Il folle che parlava agli uccelli apre la stagione del CEDAC
L’uomo iniziò a dare i nomi alle cose Ma sbagliò le parole Chiamò il denaro “valore” La specie “razza” Separò le ricchezze e le persone E chiamò “progresso” l’autodistruzione L’uomo disse: «I ghiacci si sciolgono il mare si avvelena, La terra non produce L’aria ammala».
Simone Cristicchi
Riflessioni, canzoni inedite, domande si alternano in un gioco di chiaroscuri. Con Franciscus/ Il folle che parlava agli uccelli Simone Cristicchi porta sul palco del teatro Verdi di Sassari per la prima del CEDAC, tutta la sua sensibilità, alter ego di «Franciscus, il rivoluzionario, l’estremista, l’innamorato della vita. Franciscus che visse per un sogno. Il folle che parlava agli uccelli e che vedeva la sacralità e la bellezza in ogni dove: nel volto di una persona, nello sguardo di un animale, ma anche nel sole, nella morte, nella terra su cui camminava insieme agli altri».
Al centro della scena, i grandi temi dell’Umanità: la vita e la morte, la gioia del donarsi, il dolore, la guerra interiore e tra gli uomini. La follia. Perdersi per ritrovarsi. E uno scambio intenso e profondo con il pubblico.
ph. Roberto Pintus
Simone Cristicchi veste Francesco D’Assisi di contemporaneità, attraverso i suoi occhi di artista viscerale, quando toglie il copricapo e svela se stesso con le sue mille domande sul senso dell’esistenza e attraverso lo sguardo di Cencio, personaggio centrale, quando il copricapo lo indossa insieme agli abiti di tela di sacco.
Foto di Roberto Pintus
Cencio, lo “straccivendolo”, voce narrante, non comprende la scelta di Francesco, è specchio dei suoi detrattori. E’ alla fine, nella sofferenza, che coglie il significato del suo messaggio.
ph. Roberto Pintus
«Mi era necessario approssimarlo , sia nel senso di avvicinarlo, tramite approfondite letture, conferenze, e visite nei suoi luoghi; sia nel senso di semplificarlo, per poterlo comprendere e sentire accanto, correndo il rischio di essere impreciso, insolente, insolito – ha spiegato Cristicchi -. Così è uscita fuori l’idea che ho di lui. Il mio Francesco. Non riuscivo a mettermi nei suoi panni, perciò me li sono fatti prestare da Cencio».
ph. Roberto Pintus
Io Francesco, lo amo e lo odio. Lo amo perché è di tutti. Lo odio perché non è per tutti. Lo amo perché è luminoso e carnale, così umano. Lo odio perché è difficile da imitare, troppo vicino al divino. Lo amo perché mostra una via. Lo odio perché quella via non ammette bugia.
Simone Cristicchi
ph. Roberto Pintus
di e con Simone Cristicchi scritto con Simona Orlando canzoni inedite di Simone Cristicchi e Amara musiche e sonorizzazioni Tony Canto scenografia Giacomo Andrico luci Cesare Agoni costumi Rossella Zucchi aiuto regia Ariele Vincenti produzione Centro Teatrale Bresciano, Accademia Perduta Romagna Teatri in collaborazione con Corvino Produzioni
“Lo sentite? Un tessuto interminabile dai disegni indefiniti In un tempo indefinito In un’attesa indefinita e segreta Sono io che attendo, tessendo Attendo cosa? per ogni cosa c’è un suo tempo e non ne esiste uno migliore Ah sì, ora so. Aspetto qualcuno che un giorno verrà a prendere questa stoffa e il segreto della tessitura Io stessa lo poserò sulle ginocchia come adesso confido a voi queste parole”
*Testo di Gianluca Medas (Teatro Astra, Sassari, 23 novembre 2024)
La lunga notte di Raffaella. Dove le emozioni e i ricordi vagano, alla ricerca di un “perché”. Dove lei attende che qualcuno un giorno sciolga i nodi della matassa dei suoi pensieri che all’imbrunire si ripresentano per terminare all’alba, quando suo padre la chiama per andare a scuola. Ha dodici anni, Raffaella. Come una farfalla, immagina di volare via. Di librarsi in volo e di liberarsi da quel piccolo mondo che non la comprende, fatto di gesti e parole crudeli che arrivano dai coetanei, ma anche dagli adulti.
Cala la notte e, puntuale, la giostra dei suoi pensieri non si arresta.
“La notte si stende densa di foglie nella casa tutta scintillante di gocce di rugiada e di stelle nel fondo si perde un cavallo azzurro, screziato d’argento“
Così una ragazzina di dodici anni diventa come uno specchio, di fronte al quale lo spettatore non può riflettere se stesso con indifferenza. Lo spettacolo invita a rompere le barriere del moralismo e dei pregiudizi sul tema dei Disturbi Specifici del Linguaggio. La difficoltà di comunicazione di una ragazza che si affaccia al mondo con difficoltà e sofferenza diventa specchio della mancanza di comunicazione dei nostri tempi. Il non capire e il non capirsi. Respingere ciò che è “altro” rispetto a noi, a causa delle nostre abitudini radicate e strutturate.
“Soltanto l’Amore e la Bellezza resistono un po’ al tempo benché io non conosca il significato né dell’una né dell’altra Qualcosa come un tocco leggero sulla nuca“
L’attrice Sofia Quagliano ph. Luciana Satta
«Vengo qui un po’ come un pellegrino – afferma il regista, Franz di Maggio, al termine dello spettacolo -. Sono ligure, di adozione, poi ho vissuto a Pavia. Per tanti anni ho visto gli spettacoli di Gianluca Medas e ho sognato un giorno di poter lavorare con lui. Un giorno ha fatto una cosa straordinaria: ha preso un aereo, è venuto a Pavia e mi ha chiesto di fare la regia di questo spettacolo. Sono onorato e felice di questa occasione che mi ha dato e onorato e felice di lavorare con queste persone che sono qui accanto, Sofia Quagliano e Nicola Agus».
Il polistrumentista Nicola Agus ph. Luciana Satta
La Lunga notte – Volevo essere una farfalla (di Gianluca Medas, regia di Franz di Maggio, con Sofia Quagliano, musica dal vivo Nicola Agus) è andato in scena sabato 23 novembre ed è inserito nel cartellone del XXXIV Festival Etnia e Teatralità della Compagnia Teatro Sassari.
Un altro momento dello spettacolo al teatro Astra ph. Luciana Satta
La locandina e il cartellone del XXXIV Festival Etnia e Teatralità, dedicato a Giampiero Cubeddu
***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte
“I narratori sono strani. Porto qua questo mondo strambo che ogni tanto mi nasce in testa“
Alessandro Baricco (Teatro Verdi, Sassari, 26 novembre 2024)
Farsi trasportare dalla musica, dalle parole. Perché AbelConcerto fa “entrare lo spettatore in un fiume”. “Lasciate andare”, dice Alessandro Baricco al pubblico del Teatro Verdi, glielo sussurra, con quella voce calma che lo fa entrare in una danza, in un vortice dove la frase e il suono si fondono e si confondono, scivolano, lo accompagnano, lo cullano in un mare di grazia e di leggerezza. Insieme allo scrittore torinese, Cesare Picco, Roberto Tarasco e Nicola Tescari. “Ho scelto tre musicisti che mi piacciono molto, perché mi accompagnassero, e sono a loro molto grato”.
