Ci sono storie scritte e storie ancora da scrivere… tante sono rimaste impresse sulla carta, altre sono state nascoste, custodite, amate o odiate, da qualcuno sottratte, alcune consumate, altre ancora scopiazzate. Ma restano. Hanno gambe veloci e occhi grandi, le storie scritte. Rompono silenzi. Valicano muri. Evolvono. Frutto del passato, con lo sguardo orientato verso il nuovo. Si cambia strada, sempre! Quello che leggerete è frutto del mio lavoro e della mia passione. Questa è la casa delle mie idee, dei miei pensieri, dei miei incontri.
“La parola d’ordine di questo tempo? Per me è Fraternità”
“Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca. Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle. Considero valore il vino finché dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano. Considero valore quello che domani non varrà più niente e quello che oggi vale ancora poco.
Considero valore tutte le ferite. Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi, provare gratitudine senza ricordare di che.
Considero valore sapere in una stanza dov’è il nord, qual è il nome del vento che sta asciugando il bucato. Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca, la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.
Considero valore l’uso del verbo amare e l’ipotesi che esista un creatore. Molti di questi valori non ho conosciuto”.
(Erri De Luca, Valore, tratto da Opera sull’acqua e altre poesie, Einaudi, Torino, 2002)
Il mare, la montagna, l’impegno civile. Parole che racchiudono il valore di un uomo. Di uno scrittore, uno dei più grandi della Letteratura contemporanea, che nell’era della tecnologia e dell’intelligenza artificiale non ha mai sostituito la sua penna con la tastiera di un computer. «Ho cominciato a scrivere in adolescenza ma dopo essere diventato un lettore – ricorda –. Avevo a disposizione la biblioteca dei miei genitori e una predisposizione a starmene in disparte invece che con dei coetanei. Allora è venuta la scrittura, in aggiunta alla lettura come modo di tenermi compagnia. Ho scritto la prima storia a undici anni, raccontava di un pesce. Da allora ho proseguito e ancora oggi considero la scrittura il tempo felice della mia giornata». Il suo stile è ormai riconoscibile e inconfondibile, dal suo primo libro (Non ora, non qui), pubblicato nel 1989 e tradotto in oltre trenta lingue, all’ultimo Le regole dello Shangai, presentato all’ultima Fiera del libro di Torino. È quel modo limpido di raccontare le storie, la cura e la precisione nella scelta dei vocaboli e quella semplicità apparente che ti induce a riflettere, a scavare in profondità e a guardarti dentro. A cercare di andare oltre l’apparenza. Lui che non solo in montagna e in completa solitudine percepisce l’immensità, ma quando ancora una volta tende la mano, al bambino o all’anziano, in mezzo alla gente che soffre. In prima linea, per donare il suo immancabile supporto. In silenzio, senza clamori. Perché la parola d’ordine di questo tempo per Erri De Luca resta sempre e solo una: “Fraternità”.
In un’intervista ha dichiarato: «Non avevo orecchio per la musica. […] A Napoli era un grande difetto fisico. Me lo hanno corretto inculcandomi musica fino a farmi intonato. Ma ero anche, di preferenza, zitto. Allora le canzoni mi hanno aperto le vie ingolfate delle corde vocali. Ho imparato a parlare come i balbuzienti: cantando. Perciò la musica mi ha medicato». Quanto è profondo il legame tra la musica e la sua scrittura?
«La musica è con me troppo esigente, se c’è non posso fare altro che ascoltarla. Non la posso usare come sottofondo di un’attività, neanche quando guido, perché assorbe tutta la mia attenzione. Perciò quasi mai ho musica intorno. Mi capita di canticchiare quando sto scalando una parete ma è una tecnica per regolare la respirazione. Nella scrittura che faccio conta invece la voce del personaggio che la sta raccontando. La mia scrittura è orale, la sento nell’orecchio interno mentre la stendo sul quaderno. Io scrivo a penna, non su tastiera».
