Vivere per il Cinema CARLOTTA BOLOGNINI

Storia di una famiglia romana che ha lasciato un ricordo indelebile nella Storia del Cinema.

*In occasione del Premio Bolognini che si è tenuto a Roma, pubblico un estratto dal mio libro L’Arte di essere Figli (con un anteprima dell’intervista rilasciata dalla produttrice Carlotta Bolognini il 15 luglio del 2022) e vi racconto del Premio Bolognini – Anni D’oro del Cinema a cui ho avuto l’onore di partecipare venerdì 31 gennaio 2025.

di Luciana Satta

 

La voce narrante di Giancarlo Giannini a raccontare un tempo che non c’è più. Sul grande schermo scorrono le immagini di chi quell’epoca d’oro del Cinema italiano l’ha vissuta con gli occhi di un bambino: Renzo Rossellini, Ricky Tognazzi, Simona Izzo, Fabrizio e Fabio Frizzi, George Hilton, Danny Quinn, Alessandro Rossellini, Vera Gemma, Francesco Frigeri, Claudio Risi e tanti volti ancora, “Testimoni del tempo, del tempo dei nostri padri”.

 

 

Questa è la storia della produttrice cinematografica Carlotta Bolognini. Della sua infanzia trascorsa a “respirare Cinema” con suo padre Manolo, produttore cinematografico e con suo zio Mauro, regista. Figli del Set è il docufilm tratto da una sua idea per la regia del catanese Alfredo Lo Piero in cui ricorda la sua storia di figlia d’arte cresciuta sui set cinematografici. Un invito a cena nato dalla decisione di rivedere i suoi amici d’infanzia, i figli d’arte. Seduti intorno a un tavolo, con suo padre Manolo, nel suo film rievoca con nostalgia e attraverso foto, filmati, testimonianze e racconti, cinquant’anni di storia del Cinema. Una macchina dei sogni che andava dritta al cuore e alla testa degli spettatori. «Eravamo una famiglia molto legata – racconta – . Mio papà e mio zio non solo erano fratelli, ma i migliori amici l’uno dell’altro. Mio zio Mauro è stato un secondo papà per me e per mio fratello Andrea. Quando non c’era lui, c’era zio. Era un rapporto bellissimo». «Figli del set è nato dalla nostalgia che avevo del set e di tutte quelle persone che avevo conosciuto e che, purtroppo, non ci sono più. Mio papà me lo sono goduto fino al 2017, perché è morto a novantadue anni, ancora superattivo, stava preparando il Ritorno di Django, probabilmente il suo film prediletto. Zio Mauro invece purtroppo è scomparso nel 2001, dopo cinque anni di Sla, una malattia terribile».

Il docufilm ha partecipato come evento speciale al Giffoni Film Festival a Taormina, encomio del Presidente della Repubblica Mattarella, ventesimo su centoventuno ai David di Donatello, evento al Festival di Taormina.

 

 

Quello che mi colpisce maggiormente di Carlotta Bolognini è la sua straordinaria umiltà e dolcezza, doti che rendono difficile credere di essere di fronte a chi ha ricevuto tutti questi riconoscimenti: Premio “Donna che fa la differenza 2014”, in Campidoglio; Premi “Gianni Di Venanzo”, “ITFF international Film Festival”, “Premio Circeo”, ” Musa d’argento”, “Dea alata” a Venezia”, “Premio alla memoria Mauro Bolognini”, “Premio alla memoria Manolo Bolognini”, “Premio CortoDino Film Festival”, “Premio speciale Cinema, l’eco del litorale Anzio”, “Premio speciale Le donne nell’Arte”, “Premio Raf Vallone”, “Premio S.Te.P Festival, Teatro”. Tra questi, anche il Premio Apoxiomeno a Forte Dei Marmidove si è svolta la XXIV edizione del Premio internazionale Apoxiomeno, prestigiosa manifestazione promossa dell’International Police Association (Ipa) in collaborazione con l’Associazione Arte di Apoxiomeno.