“Non è importante se avete letto il libro, non è neanche molto importante se capite bene la storia… Ho pensato di scegliere alcune pagine.
Sono colori, paesaggi, personaggi qua e là, frasi, cose che accadono ma, soprattutto, mi piacerebbe che entraste in questa specie di corrente di suono di questo Western”.
Sento una vibrazione, allora sparo.
Che ne so, come una vibrazione.
Estaggo e sparo.
Un minuscolo fremito del mondo, ecco. Dura meno di
un istante. Ho imparato a percepirlo da molto piccoli, nelle
grandi solitudini dove sono stato prima bambini, poi uomo
a undici anni, infine vecchio a diciannove quando mio
padre John John tolse il disturbo […]
“Quando pensavo a questo libro non sapevo bene esattamente cosa volessi fare, ma avevo in mente una storia di pirati. Seguivo queste storie. Ero stato su un grande fiume sudamericano, enorme, caldo terrificante… alla fine ho scelto un Western, è un genere magnifico, io lo amo molto. È la storia di un pistolero fantastico, che per strada perde le ragioni per sparare. Ma le perde con leggerezza e gioia”.
Abel Concerto è “per Baricco un’esperienza sonora”, per noi che ascoltiamo rapiti un dialogo intimo. “I narratori sono strani – afferma lo scrittore – Porto qua questo mondo strambo che ogni tanto mi nasce in testa”.
Credits: Mattia Uldanck
Baricco ritorna a Sassari dopo tanto tempo, “dopo un secolo”, dice lo scrittore. Dal suo primo romanzo, Castelli di Rabbia (1991), a Oceano mare, da Novecento, tradotto in ventitré Paesi, a Seta, il suo successo è stato enorme. “E’ strano, noi scriviamo libri e si pensa spesso che scriviamo cose che ci sono successe. Non vorrei che mi prendeste per pazzo, ma voi non avete idea di quante cose si scrivono e non ci sono successe, ma ci succederanno. Spesso sono Profezie”.
L’evento al teatro Verdi di Sassari è stato organizzato da Le Ragazze Terribili in collaborazione con Mister Wolf per la quinta edizione del Festival letterario Fino a Leggermi Matto-Musica tra le pagine. Abel Concerto è una produzione Savà Produzioni Creative e Feltrinelli, in collaborazione con Scuola Holden, che nel 2024 celebra 30 anni dalla fondazione.
Cristiana Ciacci da bambina, in compagnia del suo amato padre, Little Tony
«Eravamo simili nell’estro, avevamo entrambi la testa tra le nuvole, un lato artistico, anticonformista, un modo tutto nostro di pensare e di vedere la vita. Camminavamo sempre “sulla luna”. Invece eravamo differenti in altri aspetti del carattere. Papà è sempre stato una persona molto allegra: gli piaceva stare bene, divertirsi, circondarsi di amici e di persone che lo facessero ridere e sorridere. Io invece ho sempre avuto una pesantezza, una tristezza, una malinconia di fondo. Ci siamo scontrati tante volte per questo. Lui avrebbe voluto che fossi più leggera, più simile a lui, più cittadina del mondo, libera, anche nelle frequentazioni, nelle amicizie, mondana. Io invece ero l’opposto». […]
Nel mio saggio L’arte di essere figli (Luciana Satta) – Carlo Delfino editore vi racconto la storia di Cristiana e di suo padre Antonio Ciacci, in arte Little Tony. Con intervista rilasciata il 14 marzo 2022 e foto preziose gentilmente concesse dall’artista.
Questo testo e il materiale fotografico concesso in via esclusiva per specifica pubblicazione non possono essere riprodotti. Non si autorizza alcun tipo di riproduzione o pubblicazione.
“La parola d’ordine di questo tempo? Per me è Fraternità”
“Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca. Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle. Considero valore il vino finché dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano. Considero valore quello che domani non varrà più niente e quello che oggi vale ancora poco.
Considero valore tutte le ferite. Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe, tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi, provare gratitudine senza ricordare di che.
Considero valore sapere in una stanza dov’è il nord, qual è il nome del vento che sta asciugando il bucato. Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca, la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.
Considero valore l’uso del verbo amare e l’ipotesi che esista un creatore. Molti di questi valori non ho conosciuto”.
(Erri De Luca, Valore, tratto da Opera sull’acqua e altre poesie, Einaudi, Torino, 2002)
Il mare, la montagna, l’impegno civile. Parole che racchiudono il valore di un uomo. Di uno scrittore, uno dei più grandi della Letteratura contemporanea, che nell’era della tecnologia e dell’intelligenza artificiale non ha mai sostituito la sua penna con la tastiera di un computer. «Ho cominciato a scrivere in adolescenza ma dopo essere diventato un lettore – ricorda –. Avevo a disposizione la biblioteca dei miei genitori e una predisposizione a starmene in disparte invece che con dei coetanei. Allora è venuta la scrittura, in aggiunta alla lettura come modo di tenermi compagnia. Ho scritto la prima storia a undici anni, raccontava di un pesce. Da allora ho proseguito e ancora oggi considero la scrittura il tempo felice della mia giornata». Il suo stile è ormai riconoscibile e inconfondibile, dal suo primo libro (Non ora, non qui), pubblicato nel 1989 e tradotto in oltre trenta lingue, all’ultimo Le regole dello Shangai, presentato all’ultima Fiera del libro di Torino. È quel modo limpido di raccontare le storie, la cura e la precisione nella scelta dei vocaboli e quella semplicità apparente che ti induce a riflettere, a scavare in profondità e a guardarti dentro. A cercare di andare oltre l’apparenza. Lui che non solo in montagna e in completa solitudine percepisce l’immensità, ma quando ancora una volta tende la mano, al bambino o all’anziano, in mezzo alla gente che soffre. In prima linea, per donare il suo immancabile supporto. In silenzio, senza clamori. Perché la parola d’ordine di questo tempo per Erri De Luca resta sempre e solo una: “Fraternità”.
In un’intervista ha dichiarato: «Non avevo orecchio per la musica. […] A Napoli era un grande difetto fisico. Me lo hanno corretto inculcandomi musica fino a farmi intonato. Ma ero anche, di preferenza, zitto. Allora le canzoni mi hanno aperto le vie ingolfate delle corde vocali. Ho imparato a parlare come i balbuzienti: cantando. Perciò la musica mi ha medicato». Quanto è profondo il legame tra la musica e la sua scrittura?
«La musica è con me troppo esigente, se c’è non posso fare altro che ascoltarla. Non la posso usare come sottofondo di un’attività, neanche quando guido, perché assorbe tutta la mia attenzione. Perciò quasi mai ho musica intorno. Mi capita di canticchiare quando sto scalando una parete ma è una tecnica per regolare la respirazione. Nella scrittura che faccio conta invece la voce del personaggio che la sta raccontando. La mia scrittura è orale, la sento nell’orecchio interno mentre la stendo sul quaderno. Io scrivo a penna, non su tastiera».
Lei ha detto: “Oggi il successo viene esposto in tutte le varie gradazioni. Il successo nel mestiere, nell’amore, nello sport. Dall’altra parte ci sono quelli che tentano di sottrarsi da questo chiasso del successo e a consistere in valori più silenziosi, in valori di rinuncia a questa esposizione”. Come vive questa epoca e questa società dove ostentazione e narcisismo sono protagonisti?