Lei ha detto: “Oggi il successo viene esposto in tutte le varie gradazioni. Il successo nel mestiere, nell’amore, nello sport. Dall’altra parte ci sono quelli che tentano di sottrarsi da questo chiasso del successo e a consistere in valori più silenziosi, in valori di rinuncia a questa esposizione”. Come vive questa epoca e questa società dove ostentazione e narcisismo sono protagonisti?
«Il successo per me è solo il participio, passato del verbo succedere. Mi sono successe molte cose impreviste, compresa questa di rispondere a domande di un’intervista. Faccio lo scrittore, un’attività di limitato impatto pubblico, che non mi espone su clamorose ribalte. Se invitato in televisione, vado solo se posso limitarmi a un dialogo con chi conduce la trasmissione, senza dover partecipare di un dibattito e di un battibecco. Non seguo perciò nessun programma di discussione spettacolo. Insomma mi tengo un po’ in disparte, per temperamento».
Il mare e la montagna: due grandi passioni. Cosa rappresentano per lei?
«Sono spazi dove la presenza umana si dirada fino a scomparire. Appeso a una parete verticale riconosco con precisione la mia taglia minuscola nell’immensità del luogo. È il giusto rapporto tra la presenza umana e la grandezza del pianeta. In luoghi affollati l’ambiente finisce sotto i piedi. In mare come in montagna invece è superficie di attraversamento. La cima di una montagna non è arrivo, solo termine di salita prima della discesa. Non è spazio accogliente, non è un parco giochi, al meglio è indifferente, estraneo, ma basta poco, anche un banco di nebbia, a renderlo impraticabile. Non trovo me stesso in montagna, invece perdo questo me stesso che si crede residente e si ritrova in quegli spazi un intruso, un ospite senza invito».
Che significato ha per lei la parola “libertà”?
«Per me consiste nel tenere insieme quello che dico e quello che faccio. Fare in modo che le parole corrispondano a conseguenti azioni. Da questa interpretazione della mia libertà si capisce che nessuna privazione esterna, neanche una prigione, me la può ridurre. In generale individuo la libertà in quella descritta nel libro dell’Esodo, dove un popolo di schiavi si stacca compatto in schiere dalla sua condizione. Ecco che la libertà è un deserto, non un paese di cuccagna, è uno sbaraglio che dura il tempo di costruire una comunità del tutto nuova, nata e svezzata dal deserto e dalla disciplina di un accampamento mobile. La libertà è un’impresa che si rinnova continuamente, non data una volta per tutte. Perciò le democrazie possono rinunciarci, suicidarsi, regredire verso forme di tirannia».
“Ho partecipato al soccorso alimentare nei campi profughi. Oltre all’appoggio materiale serviva a quelle persone accampate il conforto di non sentirsi abbandonate. I nostri arrivi in quei campi erano occasione di abbracci, di strette di mano, di festa per i bambini che ricevevano anche quaderni e matite colorate. Riferisco queste piccole cose perché immenso è il bisogno di calore umano in una guerra”. Cosa ha significato per lei incontrare quei bambini, qual è il suo ricordo più vivido?
«I bambini hanno una forza superiore a quella degli adulti. Giocano pure nelle peggiori condizioni, sopportano denutrizioni, si fanno bastare il poco e niente. Dice una frase del Talmùd che è il frutto a proteggere l’albero. Da più di un anno vado con un furgone e un amico nell’Ucraina di orfanotrofi e di posti che ospitano profughi. Ho visto la disciplina di quel popolo messo alle strette, la disciplina dei bambini pronti a interrompere il gioco, attenti a non far chiasso in accampamenti e alloggi di fortuna ricavati in scuole e altri spazi pubblici. Senza andare così lontano, si possono vedere da noi simili bambini che sbarcano sulle nostre rive da scialuppe sgangherate, dopo aver condiviso uno spazio schiacciato e un tempo di sbaraglio in alto mare».
Che cosa rappresenta la poesia per lei? A quale poeta della letteratura italiana si sente più affine?