«Essendo nata sul set, era quasi inevitabile – racconta -. Mio papà si è sposato mentre stava realizzando Il generale Della Rovere (1959, regia di Roberto Rossellini, n.d.r.), con Vittorio De Sica, al Teatro 5 degli Studi di Cinecittà a Roma. Ha detto: «Scusate, mi assento due o tre ore e torno!». È andato a sposare mia mamma e sono tornati al Teatro 5. Quindi io e mio fratello siamo nati e cresciuti sui set. Il mio primissimo film, è stato Django. Avevo cinque anni e una grande voglia di lavorare. Stando sul set ero la mascotte della troupe, la piccolina che saltava da un reparto all’altro, andavo al trucco, al parrucco. Mi infilavo in mezzo ai costumi e nelle ceste. A cinque anni dicevo: «Papà ma io voglio lavorare!». E lui: «Ma dove vai che sei piccolina!». Invece poi mi mise accanto (probabilmente per farmi stare buona) la segretaria di edizione, Patrizia Zulini, e mi raccomandò di stare attenta a tutti i particolari e di controllare se fossero presenti degli errori. Da lì ho ereditato la precisione nel lavoro, sto sempre molto attenta agli sbagli e che tutto sia collegato».

 

 

«Mio zio mi teneva tra le braccia spesso affinché controllassi quando era in moviola
(è il nome di un sistema elettromeccanico utilizzato per la visione rallentata di filmati, n.d.r.), davanti alla mitica Catozzo  (un tipo di giuntatrice specifica del montaggio dei film inventata da Leo Catozzo e utilizzata dai montatori cinematografici di tutto il mondo, fino all’avvento del montaggio digitale, n.d.r.). Ho da sempre avuto questa “febbre”. In Figli del Set ho voluto la stessa segretaria di edizione di Django. È stato il suo ultimo lavoro nel cinema, siamo ancora amiche».

 

ph. Giancarlo Fiori

 

«Del Cinema del passato mi manca tutto. Dalle persone al modo di lavorare e di filmare… il digitale ha tante convenienze, opportunità, agevolazioni, però la pellicola aveva un altro sapore, c’erano macchine enormi che venivano sollevate da tre macchinisti. Era tutto più artigianale, con le scatole delle pizze si facevano i portaceneri! (ride, n.d.r.). Adesso è tutto digitale. Nell’ultimo corto che ho realizzato abbiamo girato in una stanza dove c’erano i monitor, apparecchi sofisticati. Non si vive il set. Un tempo era un Cinema di tipo artigianale, stavamo tutti insieme».

 

 

Quali sono i valori più grandi che ha ereditato da suo padre e da suo zio, che le restano e che porta sempre con sé?

«L’onestà sempre, in tutto, il rispetto verso gli altri e verso il lavoro degli altri. Il riguardo per se stessi, per la famiglia, per gli amici. Zio aveva un grande rispetto per l’amicizia. Zeffirelli e Tosi erano suoi amici. 

Valori rarissimi in quest’epoca…

Purtroppo sì, ma io dico sempre che preferisco “mangiare pane e cipolle”, ma rimanere pulita, corretta, onesta. Fino all’ultimo».

Una storia immensa, quella dei Bolognini, raccontata in Compagni d’arte, il nuovo docufilm diretto da Carlotta Bolognini e Fabio Luigi Lionello presentato a Roma lo scorso ottobre. Al centro della pellicola i giganti del Cinema italiano, di cui non si deve perdere memoria: da Mauro e Manolo Bolognini a Franco Zeffirelli, da Anna Allegri a Piero Tosi.

 

 

Venerdì 31 gennaio nella Sala della Regina di Montecitorio si è svolta la IV edizione del Premio Bolognini, alla presenza di tanti grandi professionisti del Cinema. «In occasione del centenario del mio papà – ha spiegato Carlotta Bolognini – ho voluto accanto a me un suo amico con il quale ha fatto cinque film: Franco Nero».

«Ho dei bellissimi ricordi di tuo padre – ha detto l’attore Franco Nero – ricordo in particolare la sua voce. Gli dicevo “Ma tu devi fare il doppiatore!”. Lui è stato il produttore del vero Django, nel 1966».

 

ph. Luciana Satta

***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e dell’autrice. Le foto private della famiglia Bolognini sono state gentilmente concesse da Carlotta Bolognini per il mio saggio L’Arte di essere Figli.

https://www.carlodelfinoeditore.it/scheda-titolo.aspx?isbn=9788893613040

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MASSIMO MANCA I coltelli di Pattada orgoglio dell’Isola nel mondo

di Luciana Satta

Il martello che batte sull’incudine. La sega nastro che taglia il corno. La raspa e la lima per le rifiniture. Quelli che per tutti sono percepiti come “rumori”, per un maestro forgiatore come Massimo Manca si trasformano in suoni. Suoni familiari che ogni giorno, da vent’anni, lo accompagnano nel suo laboratorio alla ricerca della perfezione nella costruzione di un oggetto diventato l’orgoglio dell’Isola nel mondo: sa resolza, il coltello di Pattada (***A serramanico, la sua lama viene realizzata in diverse lunghezze).