«Il successo per me è solo il participio, passato del verbo succedere. Mi sono successe molte cose impreviste, compresa questa di rispondere a domande di un’intervista. Faccio lo scrittore, un’attività di limitato impatto pubblico, che non mi espone su clamorose ribalte. Se invitato in televisione, vado solo se posso limitarmi a un dialogo con chi conduce la trasmissione, senza dover partecipare di un dibattito e di un battibecco. Non seguo perciò nessun programma di discussione spettacolo. Insomma mi tengo un po’ in disparte, per temperamento».
Il mare e la montagna: due grandi passioni. Cosa rappresentano per lei?
«Sono spazi dove la presenza umana si dirada fino a scomparire. Appeso a una parete verticale riconosco con precisione la mia taglia minuscola nell’immensità del luogo. È il giusto rapporto tra la presenza umana e la grandezza del pianeta. In luoghi affollati l’ambiente finisce sotto i piedi. In mare come in montagna invece è superficie di attraversamento. La cima di una montagna non è arrivo, solo termine di salita prima della discesa. Non è spazio accogliente, non è un parco giochi, al meglio è indifferente, estraneo, ma basta poco, anche un banco di nebbia, a renderlo impraticabile. Non trovo me stesso in montagna, invece perdo questo me stesso che si crede residente e si ritrova in quegli spazi un intruso, un ospite senza invito».
Che significato ha per lei la parola “libertà”?
«Per me consiste nel tenere insieme quello che dico e quello che faccio. Fare in modo che le parole corrispondano a conseguenti azioni. Da questa interpretazione della mia libertà si capisce che nessuna privazione esterna, neanche una prigione, me la può ridurre. In generale individuo la libertà in quella descritta nel libro dell’Esodo, dove un popolo di schiavi si stacca compatto in schiere dalla sua condizione. Ecco che la libertà è un deserto, non un paese di cuccagna, è uno sbaraglio che dura il tempo di costruire una comunità del tutto nuova, nata e svezzata dal deserto e dalla disciplina di un accampamento mobile. La libertà è un’impresa che si rinnova continuamente, non data una volta per tutte. Perciò le democrazie possono rinunciarci, suicidarsi, regredire verso forme di tirannia».
“Ho partecipato al soccorso alimentare nei campi profughi. Oltre all’appoggio materiale serviva a quelle persone accampate il conforto di non sentirsi abbandonate. I nostri arrivi in quei campi erano occasione di abbracci, di strette di mano, di festa per i bambini che ricevevano anche quaderni e matite colorate. Riferisco queste piccole cose perché immenso è il bisogno di calore umano in una guerra”. Cosa ha significato per lei incontrare quei bambini, qual è il suo ricordo più vivido?
«I bambini hanno una forza superiore a quella degli adulti. Giocano pure nelle peggiori condizioni, sopportano denutrizioni, si fanno bastare il poco e niente. Dice una frase del Talmùd che è il frutto a proteggere l’albero. Da più di un anno vado con un furgone e un amico nell’Ucraina di orfanotrofi e di posti che ospitano profughi. Ho visto la disciplina di quel popolo messo alle strette, la disciplina dei bambini pronti a interrompere il gioco, attenti a non far chiasso in accampamenti e alloggi di fortuna ricavati in scuole e altri spazi pubblici. Senza andare così lontano, si possono vedere da noi simili bambini che sbarcano sulle nostre rive da scialuppe sgangherate, dopo aver condiviso uno spazio schiacciato e un tempo di sbaraglio in alto mare».
Che cosa rappresenta la poesia per lei? A quale poeta della letteratura italiana si sente più affine?
«La mia poeta preferita si chiama Marina Zvetaeva, russa. Sono un lettore di poesia del 1900, un secolo che si è potuto esprimere sotto la pressione di enormi avvenimenti, migrazioni di miriadi di esseri umani, guerre mondiali, deportazioni, campi di concentramento. Poco tempo e poca carta per scrivere, e allora la poesia è stata la forma concentrata della letteratura. Ho conosciuto un poeta di Sarajevo negli anni ‘90 della guerra di Bosnia. Durante gli anni dell’accerchiamento si facevano serate di poesia in un seminterrato di notte. Quei cittadini che mancavano di tutto avevano bisogno di sentire parole capaci di sospendere l’oppressione, di far dimenticare per qualche ora la fame, i lutti. La poesia è stata all’altezza del compito. Lui, Izet Sarajlic, mi diceva che loro, i poeti, avevano fatto il turno di notte per impedire l’arresto del cuore di Sarajevo e dei suoi abitanti».
“In una città che visito per la prima volta assaggio l’acqua di una fontana pubblica e il pane di un forno. Ogni posto distilla la sua acqua e ha le sue notti per cuocere l’impasto” (da Spizzichi e bocconi). Quale piatto le ricorda maggiormente la sua infanzia e chi glielo preparava?
«Il ragù della domenica a casa di nonna Emma, un’intensità di odore e di papille mai più raggiunto, ma indelebile nei miei sensi. In quella tavola chiacchierona si faceva l’improvviso silenzio della pasta al ragù calata fumante nei piatti. Chiudevo gli occhi per concentrarmi nella masticazione, li riaprivo per infilare la forchetta in quel rosso cupo, denso, cotto un giorno e una notte a fuoco minimo».
“A Nuragus in Sardegna, dall’amico Stefano Soi ho bevuto latte di capra, pure quello munto fresco in regalo”. Sempre nel suo libro Spizzichi e bocconi ha citato un suo amico sardo, Stefano Soi, che nel corso di una mia intervista ha detto di lei a sua volta: “È una persona con cui si è creato un rapporto incredibile”. Quanto è importante per lei il valore dell’amicizia?
«L’amicizia è un dono, all’inizio del tutto immeritato, come dev’essere un dono. Poi dev’essere custodita, confermata, anche a distanza. Io ne ho perse molte con rammarico e per validi motivi. Oggi è parola inflazionata dall’uso improprio dei canali social. Io ne conservo il significato ristretto e uso per le altre relazioni il termine di conoscenze».
Nel 2011 ha creato la sua Fondazione che porta il suo nome e con cui si prefigge di seguire diversi progetti a sfondo culturale e sociale. Quali progetti le stanno a cuore?
«È un piccolo sodalizio che si regge sul sostegno dei soci e non di istituti pubblici o privati. Non accediamo a fondi. Procuriamo dei contributi agli studi universitari di studenti immigrati, scelti insieme alla Comunità di Sant’Egidio di Napoli, consideriamo i flussi migratori l’avvenimento maggiore della nostra epoca e la più importante esperienza sostenuta dal volontariato italiano, che è un’eccellenza europea».
“Lei è una giovane gitana in fuga dalla famiglia per sottrarsi al matrimonio combinato con un uomo anziano, lui è un orologiaio che sta campeggiando sul confine e la accoglie nella propria tenda”. Le regole dello Shangai è il suo ultimo libro. Qual è il messaggio?
«Racconto storie, non voglio usarle per far passare messaggi. Oggi mi sta a cuore un’alleanza tra giovanissimi e anziani, le due fasce di età che sanno guardare al futuro per immaginarlo, non per contemplarlo. La fascia di età adulta è invece ingolfata nel presente, se lo contende e non è capace di intenderlo né volerlo, chiamando emergenza perfino la raccolta dei rifiuti. C’è una incompetenza di gestione adulta che rende necessaria l’intesa tra nipotini e nonni. Ho scritto una storia che riguarda queste due fasce di età».