«La mia poeta preferita si chiama Marina Zvetaeva, russa. Sono un lettore di poesia del 1900, un secolo che si è potuto esprimere sotto la pressione di enormi avvenimenti, migrazioni di miriadi di esseri umani, guerre mondiali, deportazioni, campi di concentramento. Poco tempo e poca carta per scrivere, e allora la poesia è stata la forma concentrata della letteratura. Ho conosciuto un poeta di Sarajevo negli anni ‘90 della guerra di Bosnia. Durante gli anni dell’accerchiamento si facevano serate di poesia in un seminterrato di notte. Quei cittadini che mancavano di tutto avevano bisogno di sentire parole capaci di sospendere l’oppressione, di far dimenticare per qualche ora la fame, i lutti. La poesia è stata all’altezza del compito. Lui, Izet Sarajlic, mi diceva che loro, i poeti, avevano fatto il turno di notte per impedire l’arresto del cuore di Sarajevo e dei suoi abitanti».
“In una città che visito per la prima volta assaggio l’acqua di una fontana pubblica e il pane di un forno. Ogni posto distilla la sua acqua e ha le sue notti per cuocere l’impasto” (da Spizzichi e bocconi). Quale piatto le ricorda maggiormente la sua infanzia e chi glielo preparava?
«Il ragù della domenica a casa di nonna Emma, un’intensità di odore e di papille mai più raggiunto, ma indelebile nei miei sensi. In quella tavola chiacchierona si faceva l’improvviso silenzio della pasta al ragù calata fumante nei piatti. Chiudevo gli occhi per concentrarmi nella masticazione, li riaprivo per infilare la forchetta in quel rosso cupo, denso, cotto un giorno e una notte a fuoco minimo».
“A Nuragus in Sardegna, dall’amico Stefano Soi ho bevuto latte di capra, pure quello munto fresco in regalo”. Sempre nel suo libro Spizzichi e bocconi ha citato un suo amico sardo, Stefano Soi, che nel corso di una mia intervista ha detto di lei a sua volta: “È una persona con cui si è creato un rapporto incredibile”. Quanto è importante per lei il valore dell’amicizia?
«L’amicizia è un dono, all’inizio del tutto immeritato, come dev’essere un dono. Poi dev’essere custodita, confermata, anche a distanza. Io ne ho perse molte con rammarico e per validi motivi. Oggi è parola inflazionata dall’uso improprio dei canali social. Io ne conservo il significato ristretto e uso per le altre relazioni il termine di conoscenze».
Nel 2011 ha creato la sua Fondazione che porta il suo nome e con cui si prefigge di seguire diversi progetti a sfondo culturale e sociale. Quali progetti le stanno a cuore?
«È un piccolo sodalizio che si regge sul sostegno dei soci e non di istituti pubblici o privati. Non accediamo a fondi. Procuriamo dei contributi agli studi universitari di studenti immigrati, scelti insieme alla Comunità di Sant’Egidio di Napoli, consideriamo i flussi migratori l’avvenimento maggiore della nostra epoca e la più importante esperienza sostenuta dal volontariato italiano, che è un’eccellenza europea».
“Lei è una giovane gitana in fuga dalla famiglia per sottrarsi al matrimonio combinato con un uomo anziano, lui è un orologiaio che sta campeggiando sul confine e la accoglie nella propria tenda”. Le regole dello Shangai è il suo ultimo libro. Qual è il messaggio?
«Racconto storie, non voglio usarle per far passare messaggi. Oggi mi sta a cuore un’alleanza tra giovanissimi e anziani, le due fasce di età che sanno guardare al futuro per immaginarlo, non per contemplarlo. La fascia di età adulta è invece ingolfata nel presente, se lo contende e non è capace di intenderlo né volerlo, chiamando emergenza perfino la raccolta dei rifiuti. C’è una incompetenza di gestione adulta che rende necessaria l’intesa tra nipotini e nonni. Ho scritto una storia che riguarda queste due fasce di età».
“Uno vede la vita come un fiume, uno come un deserto,
un altro come una partita a scacchi con la morte.