 

Simbolo di identità culturale, con la sua tipica lama “a foglia di mirto”, sa resolza ha una storia secolare. «L’utilizzo dei materiali – spiega l’artigiano – era il corno, che si ricavava dal bestiame per realizzare i manici. Il metallo, perché in antichità in Sardegna erano presenti vari giacimenti ferrosi. Le prime attestazioni risalgono al 1800. Era il coltello che il pastore possedeva per qualsiasi esigenza. Ora è un oggetto prezioso, ma realizzato con materiali semplici. Quella è la base».

«La mia intenzione – prosegue – era (ed è) di trasformarlo, utilizzando anche materiali preziosi. Considera che uno dei miei coltelli ha 331 diamanti. Ci vuole il mercato giusto, non sono oggetti che espongo nel mio laboratorio, perché chi viene qui da me cerca il coltello classico. Chi viene a Pattada vuole il coltello tradizionale, cerca la Storia».

 

 

Una tradizione destinata all’estinzione, come tante – purtroppo. «È un’arte che si perderà, la mia attività inizia con me e finirà con me. Nessuno mi ha mai chiesto di imparare, molti artigiani e tradizioni si perderanno».

Lucio Dalla aveva, sulla sua scrivania, un coltello realizzato da Massimo Manca. «È ancora nel suo studio – racconta l’artista di Pattada – glielo regalò un cugino. Lo utilizzava come tagliacarte».

 

 

Da Montecarlo a Dubai, da Londra alla Corsica. Oggetto da collezione, orgoglio dell’Isola, il coltello di Massimo Manca è arrivato in diverse parti del mondo. Dalla famiglia reale del Principato di Monaco, dal principe arabo Hamdan Al Maktoum di Dubai. «Sette anni fa ho ottenuto una vetrina esclusiva nell’hotel Burj Al Arab. Avevo sempre la passione per questo hotel, è particolare perché ha una forma che riproduce una vela. Ho provato a realizzare un coltello, perché la vela ne ricorda la forma. Ho conosciuto un signore che trascorre le giornate in questo hotel e tramite lui sono stato contattato dal direttore».

 

 

«Sono stato invitato a Dubai e ho consegnato personalmente un coltello al direttore del Burj Al Arab; inoltre, attraverso l’interprete, gli è stata raccontata la storia ed è rimasto affascinato. Non sapeva come sdebitarsi per questo omaggio e mi ha proposto di realizzare lo stesso coltello, in formato più piccolo, poi mi ha chiesto di creare circa dodici pezzi, destinati alla vendita nelle boutique dell’hotel. Per un piccolo artigiano come me è stato un evento incredibile».

 

 

«Nel 2007 Ferrari organizzò un tour mondiale, con circa duecento Ferrari che hanno girato il mondo. Ogni Stato o regione interessato offriva un omaggio della propria tradizione. Sono arrivati in Sardegna, da Porto Cervo a Cagliari. Mi hanno scelto per realizzare i coltelli, sono gli unici al mondo con il marchio Ferrari».

 

 

Gli appassionati sono numerosi e alcuni coltelli sono delle rarità. «Vengono venduti ai collezionisti, molti vogliono acquistare il coltello di Pattada perché hanno sentito la storia. Molti lo acquistano per regalarlo. A Bolotana, ad esempio, ho creato dodici coltelli per uno sposo che ha voluto donarli come “bomboniera”. È un simbolo. Richiedono moltissimo anche i set da tavola. Poco prima dell’estate ho creato 120 pezzi per un ristorante in Corsica, un altro centinaio per l’Harris bar di Londra, altri pezzi ancora per un privato, sempre a Londra».

 

 

«Da quattro anni la mia attività sta andando tantissimo, grazie soprattutto ai sacrifici e all’impegno. Ho iniziato in un momento molto complicato della mia vita. Avevo alle spalle un lavoro andato male ma, grazie a Dio, ho sempre avuto una buona manualità e il lavoro manuale è sempre stato fondamentale per me ma, non essendo figlio di un artigiano, è stato difficilissimo. Lo considero “un dono”».

Un dono, per il quale Massimo Manca ringrazia soprattutto sua madre, che vent’anni fa lo ha incoraggiato a intraprendere quest’arte e a realizzare i suoi meravigliosi coltelli.