“Uno vede la vita come un fiume, uno come un deserto,
un altro come una partita a scacchi con la morte.
Io la vedo sotto forma di un gioco di Shangai fatto da solo”.
(Erri De Luca, Le regole dello Shangai, Feltrinelli, 2023)
***Il testo non può essere riprodotto in tutto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autrice. Le foto sono della Fondazione Erri De Luca e concesse dallo scrittore all’autrice dell’articolo. Tutti i diritti sono riservati.
Era un giorno di fine estate del 2019 quando il suo “Viaggio intorno al mondo in ottanta strumenti”, spettacolo di musica e immagini da lui ideato, è arrivato alla trentaseiesima edizione di Voci d’Europa, a Porto Torres, uno dei festival più longevi di musiche polifoniche della Sardegna. Lì ho conosciuto l’energia di Nicola Agus, il suo mondo straordinario di compositore e di polistrumentista e quell’universo affascinante di suoni e di strumenti musicali, che aprono un varco nell’immaginazione e dal Mediterraneo ti fanno volare nelle aree nordiche e celtiche, dalla Spagna alla Scozia e ancora dall’America giungere fino in Cina. Chiudi gli occhi e ti ritrovi in un’altra dimensione. In spazi sconfinati. È un percorso in cui le sonorità della Sardegna “svestono gli abiti della tradizione ed entrano in un mondo di suoni moderni e contemporanei, in cui lo strumento è valorizzato in ogni suo aspetto tecnico e sonoro”. È vento che soffia, o mare in tempesta, è il respiro dell’infinito. Il suono dell’Anima. Dall’Occidente all’Oriente. Dalla Gaita de Cuerno, strumento spagnolo dell’Andalucia all’UDU, lo strumento a percussione delle donne nigeriane, dal Shakuhachi Flute, al Koto, l’arpa giapponese, dall’Hichiriki ad ancia doppia, all’Eram, lo strumento inventato quattro anni fa da Nicola Agus con le canne portate da una mareggiata improvvisa fino al Poetto di Cagliari… «A me interessa – spiega – che la mia musica conduca in punti lontani dell’anima, la devi sentire sulla pelle. Ti devi lasciare trasportare, voglio che sia un’esperienza, altrimenti non avrebbe senso. La posso suonare ovunque, anche chiuso in una stanza, ma la gente la percepisce, viaggia… poi quando a fine concerto qualcuno si avvicina e mi dice: “Ah, mi hai portato lontano…” io sono felice. Il significato è questo: con me bisogna lasciare fluire, farsi trasportare. E poi, siccome viaggiare costa (ride, n.d.r.), almeno con la mia musica sognano di essere in un luogo lontano nell’immaginario, sentono una cornamusa e attraverso quel suono magari immaginano di trovarsi in Irlanda, o in Scozia».
ph. Nicola Castangia
Il tuo percorso nella musica ha origine molto tempo fa, quando eri piccolo. Cosa ricordi di quando eri bambino e cosa ti ha affascinato del mondo dei suoni?
«Da bambino ero attratto dai suoni, ero curioso, avevo voglia di capire. Ero irrequieto, non stavo mai fermo, mai tranquillo. Ho messo alla prova i nervi dei miei genitori! Ma ho manifestato e capito da subito che la musica era la mia vita. Giocavo… con le costruzioni non creavo case, ma strumenti musicali, come i flauti, avevo già questa propensione. A casa c’erano gli strumenti classici, perché gli zii si dilettavano a suonarli, a mio padre piaceva la chitarra, non era eccelso, ma gli piaceva canticchiare a modo suo, credeva di essere bravo. Ma la mia passione non è nata dall’osservazione. Per me è qualcosa di innato, sei affascinato da un suono e lo sviluppi. In realtà tutti noi già quando siamo nel ventre materno percepiamo i suoni che provengono dall’esterno. Appartengono alla nostra memoria. La voce della madre poi tranquillizza il bambino e riesce a farlo addormentare. Non è la ninnananna in sé che lo calma, ma è la voce che è abituato a sentire. Assorbiamo tutti i suoni, è una curiosità che ci appartiene da sempre. La musica ha un ruolo importante. Poi, logicamente, un conto è essere curiosi, un conto è cercare di riprodurre quei suoni e farne una professione. Quello arriva con il tempo e con lo studio e l’approfondimento. Per me la musica è linguaggio, è la mia seconda lingua. È una grande forma di comunicazione, un modo per lanciare un messaggio. Il mio obiettivo è di farti trovare in un’altra dimensione e “staccare” la mente da tutto. Già nelle tribù africane era una forma di comunicazione molto potente, perché la voce non poteva essere percepita a grandi distanze, mentre il suono dei tamburi raggiungeva chilometri di distanza. La musica nasce dove l’uomo non può arrivare».
ph. Nicola Castangia
I tuoi strumenti provengono da tutto il mondo, ma molti sono da te costruiti. Dove li hai acquistati o come li recuperi?
Questa degli strumenti musicali è una “malattia”. Viviamo il mondo come se fosse a nostra immagine e somiglianza, ma all’interno del nostro sistema non siamo soli, arrivano tante influenze da parte di diverse culture. La sardità che diventa “egocentrismo” non mi appartiene e non mi interessa, non mi sento in un ombelico del mondo da cui tutto ha origine, dove tutto nasce e si sviluppa. Io guardo oltre il mare. Prendere strumenti da ogni parte del mondo deriva da una mia ricerca musicale, ma anche dalla domanda: “Se fossi nato lì come avrei utilizzato questo strumento?”. Tutto nasce dalla mia curiosità, mi piace vedere come in parti diverse del mondo esistano strumenti anche molto simili tra loro. Nella Via della Seta, ad esempio, ci sono tanti strumenti affini, dal mondo arabo sino all’Oriente. Si presentano in forme diverse ma la timbrica è la stessa e lo stesso è il principio. Non mi fermo solo a questo tipo di ricerca, mi piace crearne anche di nuovi, strumenti che non esistono, con forme differenti, ma anche apparentemente banali: dal suono che posso ricavare da una bottiglia d’acqua o da quella sonorità che posso creare dal nulla. Tutto viene naturale, ma bisogna anche studiare. La ricerca va in una determinata direzione se c’è dietro uno studio. Altrimenti stai creando ponti che non hanno un significato».
Sei entrato in contatto con qualcuno che ti ha insegnato qualcosa per quanto riguarda anche la costruzione degli strumenti?
«No, perché ognuno ha un suo pensiero. Mi hanno sempre appassionato la fisica e la chimica, che sono importanti per la musica. La fisicità dello strumento ne determina anche la timbrica, la chimica e il tipo di sostanze che possono entrare e possono danneggiare gli strumenti, come gli agenti atmosferici. Oppure se, ad esempio, se utilizzo la plastica in una certa modo, posso ottenere lo stesso suono prodotto da una chitarra in legno. Sono modi differenti di vedere le cose».
Come nasce la tua musica, da quali evocazioni?
«Innanzitutto il mio è un filone “New Age Spiritual Colossal”, rientra nel mondo della Cinematografia e appartiene al mondo Contemporaneo, olistico documentaristico. “Olistico”, perché è una musica che induce al rilassamento, da non confondere con la “musica rilassante per massaggi”, perché la mia non è lineare, cambia, accelera, rallenta. Tende a riportare l’uomo alle sue origini naturali, affinché risvegli in lui una forma di spiritualità e non sia concentrato solo sul progresso e sul denaro».
ph. Nicola Castangia
Tu sei stato fuori, hai viaggiato… come mai poi hai scelto di ritornare in Sardegna?