Io la vedo sotto forma di un gioco di Shangai fatto da solo”.
(Erri De Luca, Le regole dello Shangai, Feltrinelli, 2023)
***Il testo non può essere riprodotto in tutto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autrice. Le foto sono della Fondazione Erri De Luca e concesse dallo scrittore all’autrice dell’articolo. Tutti i diritti sono riservati.
Era un giorno di fine estate del 2019 quando il suo “Viaggio intorno al mondo in ottanta strumenti”, spettacolo di musica e immagini da lui ideato, è arrivato alla trentaseiesima edizione di Voci d’Europa, a Porto Torres, uno dei festival più longevi di musiche polifoniche della Sardegna. Lì ho conosciuto l’energia di Nicola Agus, il suo mondo straordinario di compositore e di polistrumentista e quell’universo affascinante di suoni e di strumenti musicali, che aprono un varco nell’immaginazione e dal Mediterraneo ti fanno volare nelle aree nordiche e celtiche, dalla Spagna alla Scozia e ancora dall’America giungere fino in Cina. Chiudi gli occhi e ti ritrovi in un’altra dimensione. In spazi sconfinati. È un percorso in cui le sonorità della Sardegna “svestono gli abiti della tradizione ed entrano in un mondo di suoni moderni e contemporanei, in cui lo strumento è valorizzato in ogni suo aspetto tecnico e sonoro”. È vento che soffia, o mare in tempesta, è il respiro dell’infinito. Il suono dell’Anima. Dall’Occidente all’Oriente. Dalla Gaita de Cuerno, strumento spagnolo dell’Andalucia all’UDU, lo strumento a percussione delle donne nigeriane, dal Shakuhachi Flute, al Koto, l’arpa giapponese, dall’Hichiriki ad ancia doppia, all’Eram, lo strumento inventato quattro anni fa da Nicola Agus con le canne portate da una mareggiata improvvisa fino al Poetto di Cagliari… «A me interessa – spiega – che la mia musica conduca in punti lontani dell’anima, la devi sentire sulla pelle. Ti devi lasciare trasportare, voglio che sia un’esperienza, altrimenti non avrebbe senso. La posso suonare ovunque, anche chiuso in una stanza, ma la gente la percepisce, viaggia… poi quando a fine concerto qualcuno si avvicina e mi dice: “Ah, mi hai portato lontano…” io sono felice. Il significato è questo: con me bisogna lasciare fluire, farsi trasportare. E poi, siccome viaggiare costa (ride, n.d.r.), almeno con la mia musica sognano di essere in un luogo lontano nell’immaginario, sentono una cornamusa e attraverso quel suono magari immaginano di trovarsi in Irlanda, o in Scozia».
ph. Nicola Castangia
Il tuo percorso nella musica ha origine molto tempo fa, quando eri piccolo. Cosa ricordi di quando eri bambino e cosa ti ha affascinato del mondo dei suoni?
«Da bambino ero attratto dai suoni, ero curioso, avevo voglia di capire. Ero irrequieto, non stavo mai fermo, mai tranquillo. Ho messo alla prova i nervi dei miei genitori! Ma ho manifestato e capito da subito che la musica era la mia vita. Giocavo… con le costruzioni non creavo case, ma strumenti musicali, come i flauti, avevo già questa propensione. A casa c’erano gli strumenti classici, perché gli zii si dilettavano a suonarli, a mio padre piaceva la chitarra, non era eccelso, ma gli piaceva canticchiare a modo suo, credeva di essere bravo. Ma la mia passione non è nata dall’osservazione. Per me è qualcosa di innato, sei affascinato da un suono e lo sviluppi. In realtà tutti noi già quando siamo nel ventre materno percepiamo i suoni che provengono dall’esterno. Appartengono alla nostra memoria. La voce della madre poi tranquillizza il bambino e riesce a farlo addormentare. Non è la ninnananna in sé che lo calma, ma è la voce che è abituato a sentire. Assorbiamo tutti i suoni, è una curiosità che ci appartiene da sempre. La musica ha un ruolo importante. Poi, logicamente, un conto è essere curiosi, un conto è cercare di riprodurre quei suoni e farne una professione. Quello arriva con il tempo e con lo studio e l’approfondimento. Per me la musica è linguaggio, è la mia seconda lingua. È una grande forma di comunicazione, un modo per lanciare un messaggio. Il mio obiettivo è di farti trovare in un’altra dimensione e “staccare” la mente da tutto. Già nelle tribù africane era una forma di comunicazione molto potente, perché la voce non poteva essere percepita a grandi distanze, mentre il suono dei tamburi raggiungeva chilometri di distanza. La musica nasce dove l’uomo non può arrivare».