 

 

***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e dell’autrice. Tutte foto sono state gentilmente concesse da Massimo Manca, che ha autorizzato la pubblicazione.

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FIORI SOTTOPELLE di Karim Galici

Le ciocche dei capelli sono come le foglie. Vanno via, basta il vento. La forza della natura e il coraggio della donna. Valeria, Tiziana, Tecla sono il simbolo di chi ha trovato la forza di guardare avanti. Oltre il dolore e la fragilità. Sono il lungo inverno che non può durare a lungo, perché nessuno può fermare la primavera. Quelle foglie spazzate via da un flebile soffio di vento sono ghirlande di fiori colorati e vivi sulle loro teste.

Fiori sotto pelle del regista Karim Galici non è solo un film. È una poesia che ci fa accostare con delicatezza alle storie delle tre donne protagoniste, espressione della fragilità che si trasforma in speranza, delle lacrime che si fanno sorrisi e dei loro occhi, così autentici e veri.

 

 

La storia di Valeria, di Tiziana e di Tecla è una testimonianza preziosa anche di chi sta vicino a queste donne e accanto a loro combatte la battaglia della malattia oncologica con spirito guerriero. Come il compagno di Tiziana, Alessandro: «La sua parrucca – dice – è particolare, ha riflessi blu, lei è stupenda, è sempre più bella. Questi riflessi blu mi fanno pensare al mare, al cielo, alla natura. La vedo splendere».

Il mare. Il mare è fondamentale, elemento centrale, il respiro della vita, l’orizzonte da non perdere di vista, la speranza. «Creo – spiega il regista, Karim Galici – una sceneggiatura che è una scaletta con delle idee che inizialmente tengo per me, perché so che possono variare. Nella prima versione ho pensato alle quattro stagioni. Nella prima idea associavo il mare a immagini più estive, ma avremmo dovuto portare avanti il lavoro per tutto l’anno. Sono state le donne stesse a sottolineare il rapporto con il mare, soprattutto Tecla, ma anche Tiziana. Penso che sia inevitabile. Sentiamo molto forte l’influsso dal mare e pensa a quanto possa avere inciso su Tecla, che vive a Peonia Rosa, sotto l’isola del Toro. L’isola nell’isola di sant’Antioco. Anche per me ha un significato di circolarità, come le stagioni della vita».

Il nuraghe. All’inizio del film le tre donne percorrono un sentiero, arrivano al nuraghe Cuccurada (Mogoro), entrano, alla fine del film escono da questo luogo. La scelta del nuraghe ha un significato preciso per le protagoniste, simbolico per il regista. «È un luogo misterioso. Ho percepito un parallelismo con una malattia che è essa stessa ancora “un mistero”, il cancro. È come se anche queste persone fossero all’interno di una situazione “labirintica”. Quando ho visto la maestosità del nuraghe Cuccurada, ho pensato a come potesse essere in origine e che ci fosse un parallelo tra queste storie e quel luogo. È bello trasmettere l’esempio di queste donne, perché chissà quante si scoraggiano… invece sapere che in questo perdersi c’è la possibilità di ritrovarsi dimostra come queste donne si siano incontrate, anche nella realtà. Ci hanno messo un attimo a capire che si trovano sulla stessa barca e possono aiutarsi le une con le altre».

 

 

«Avrei voluto che, idealmente, come in un ciclo, queste donne avessero età diverse. Valeria ha circa trentacinque anni, Tiziana ne ha quasi cinquanta, Tecla circa settanta. Abbiamo conosciuto Tecla a Carbonia, durante una giornata della consegna delle parrucche. La produzione aveva preso accordi specifici e avevamo un punto di riferimento importante, il dott. Atzori (dott. Francesco Atzori, Responsabile oncologia ospedale Sirai Carbonia, n.d.r.). Abbiamo ripreso tutta la consegna. Ho parlato con Tecla in un modo molto intimo ed è come se si fosse scelta da sola.

Un’altra volta eravamo a Nuoro, nel Salone delle coccole. Quando siamo arrivati lì siamo rimasti un po’ spiazzati perché pensavamo di vedere una decina di donne che ricevevano le parrucche, invece erano solamente in due. Tiziana era molto perplessa sul fatto di apparire e di prendere parte a questo lavoro. Ci aveva colpito il rapporto con il suo compagno. È stata un’intervista bellissima.