In realtà non ho scelto di rientrare in Sardegna. Si sono combinate alcune situazioni per cui mi sono arrivate delle proposte dalla Regione… ma penso che le mie idee fossero troppo innovative, io non sono un suonatore di launeddas tradizionale, sono un musicista che utilizza le launeddas in maniera diversa. La mia è una ricerca innovativa, dove lo strumento prende forma come se fosse una chitarra elettrica, o una cornamusa, o un sax, o un’armonica a bocca. Questo a volte fa storcere il naso ai tradizionalisti. Ma non è che io rifiuti la Sardegna… noi nasciamo liberi, in una terra chiamata “mondo”. A me interessa stare nel mondo. La Sardegna ce l’hai già dentro, ma io sono nato nell’ottantadue e ho avuto la possibilità di sperimentare e di capire perché la musica si è evoluta in una determinata maniera.
Arte, musica e riciclo. Tra i tanti strumenti che hai ideato, con le canne del Poetto tempo fa hai creato uno strumento che hai chiamato “Eram”…
Nel 2019 in seguito ad una mareggiata la spiaggia del Poetto fu completamente invasa dalle canne. È stato un forte momento di aggregazione, i bambini giocavano con le canne come se non le avessero mai viste. Ero rimasto molto colpito, perché era la prima volta che non ero stato io a cercarle per costruire i miei strumenti, ma loro erano giunte fino a me. Avevo voluto rendere omaggio a quel momento particolare, pensando anche al fenomeno dell’immigrazione, perché le canne spiaggiate ricordavano anche i corpi delle vittime portate dal mare, che oggi purtroppo è un cimitero a cielo aperto. Allora ho pensato di creare l’unico strumento che potesse parlare di quello che sta vivendo il mare, una sorta di strumento a corda… la corda può simulare le onde del mare, perché quando la fai vibrare produce un’onda e il suono viene propagato. Ho deciso di sperimentare e di creare uno strumento a corda utilizzando la canna e come tastiera un rostro, la spada del pesce spada e ho realizzato così uno strumento del mare… in seguito ne ho creato tantissimi.
Mi piace anche far cantare la voce dell’acqua utilizzando una semplice bottiglietta di acqua
naturale.
Sei anche autore delle musiche de “I venerdì della storia – Le bugie” dell’attore e autore Gianluca Medas, voce narrante dello spettacolo. In questo caso come nascono le tue composizioni per questo appuntamento alla manifattura Tabacchi di Cagliari?
Lì è un altro lavoro sull’improvvisazione diretta, in simbiosi con l’artista. Non ci sono prove. È fatto tutto sul momento e a me piace perché spazio e posso giocarmela sempre in maniera diversa. Misteri irrisolti e strumenti diversi, e ogni volta musiche e sensazioni nuove.
Ph. Nicola Castangia
Licia Colò ti ha chiamato diverse volte nelle sue trasmissioni. Sei stato invitato a portare la tua musica nello studio di “Il mondo insieme”, proprio per quella tua capacità di riuscire a fare suonare qualsiasi oggetto della quotidianità e ovviamente per i tuoi strumenti musicali dedicati ai vari paesi del mondo. Come è stata questa esperienza?
Inizialmente mi hanno invitato in trasmissione per suonare la carta e altri oggetti semplici e comuni. È stata una bella esperienza, sono stati gentilissimi, ma prevalentemente cercavano qualcosa che potesse stupire… suonare un pezzo di carta, o il vetro o un uovo magari è una forma spettacolare che colpisce maggiormente in tv. Poi, lei (Licia Colò) era rimasta colpita dall’Eram, perché unisce alla ricerca sonora una riflessione più profonda sull’emigrazione. Quando ho avuto la possibilità di suonare l’Eram ho potuto dare un senso più profondo e strutturato a ciò che voglio esprimere. È stata una pubblicità positiva e poi è una strada tutto da costruire. Io credo che non bisogna restare statici, ma perseverare e migliorare, sempre con umiltà. Io non suono esclusivamente per esibirmi in concerto, suono perché amo la musica. La vivo con umiltà e spensieratezza. Se il pubblico viene, bene, altrimenti suono lo stesso.
ph. Nicola Castangia
***Questo testo e gli scatti non possono essere riprodotti, senza l’autorizzazione dell’autrice e del fotografo, che ne detengono i diritti. Il testo e il materiale fotografico sono apparsi sulla rivista Iod (numero di settembre 2023).
“Fino a quando avrai canzoni da cantare la voce non si stanchi, la voce non ti manchi mai”
Casa Dau, a Sassari, è un edificio dei primi anni del Novecento. In questo palazzo antico si respira la storia della città, sin dalla rampa di scale dai gradini alti che percorriamo per arrivare allo studio di registrazione dei Bertas. Mi accompagna l’amico Salvatore, che della più longeva band sarda è grande fan. Ciò che da subito mi colpisce è il collage di fotografie, tantissime, attaccate al pannello esposto sulla parete. Il passato dei Bertas è lì, in quei visi di ragazzi, nei capelli e negli abiti degli anni Settanta e ora, oggi, in tutti quelle esperienze impresse sui loro volti. In tutti quegli aneddoti racchiusi in quegli scatti. Quante storie, quante vite.
“Siamo nati nel 1965, facciamo musica, e non sappiamo se mettano più paura gli anni alle spalle o l’idea di non averne altrettanti”… che significato ha per voi questo pensiero?
ENZO PABA: «È una frase che per noi dice tutto. Se non avessimo avuto questa idea del futuro e del passato, avremmo smesso già trent’anni fa. Nella nostra lunga storia ci sono stati molti momenti in cui ci siamo guardati in faccia, alla fine di ogni stagione, e ci siamo detti “Che facciamo, continuiamo?” Ci abbiamo pensato due, tre volte. In realtà poi abbiamo capito che non aveva nessun senso smettere, perché il fatto di continuare a fare musica insieme ce l’abbiamo dentro. Continua a essere impensabile lasciare. Certo, la paura che il futuro non sia molto lungo, data l’età, in realtà c’è… ma non ci pensiamo, guardiamo sempre oltre, alle cose che dobbiamo fare. Questo forse ci ha aiutati nel corso di quasi sei decenni di attività musicale».
Nello studio dei bertas (ph. Luciana Satta)
FRANCO CASTIA: «Quando ho scritto questo pensiero, ho espresso forse quello che ci disturba. Capita ci venga chiesto: “Ma non siete stanchi, non avete voglia di smettere, non vi sentite vecchi?” A noi non succede. Ciò che ci succede è di valutare le esperienze che abbiamo fatto con il dispiacere di renderci conto che non potremo farne altrettante per lungo tempo… perché, avendo tutti sui sessant’anni, è così! Premetto che loro sono i Bertas, ma io mi sento parte della famiglia. Gli anni alle spalle hanno un’importanza e un peso, nel senso che dobbiamo onorarli, quelli davanti non potranno essere altrettanti e ci dispiace, perché la voglia di fare musica è la stessa. Cerchiamo di evitare l’inerzia, l’idea di dire “riposiamoci un po’”. Forse in questi ultimi anni abbiamo fatto di più, rispetto a quando avevamo maggiore freschezza fisica, proprio perché l’idea di voler vincere la “vecchiezza” (non la “vecchiaia”) è più forte. Poi, come diceva Enzo, ci spinge l’amore per quello che facciamo».