ph. Nicola Castangia
I tuoi strumenti provengono da tutto il mondo, ma molti sono da te costruiti. Dove li hai acquistati o come li recuperi?
Questa degli strumenti musicali è una “malattia”. Viviamo il mondo come se fosse a nostra immagine e somiglianza, ma all’interno del nostro sistema non siamo soli, arrivano tante influenze da parte di diverse culture. La sardità che diventa “egocentrismo” non mi appartiene e non mi interessa, non mi sento in un ombelico del mondo da cui tutto ha origine, dove tutto nasce e si sviluppa. Io guardo oltre il mare. Prendere strumenti da ogni parte del mondo deriva da una mia ricerca musicale, ma anche dalla domanda: “Se fossi nato lì come avrei utilizzato questo strumento?”. Tutto nasce dalla mia curiosità, mi piace vedere come in parti diverse del mondo esistano strumenti anche molto simili tra loro. Nella Via della Seta, ad esempio, ci sono tanti strumenti affini, dal mondo arabo sino all’Oriente. Si presentano in forme diverse ma la timbrica è la stessa e lo stesso è il principio. Non mi fermo solo a questo tipo di ricerca, mi piace crearne anche di nuovi, strumenti che non esistono, con forme differenti, ma anche apparentemente banali: dal suono che posso ricavare da una bottiglia d’acqua o da quella sonorità che posso creare dal nulla. Tutto viene naturale, ma bisogna anche studiare. La ricerca va in una determinata direzione se c’è dietro uno studio. Altrimenti stai creando ponti che non hanno un significato».
Sei entrato in contatto con qualcuno che ti ha insegnato qualcosa per quanto riguarda anche la costruzione degli strumenti?
«No, perché ognuno ha un suo pensiero. Mi hanno sempre appassionato la fisica e la chimica, che sono importanti per la musica. La fisicità dello strumento ne determina anche la timbrica, la chimica e il tipo di sostanze che possono entrare e possono danneggiare gli strumenti, come gli agenti atmosferici. Oppure se, ad esempio, se utilizzo la plastica in una certa modo, posso ottenere lo stesso suono prodotto da una chitarra in legno. Sono modi differenti di vedere le cose».
Come nasce la tua musica, da quali evocazioni?
«Innanzitutto il mio è un filone “New Age Spiritual Colossal”, rientra nel mondo della Cinematografia e appartiene al mondo Contemporaneo, olistico documentaristico. “Olistico”, perché è una musica che induce al rilassamento, da non confondere con la “musica rilassante per massaggi”, perché la mia non è lineare, cambia, accelera, rallenta. Tende a riportare l’uomo alle sue origini naturali, affinché risvegli in lui una forma di spiritualità e non sia concentrato solo sul progresso e sul denaro».
ph. Nicola Castangia
Tu sei stato fuori, hai viaggiato… come mai poi hai scelto di ritornare in Sardegna?