Valeria è stata consigliata dal Salone di Valentino di Mogoro ed è anche una volontaria, aiuta nella donazione delle ciocche. Lavora come personale medico, è una figura di riferimento per questa rete di parrucchieri».

 

 

Fiori sottopelle di Karim Galici è prodotto dall’associazione Oltresardegna con il contributo della Regione Autonoma della Sardegna – Assessorato della Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport in collaborazione con l’associazione Paravè – Progetto Inachis, la Fondazione Andrea Parodi e il Comitato Nazionale Italiano Fairplay.

Colonna sonora: Andrea Parodi, Gianluca Pischedda, Simone Soro, Ludovica Cadeddu, Alessandro Pulloni.

 

 

***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e dell’autrice. Un ringraziamento particolare a Paola Piroddi, direzione scientifica, e a Dafne Turillazzi, ufficio stampa dell’associazione Oltresardegna. Ringrazio il regista, Karim Galici, per l’intervista e la disponibilità. Le foto sono di proprietà dell’Associazione Oltresardegna.

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SIMONE CRISTICCHI in FRANCISCUS

Il folle che parlava agli uccelli apre la stagione del CEDAC

Riflessioni, canzoni inedite, domande si alternano in un gioco di chiaroscuri. Con Franciscus/ Il folle che parlava agli uccelli Simone Cristicchi porta sul palco del teatro Verdi di Sassari per la prima del CEDAC, tutta la sua sensibilità, alter ego di «Franciscus, il rivoluzionario, l’estremista, l’innamorato della vita. Franciscus che visse per un sogno. Il folle che parlava agli uccelli e che vedeva la sacralità e la bellezza in ogni dove: nel volto di una persona, nello sguardo di un animale, ma anche nel sole, nella morte, nella terra su cui camminava insieme agli altri».

Al centro della scena, i grandi temi dell’Umanità: la vita e la morte, la gioia del donarsi, il dolore, la guerra interiore e tra gli uomini. La follia. Perdersi per ritrovarsi. E uno scambio intenso e profondo con il pubblico.

ph. Roberto Pintus

 

Simone Cristicchi veste Francesco D’Assisi di contemporaneità, attraverso i suoi occhi di artista viscerale, quando toglie il copricapo e svela se stesso con le sue mille domande sul senso dell’esistenza e attraverso lo sguardo di Cencio, personaggio centrale, quando il copricapo lo indossa insieme agli abiti di tela di sacco.

Foto di Roberto Pintus

Cencio, lo “straccivendolo”, voce narrante, non comprende la scelta di Francesco, è specchio dei suoi detrattori. E’ alla fine, nella sofferenza, che coglie il significato del suo messaggio.

ph. Roberto Pintus

«Mi era necessario approssimarlo , sia nel senso di avvicinarlo, tramite approfondite letture, conferenze, e visite nei suoi luoghi; sia nel senso di semplificarlo, per poterlo comprendere e sentire accanto, correndo il rischio di essere impreciso, insolente, insolito – ha spiegato Cristicchi -. Così è uscita fuori l’idea che ho di lui. Il mio Francesco. Non riuscivo a mettermi nei suoi panni, perciò me li sono fatti prestare da Cencio».

 

ph. Roberto Pintus
ph. Roberto Pintus

di e con Simone Cristicchi
scritto con Simona Orlando
canzoni inedite di Simone Cristicchi e Amara
musiche e sonorizzazioni Tony Canto
scenografia Giacomo Andrico
luci Cesare Agoni
costumi Rossella Zucchi
aiuto regia Ariele Vincenti
produzione Centro Teatrale Bresciano, Accademia Perduta Romagna Teatri
in collaborazione con Corvino Produzioni

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“VOLEVO ESSERE UNA FARFALLA”

“La lunga notte” dei Figli d’Arte Medas

di Luciana Satta

La lunga notte di Raffaella. Dove le emozioni e i ricordi vagano, alla ricerca di un “perché”. Dove lei attende che qualcuno un giorno sciolga i nodi della matassa dei suoi pensieri che all’imbrunire si ripresentano per terminare all’alba, quando suo padre la chiama per andare a scuola. Ha dodici anni, Raffaella. Come una farfalla, immagina di volare via. Di librarsi in volo e di liberarsi da quel piccolo mondo che non la comprende, fatto di gesti e parole crudeli che arrivano dai coetanei, ma anche dagli adulti.

Cala la notte e, puntuale, la giostra dei suoi pensieri non si arresta.