Tanti gruppi si sciolgono, a volte perché i componenti non vanno più d’accordo, nascono incomprensioni, litigano… qual è stato il vostro segreto per andare d’accordo, per mantenere vivo questo “collante” tra voi? Suppongo abbiate vissuto anche periodi di crisi: come avete fatto a superarli e ad andare avanti?
MARIO CHESSA: «Tutti noi abbiamo saputo anche vivere alcuni “compromessi”, nel senso che ovviamente se sappiamo che a Enzo dà fastidio qualcosa, o a Marco altro, cerchiamo comunque di andare avanti.
Bisticciamo spesso, ma alla fine la pizza ci sta sempre!».
Su cosa bisticciate di più?
MARIO: «Sulla musica soprattutto! Però sono litigi costruttivi, necessari (ride, n.d.r). È così da tanti anni…
MARCO PIRAS: In realtà chi entra a suonare in un gruppo, nel gruppo deve sapere vivere. L’ho capito sin da ragazzino: per poter andar avanti bisognava saper “cedere”, a volte, lasciare il passo anche agli altri, concordare cose che non sono sempre “sposabili” personalmente. Il segreto è dare spazio a tutti, come in una squadra di basket, per fare un esempio: un po’ per tutti e siamo andati avanti sempre tutti insieme. Abbiamo un obiettivo, un compito, che è quello della squadra: così abbiamo sempre cercato di reggere e di proseguire con questo spirito… sempre…».
Nello studio dei Bertas (ph. Luciana Satta)
Ad Antonio Costa e alla sua caparbietà risale la nascita dei Bertas. Andiamo indietro nel tempo, negli anni: come nasce la storia dei Bertas, come vi incontrate?
MARIO: «Noi seguivamo già i Bertas quando ancora non ne facevamo parte, nel senso che eravamo più piccoli di loro. Io sono anche cugino di Carlo e di Antonio Costa. Seguivo i Bertas per motivi anche “familiari”. Antonio ha fondato i Bertas andando via da un altro gruppo sassarese, i Baronetti. Dopo sei anni sono subentrato io, poi è arrivato Marco, che allora aveva 17 anni, infine si è aggiunto come paroliere Franco e così tutti gli altri… è stata una specie di staffetta… a un certo punto, Antonio ha mollato per seguire la Canepa e l’Ente lirico De Carolis. Lui componeva. Una volta andato via lui, siamo stati costretti a continuare a comporre per proseguire l’attività. E così siamo arrivati ad oggi».
“Fino a quando avrai canzoni da cantare la voce non si stanchi, la voce non ti manchi mai”: che cosa rappresenta la musica per i Bertas?
ENZO: «Credo che in questa frase ci sia l’essenza di quello che facciamo. La voce per noi ha la supremazia sullo strumento. Io ricordo che quando si entrava a far parte dei Bertas (molti hanno fatto parte dei Bertas in questi anni – in tutto 26 persone –). Chi entrava nel gruppo, più che saper suonare uno strumento, doveva saper cantare, doveva avere una voce che fosse compatibile con quelle degli altri componenti, perché la cifra dei Bertas sono i cori, lo è sempre stata. Quando c’era Carlo, quando c’era Giuseppe Fiori, il nostro compianto Giuseppe, in realtà eravamo quattro voci soliste, veramente complementari. Ognuno aveva le sue caratteristiche: c’era quello che aveva la voce più “graffiante”, o quello più melodico… queste quattro voci si incastravano molto bene nei cori e, soprattutto, nella scelta dei pezzi da eseguire. Era ed è la voce quello che caratterizzava i Bertas. Gli strumenti devono essere ovviamente suonati bene, col loro giusto impatto, con il giusto fraseggio, ma la vocalità e la coralità sono sempre state le nostre caratteristiche principali. Tant’è vero che poi abbiamo aggiunto dei coristi che ci supportassero in questo campo. Questo è appunto il senso della frase: la voce non si stanchi, la voce non ti manchi mai…».
MARCO: «Dopo l’esperienza della messa in sardo, dove avevamo sperimentato il doppio coro, abbiamo avuto l’esperienza del tributo a Brian Wilson e alla musica dei Beach Boys… anche lì entravano dodici voci, non simultanee, ma diversi cori che si sovrapponevano. Oggi ci stiamo sperimentando nel doppio coro, riusciamo a fare due cori all’interno dei nostri ultimi brani che sono in produzione adesso… per cui la responsabilità vocale è aumentata ancora di più. Ci aspettiamo che la voce regga, perché tutti i nostri progetti sono ad alto livello vocale».
FRANCO: «La frase nasce con una canzone del ’93, con “Amistade”, che era un album di rifondazione, perché per la prima volta i Bertas hanno fatto una scelta di campo, cioè hanno deciso di presentarsi con un repertorio personale, originale. Quell’album ha rappresentato una svolta. Al centro è sempre la voglia di cantare, continuare ad avere quella passione, quella spinta verso la musica. Inizi a pensare che ci sono tante componenti dovute all’età che non puoi governare con la buona volontà… Quando dovrai salire sul palco a 85 anni… vanno bene, Enzo? (si rivolge a Enzo Paba, ride n.d.r.)… ».
ENZO: «Ci son sempre le ambulanze! (ridono n.d.r.)».
Non si vive una volta sola: avevate scelto gennaio 2021 per presentare questo album, col chiaro intento di lasciare indietro la passata stagione. Come è stato l’anno appena trascorso per i Bertas?
MARIO: «Abbiamo approfittato di questo periodo. Abbiamo sperimentato nuove forme di collaborazione perché, essendo con il lockdown costretti a stare a casa (e gran parte dei musicisti è organizzato e dotato di mezzi per poter registrare per conto proprio a casa), abbiamo progettato così: abbiamo mandato una base, Francesco Piu ha fatto delle sovrapposizioni al nostro brano, registrando la sua parte a casa sua… poi ci sono state anche altre collaborazioni importanti. Abbiamo dunque sfruttato il periodo nel modo migliore possibile».
ENZO PABA: «Forse ti riferivi al fatto che i musicisti hanno pagato un prezzo molto alto perché c’è il problema che tanta gente vive di musica, non soltanto i musicisti ma i tecnici, gli stessi nostri coristi… il musicista in sé ha utilizzato quel tempo per studiare, per provare nuove sonorità… da quel punto di vista questo ha fatto bene ai musicisti, tutto il resto è da dimenticare!».
Giuseppe Fiori (ha militato con i Bertas fino al 1979 per dodici anni, cantando e suonando la batteria, n.d.r.) è mancato di recente. Gli avete dedicato un pensiero molto bello nel vostro album e anche sulla vostra pagina ufficiale di Facebook: “I Bertas sono nati nel 1965, ma i Bertas sardi sono nati con Badde Lontana e Badde Lontana è nata con la voce di Giuseppe Fiori”.
Cosa ha rappresentato per voi?
