l’autrice del murale di Maria Carta, a Siligo. «Stavo lavorando a Bessude, ma mi serviva un rullo e non trovai un negozio di ferramenta in paese. Dunque andai nella vicina Siligo, ma trovai il negozio chiuso. Così decisi di fare una passeggiata e giunsi nella piazza. Lì, in un angolo, c’era la piccola statua in bronzo dedicata alla cantante. Poi mi voltai e vidi una parete. Pensai a Maria Carta, alla sua voce, a lei che ha rappresentato la musica sarda all’estero, a lei che amava tantissimo la Sardegna. Mi avvicinai in Comune, chiesi di poter parlare col sindaco, ma non lo trovai. Mi chiamò in seguito e dissi che mi sarebbe piaciuto regalare una grande opera alla memoria di Maria Carta, perché la meritava. Mi portò a casa del fratello della cantante, il quale mi mostrò le foto dell’artista. Tra queste abbiamo scelto insieme quel bellissimo scatto. Ho notato subito quello sguardo. Il sindaco mi ha detto che sarebbe stato bellissimo se fossi riuscita a realizzare il murale dopo tre giorni, in occasione dell’inaugurazione della piazza. Allora lavorai giorno e notte, con i fari puntati sulla parete. Il giorno dell’inaugurazione il murale era pronto». 

Ma per Pina Monne il muralismo non è fondamentale solo perché le permette di esprimere  attraverso i colori e le figure quello che sente per la sua terra, ma perché «è il momento in cui qualsiasi spettatore si ferma e mi pone delle domande e diventa curioso, si interessa a quello che sto realizzando. Per me quell’attimo è importante: quando c’è il dialogo con quella persona che senti vicina, che non ti conosce. Infatti per me il mio lavoro non è mai motivo di noia, ma di scoperta, di ricerca. Al primo posto c’è passione, il motore che mi spinge tutti i giorni a salire sull’impalcatura e che mi spinge ad affrontare lunghi viaggi». È la grande superficie ad affascinare Pina Monne, quella che all’età di vent’anni l’ha portata a conoscere i muralisti più famosi:  Angelo Pilloni, Archimede Scarpa, Luciano Lixi, Pinuccio Sciola, Ferdinando Medda. Da lì è iniziata la sua carriera di autodidatta e anche l’amicizia con i due grandi muralisti Angelo Pilloni e Archimede Scarpa. «Utilizziamo il murale allo stesso modo, non come simbolo di protesta, ma come arredo urbano, per rivalutare le zone deturpate dei paesi». Così le loro opere diventano delle scenografie all’aperto che raccontano in maniera chiara quella che è stata la tradizione del posto. «Così è nato il mio grande amore, che è rimasto latente in me per qualche anno ma poi, all’età di trentatré anni è sbocciato, esploso, con il concorso di murales a Tinnura, da dove sono partita e dove ancora adesso mi ritrovo».

(*Anno 2017)

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