In realtà non ho scelto di rientrare in Sardegna. Si sono combinate alcune situazioni per cui mi sono arrivate delle proposte dalla Regione… ma penso che le mie idee fossero troppo innovative, io non sono un suonatore di launeddas tradizionale, sono un musicista che utilizza le launeddas in maniera diversa. La mia è una ricerca innovativa, dove lo strumento prende forma come se fosse una chitarra elettrica, o una cornamusa, o un sax, o un’armonica a bocca. Questo a volte fa storcere il naso ai tradizionalisti. Ma non è che io rifiuti la Sardegna… noi nasciamo liberi, in una terra chiamata “mondo”. A me interessa stare nel mondo. La Sardegna ce l’hai già dentro, ma io sono nato nell’ottantadue e ho avuto la possibilità di sperimentare e di capire perché la musica si è evoluta in una determinata maniera.
Arte, musica e riciclo. Tra i tanti strumenti che hai ideato, con le canne del Poetto tempo fa hai creato uno strumento che hai chiamato “Eram”…
Nel 2019 in seguito ad una mareggiata la spiaggia del Poetto fu completamente invasa dalle canne. È stato un forte momento di aggregazione, i bambini giocavano con le canne come se non le avessero mai viste. Ero rimasto molto colpito, perché era la prima volta che non ero stato io a cercarle per costruire i miei strumenti, ma loro erano giunte fino a me. Avevo voluto rendere omaggio a quel momento particolare, pensando anche al fenomeno dell’immigrazione, perché le canne spiaggiate ricordavano anche i corpi delle vittime portate dal mare, che oggi purtroppo è un cimitero a cielo aperto. Allora ho pensato di creare l’unico strumento che potesse parlare di quello che sta vivendo il mare, una sorta di strumento a corda… la corda può simulare le onde del mare, perché quando la fai vibrare produce un’onda e il suono viene propagato. Ho deciso di sperimentare e di creare uno strumento a corda utilizzando la canna e come tastiera un rostro, la spada del pesce spada e ho realizzato così uno strumento del mare… in seguito ne ho creato tantissimi.
Mi piace anche far cantare la voce dell’acqua utilizzando una semplice bottiglietta di acqua
naturale.
Sei anche autore delle musiche de “I venerdì della storia – Le bugie” dell’attore e autore Gianluca Medas, voce narrante dello spettacolo. In questo caso come nascono le tue composizioni per questo appuntamento alla manifattura Tabacchi di Cagliari?
Lì è un altro lavoro sull’improvvisazione diretta, in simbiosi con l’artista. Non ci sono prove. È fatto tutto sul momento e a me piace perché spazio e posso giocarmela sempre in maniera diversa. Misteri irrisolti e strumenti diversi, e ogni volta musiche e sensazioni nuove.
Ph. Nicola Castangia
Licia Colò ti ha chiamato diverse volte nelle sue trasmissioni. Sei stato invitato a portare la tua musica nello studio di “Il mondo insieme”, proprio per quella tua capacità di riuscire a fare suonare qualsiasi oggetto della quotidianità e ovviamente per i tuoi strumenti musicali dedicati ai vari paesi del mondo. Come è stata questa esperienza?
Inizialmente mi hanno invitato in trasmissione per suonare la carta e altri oggetti semplici e comuni. È stata una bella esperienza, sono stati gentilissimi, ma prevalentemente cercavano qualcosa che potesse stupire… suonare un pezzo di carta, o il vetro o un uovo magari è una forma spettacolare che colpisce maggiormente in tv. Poi, lei (Licia Colò) era rimasta colpita dall’Eram, perché unisce alla ricerca sonora una riflessione più profonda sull’emigrazione. Quando ho avuto la possibilità di suonare l’Eram ho potuto dare un senso più profondo e strutturato a ciò che voglio esprimere. È stata una pubblicità positiva e poi è una strada tutto da costruire. Io credo che non bisogna restare statici, ma perseverare e migliorare, sempre con umiltà. Io non suono esclusivamente per esibirmi in concerto, suono perché amo la musica. La vivo con umiltà e spensieratezza. Se il pubblico viene, bene, altrimenti suono lo stesso.
ph. Nicola Castangia
***Questo testo e gli scatti non possono essere riprodotti, senza l’autorizzazione dell’autrice e del fotografo, che ne detengono i diritti. Il testo e il materiale fotografico sono apparsi sulla rivista Iod (numero di settembre 2023).