ENZO: «Il primo incontro con la musica sarda è nato con Giuseppe Fiori. Quando Antonio ci ha proposto Badde Lontana ci siamo accorti che sembrava molto strano che noi potessimo cantare in sardo. Giuseppe era l’unico che forse poteva essere più adatto di noi a cantare in sardo. Ancora adesso il cantare in sardo ci condiziona un po’, perché secondo noi si sente che non siamo di madrelingua sarda… un po’ come nel caso di Andrea Parodi o dei Tazenda, insomma. Giuseppe aveva una capacità di interpretazione con una passione che forse noi non avevamo, avevamo altre caratteristiche… è stato giusto che la cantasse lui. Era il ‘73 quando loro (senza di me) la presentavano nelle piazze, poi io sono entrato nel gruppo nel dicembre del ‘74 e nella primavera del ’75 abbiamo registrato Badde Lontana».
“Ieri, quando nessuno cantava in limba, l’abbiamo sostenuta a dispetto di qualche naso storto, perché credevamo nella sua bellezza e musicalità, prima ancora che per assecondare una nascente spinta identitaria; oggi, in tempi in cui il sardo, in tutte le varianti possibili, dilaga nel mondo sardista della canzone, spesso per conformismo più che per scelta, ci stiamo riappropriando di una parte di noi, una parte che reputiamo significativa e importante.
Quella che ci permette di essere qui a parlare con tutti, dalla nostra terra; o meglio: dalle nostre terre”. (Bertas, dalla pagina web ufficiale: https://www.bertas.it/noi-siamo-i-bertas)
Avete portato la vostra musica nelle carceri, nelle comunità di recupero, avete suonato nel carcere di Alghero, nel locale della biblioteca intitolata a “Fabrizio De André”, a San Sebastiano, al centro Maria Madre dei Poveri (La Crucca). Avete detto “Tutte le volte, immancabilmente, alla fine della giornata, il disagio maggiore l’avevamo provato noi, nell’allontanarci da quelle sofferenze per tornare alle nostre fortune…”
ENZO: «Abbiamo suonato nelle carceri… ma l’esperienza nella Comunità di recupero La Crucca è stata un’esperienza ancora più forte… lì ho conosciuto una realtà che mi ha arricchito, ma è stato come un pugno allo stomaco».
Nel 2015 avete festeggiato in musica al teatro Comunale di Sassari il vostro 50° anno di attività. Che ricordo vi resta di quella giornata?
MARCO: Non avremmo mai immaginato tanta stima da parte di colleghi musicisti con i quali non ci vediamo mai o comunque in rare occasioni. Ci hanno onorati con l’esecuzione dei nostri brani… è stata una soddisfazione pazzesca, perché sentire i nostri brani riarrangiati in maniera sopraffina, e così sentita, è stata una soddisfazione grande e non finiremo mai di ringraziarli per questo sforzo nei nostri confronti. Tra l’altro ci siamo resi conto di quanta bravura ci sia in Sardegna, anche se in realtà abbiamo sempre saputo che rispetto al numero di abitanti l’Isola offre un panorama artistico notevole. Ma vederli così, tutti insieme, preparati, è stato davvero emozionante.
ENZO: All’inizio avevamo pensato di coinvolgere tutti coloro che avevano fatto parte dei Bertas… questa era l’idea iniziale, però era molto complicato organizzarla, invece poi si è scelta questa strada.
MARIO: Adesso vediamo cosa riusciamo a fare per i 60 anni!
“Como cheria è una canzone che ha attraversato le generazioni della nostra Sardegna sfuggendo al controllo di chi l’ha scritta. E, maturando un percorso autonomo, brillando di luce propria, ha fatto sì che chi la conosceva conoscesse i Bertas, e viceversa.
È dunque la canzone alla quale dobbiamo una seconda giovinezza, questo è certo”. (Bertas)
“Como cheria” ha compiuto ventotto anni. È un brano che vi ha segnati, è la vostra canzone più popolare, dopo “Badde Lontana”.
Come è nata e perché dopo tanti anni resiste al tempo e alle generazioni?
ENZO: «Quando abbiamo registrato l’album “Amistade” dovevamo scegliere un brano che aprisse il disco, che poi è di solito quello che viene trasmesso in radio… seguendo un consiglio, avevamo scelto “Noranta”… ma alla fine è il pubblico che decide! Ci accorgevamo che “Como Cheria” era il brano che andava di più, quello che eseguivano maggiormente durante le serate, nei piano bar, nei gruppi, nelle piazze… gran parte dei musicisti sardi lo usavano nel loro repertorio… così sono passati 28 anni e c’è stato sempre un crescendo, dal 1993.
Como cheria s’oriente
E s’occidente cheria
Su minoreddu sezzidu in palas Pro nunziare sas alas
Arvures de menduleddas
Casu durche e salidas olias Como cheria
Andarisende umpare
Furfere e astore a su niu
Chi donzi Cristu lasset sa rughe Chi s’adduret s’istiu
Tancas de antunnas e binzas
Pane biancu e una ‘ucca sidida Como cheria
Fin’a siccare su mare e su riu
A los intendere colare intr’a mie
E una ‘oghe chi cantet lontanu
Como cheria
E una manu chi istringhet sa manu Como cheria.
(1993 – “Como Cheria”, di Franco Castia e Mario Chessa)
Secondo voi perché la gente è attirata da questo pezzo, che cosa ha in più rispetto ad altri vostri brani?
ENZO: Se lo sapessimo ne avremmo scritti altri venti! (ride n.d.r). Quando abbiamo suonato all’Anfiteatro romano di Cagliari per Emanuela Loi, avevamo fatto due o tre pezzi e questo era piaciuto tantissimo… lo ricordo particolarmente».
Raccontare la vostra storia è come “scavare in un pozzo senza fondo” e allora chiedo direttamente a voi di scegliere un aneddoto curioso o divertente della vostra lunga carriera che ricordate in particolare…
MARIO: «C’era la premiazione di una corsa di cavalli e a quel tempo i palchi non erano come quelli di adesso, ma c’erano i tavoloni che arrivavano dalla base fino al palco con dei gradini… a un certo punto chiamano il vincitore del primo premio e questo sale sul palco col cavallo! Era completamente sbronzo e non riuscivano a tenere il cavallo… farlo scendere dal palco insieme al cavallo è stato molto difficile!».
MARCO: «Un’altra volta ci siamo trovati in mezzo a due fazioni che si lanciavano delle arance… abbiamo continuato a suonare con queste arance che passavano da una parte all’altra del palco!
MARIO CHESSA: Non erano per noi… ma insieme alle arance lanciavano anche le pietre! (ridono n.d.r.)».
ENZO: «Ricordo che i nostri concerti (parliamo degli anni Settanta) duravano tre ore… erano tante, eseguivamo un repertorio vastissimo, a volte facevamo anche qualche pezzo in più… i comitati ci dicevano ogni volta che avremmo dovuto continuare a suonare. Ci dicevano: “No! Dovete continuare a suonare! Ci sono stati i Nomadi una settimana fa e loro hanno suonato cinque ore!” Noi pensavamo che non fosse vero… invece era proprio vero, che i Nomadi suonavano davvero per cinque ore, non li fermava nessuno!
MARIO CHESSA: «Ricordo una delle prima serate che ho fatto sempre negli anni Settanta, in un paese vicino a Sassari… avevano esposto il vecchio manifesto, con la foto dei quattro componenti dei Bertas (precedenti al mio ingresso nel gruppo). A fianco, per un effetto grafico, come in uno specchio erano riflessi sempre gli stessi quattro componenti del gruppo. Alla fine del concerto non ci volevano pagare, perché i componenti erano quattro e invece nel manifesto eravamo in otto! Abbiamo dovuto insistere parecchio per far capire agli organizzatori che si trattava di un equivoco dovuto a un effetto grafico e che nel gruppo eravamo davvero in quattro! (ridono n.d.r.)».
Come vi siete avvicinati alla musica da bambini?
MARIO: «Quando avevo sei sette anni facevo degli spettacolini per altri bambini, cantavo… dai dodici anni in poi mi è nata questa passione. Non facevo altro che sfogliare un catalogo di una nota rivista di acquisti dell’epoca nella quale vendevano la fisarmonica… costava mille lire al mese e mamma non poteva comprarmi la fisarmonica. Dunque sono sempre stato fissato con la musica, però non avevo gli strumenti. Ho iniziato a suonare quando sono andato a lavorare con mio zio, che era il padre di Antonio Costa. Lì c’era la chitarra. Antonio Costa mi ha insegnato i primi accordi con la chitarra e io suonavo nelle pause… quando si è trattato di entrare nei Bertas, Antonio mi ha insegnato a suonare la tastiera».
ENZO: «Ricordo che a casa c’era un androne delle scale strepitoso… quindi io passavo le ore sulle scale cantando, perché impazzivo per l’eco… mia madre mi ascoltava e capiva che avevo una passione per la musica. Devo dire che ho avuto dei genitori fantastici, ma una cosa gli ho sempre rimproverato: mi hanno mandato a lezione di piano privatamente, io facevo le elementari e ho fatto lezioni di piano per tre anni, perché avevano capito che mi piaceva la musica. L’ho studiata dai cinque agli otto anni e ricordo ancora, a distanza di cinquant’anni, l’odore di quei pianoforti. Ogni tanto vado all’orfanotrofio e sento il profumo del pianoforte. Però secondo loro non stavo andando benissimo a scuola e quindi hanno smesso di farmi frequentare le lezioni di piano e questa cosa è stata devastante per me, perché avrei potuto e voluto continuare… e poi a quattordici anni in spiaggia ho iniziato a suonare la chitarra, osservando gli altri».
MARCO: «Mia madre era amica del maestro Fiori, era un musicista noto, con Dino Puglia… era amica d’infanzia e mi parlava sempre di Fiori. Un giorno mi ha portato a vedere i BAT 66 e ho avuto la mia folgorazione: ho visto la chitarra elettrica azzurra metallizzata… avevo dieci anni. Già ascoltavo I Beatles e il loro pezzo Girl… cercavo di eseguire la melodia con una tavola e una lenza costruita da me. Alla fine mia madre, disperata, mi chiese cosa desiderassi per la quinta elementare. Ho chiesto una chitarra. Mia madre mi ha portato dal maestro Alberto Fiori che suonava la chitarra molto bene e finalmente ho potuto imparare… dagli inizi si capisce. Io ero il chitarrista del mio quartiere, tutti cantavano e io accompagnavo. Questo mi ha stimolato molto. C’è sempre un momento illuminante. Nel ’66 avere una chitarra elettrica era impensabile… ci ho messo tanto prima di averne una.
FRANCO: «Loro hanno vissuto il beat e il pop, io sono un pochino più giovane. I miei zii compravano a Cagliari e a Sassari i dischi… quindi sono cresciuto ascoltando i Beatles. Poi, la mia vera folgorazione nella musica è stata ascoltare Fabrizio De André… poi ho conosciuto i Bertas… e certo non è stato un incontro come un altro».
“Cambia il mondo intorno a noi
Cambia il mondo
Cambia me
Cambia il mondo intorno a noi”
(2018 – “Cambia il mondo” di Franco Castia e Marco Piras)
Articolo pubblicato il giorno 14 febbraio 2022 per la rivista Iod. È il frutto di una bella chiacchierata che ho avuto il piacere di avere con i Bertas nel gennaio 2022. Un lungo racconto per aneddoti, un’altra storia scritta che ho fissato nella mia agenda e nel mio recorder ma, soprattutto, nella memoria.
Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e l’autorizzazione dell’autrice.
Quella musica che ti costringe a guardare dentro te stesso
di Luciana Satta
Un tuffo nella memoria. Quello che siamo stati, quello che siamo e chi saremo poi…
È “C’era una volta in America”, il film diretto da Sergio Leone e interpretato da Robert De Niro, Elizabeth McGovern e James Woods. È il 1984. Scorrono le scene di David “Noodles” Aaronson, i suoi amici e le loro vicissitudini tra Manhattan e e New York. Non esiste al mondo qualcosa di simile a quella nostalgia. Perché quella musica evoca immagini.
Non importa se ancora non sei venuto al mondo, se tu sei del 1975 e quel film storico diretto da Sergio Leone è del 1964: quel fischio inconfondibile ti resterà addosso, sotto pelle. Basterà solo un accenno alla colonna sonora e “Per un pugno di dollari” entrerà prepotentemente nella tua testa, ti verrà a cercare, da lì al resto dei tuoi giorni non ti lascerà più. “Perché – diceva lui – La musica esige che prima si guardi dentro se stessi, poi che si esprima quanto elaborato nella partitura e nell’esecuzione”.
Morricone ti costringe a guardare dentro te stesso e il film di Tornatore ti scava dentro. Quando i titoli di coda scorrono davanti ai tuoi occhi, li vedi lì tutti insieme tutti i suoi figli: “Il buono, il brutto e il cattivo“, “Uccellacci e Uccellini” , “C’era una volta il West“, “Novecento“, “Gli Intoccabili“, “Nuovo Cinema Paradiso“… “Nuovo Cinema Paradiso“… “Love Theme,” il tema d’amore, la mente vaga. Ogni musica, ogni nota, ti riporta a un profumo, a un’estate, a un paesaggio sconfinato bruciato dal sole, all’eclissi di luna. È la magia del cinema, quando nel buio della sala quella commistione indissolubile di immagini e suoni ti rapisce e ti porta lontano.
Così Ennio Morricone entra nella tua vita e non la lascia più. Da Gianni Morandi a Bruce Springsteen, da Clint Eastwood a Carlo Verdone, a Quentin Tarantino. Tutti concordi nel riconoscere che Morricone sia stato un precursore, “l’inventore di una nuova forma espressiva”. Nessuno più di lui ha sfidato le convenzioni per conquistare a pieno la sua indipendenza artistica e umana. Non si è arreso di fronte a quel bivio che lo pose di fronte a quella che all’inizio era sembrata una scelta necessaria tra la purezza musicale, quella che il suo maestro Goffredo Petrassi ricercava negli allievi, e quella prepotente forza creativa così fuori dagli schemi per quell’epoca e vissuta quasi come un senso di colpa da Ennio. Ma non si possono voltare le spalle alla libertà. E il vero artista è libero.
Eppure l’America non fu generosa con lui, fino a quando nel 2007 è costretta finalmente a inchinarsi di fronte al genio. Così Ennio Morricone stringe forte finalmente ciò che tante volte aveva appena sfiorato ma che da tempo ormai lontano gli spettava. Arriva l’Oscar alla carriera.
Difficile che qualcuno non conosca la sua storia. Per questo bisogna andare al cinema a vedere “Ennio: The Maestro”. di Giuseppe Tornatore. Non è solo la biografia di una leggenda, del compositore, direttore d’orchestra e arrangiatore, di uno dei più grandi compositori per il cinema di tutti i tempi. È un po’ come la Divina Commedia di Dante. Ennio ha raccontato in musica la storia di tutti noi.