Così una ragazzina di dodici anni diventa come uno specchio, di fronte al quale lo spettatore non può riflettere se stesso con indifferenza. Lo spettacolo invita a rompere le barriere del moralismo e dei pregiudizi sul tema dei Disturbi Specifici del Linguaggio. La difficoltà di comunicazione di una ragazza che si affaccia al mondo con difficoltà e sofferenza diventa specchio della mancanza di comunicazione dei nostri tempi. Il non capire e il non capirsi. Respingere ciò che è “altro” rispetto a noi, a causa delle nostre abitudini radicate e strutturate.

L’attrice Sofia Quagliano ph. Luciana Satta

«Vengo qui un po’ come un pellegrino – afferma il regista, Franz di Maggio, al termine dello spettacolo -. Sono ligure, di adozione, poi ho vissuto a Pavia. Per tanti anni ho visto gli spettacoli di Gianluca Medas e ho sognato un giorno di poter lavorare con lui. Un giorno ha fatto una cosa straordinaria: ha preso un aereo, è venuto a Pavia e mi ha chiesto di fare la regia di questo spettacolo. Sono onorato e felice di questa occasione che mi ha dato e onorato e felice di lavorare con queste persone che sono qui accanto, Sofia Quagliano e Nicola Agus».

Il polistrumentista Nicola Agus ph. Luciana Satta

La Lunga notte – Volevo essere una farfalla (di Gianluca Medas, regia di Franz di Maggio, con Sofia Quagliano, musica dal vivo Nicola Agus) è andato in scena sabato 23 novembre ed è inserito nel cartellone del XXXIV Festival Etnia e Teatralità della Compagnia Teatro Sassari.

Un altro momento dello spettacolo al teatro Astra ph. Luciana Satta

 

***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte

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GIUSEPPE BIASI

Alla Pinacoteca di Sassari le sue opere straordinarie

Processione in Barbagia (olio su tela) ph. Luciana Satta

Quando si viene quaggiù per guardare le cose da vicino… e non si viaggia come le sardine dentro a una scatola o come le acciughe, in un barile… non si fa fatica a comprendere che questo non è un popolo barbaro. E la sua civiltà è nobile e antica“.

Giuseppe Biasi

Così il pittore Giuseppe Biasi descriveva la sua amata Terra.

La Sardegna, che era sempre stata descritta dagli antropologi dell’epoca come un luogo derelitto, oppresso dalla fame e devastato dalla malaria e dal banditismo, riconquistò, finalmente, nelle opere di Biasi, la sua dignità.

Proprio a questo straordinario artista del Novecento è stata dedicata nel 2008 una esposizione all’ex Convento del Carmelo. Si trattava del cosiddetto “Fondo Biasi”, la collezione delle opere di proprietà dell’Amministrazione regionale, il più significativo corpus di lavori mai esposti fino ad allora.

La mostra, curata da Giuliana Altea e allestita da Antonello Cuccu e dalla Ilisso, comprendeva 283 oli, tempere, ma anche chine, linoleografie e xilografie.

2024 – La collezione è stata esposta, a distanza di anni, alla Pinacoteca nazionale di Sassari, in piazza Santa Caterina, in un allestimento nuovo, curato dalla direttrice Maria Paola Dettori.

La mostra alla Pinacoteca nazionale di Sassari

Resterà aperta, in tutto il suo splendore, fino a gennaio del 2025. In alcune sale del museo, gestito dalla direzione regionale musei della Sardegna, sono presenti dipinti, incisioni, la produzione grafica e le opere dedicate al periodo africano.

Un viaggio a tutto tondo nell’arte di Biasi, attraverso i diversi aspetti della sua produzione: dalla pittura al disegno, fino all’incisione. Il Fondo Biasi fu acquistato nel 1956 e fu conservato nei depositi della Soprintendenza di Sassari, finché nel 1984 fu esposto in due mostre, a Sassari e a Nuoro. Nel 2004, poi, la regione la affidò in custodia al comune di Sassari in due differenti depositi, in via di una sistemazione definitiva.

Alcuni dei dipinti più significativi sono stati restaurati.

Il Caffé (olio su faesite) e di seguito particolari del dipinto ph. Luciana Satta

Nei 1.600 metri quadri di spazi espositivi nel 2008 si era evitato di separare le opere che raccontano l’Isola da quelle che evocano l’Africa, preferendo piuttosto un ordine cronologico, mettendo così in evidenza l’evoluzione del linguaggio dell’artista. Allo stesso tempo le opere pittoriche non erano state separate da quelle grafiche, per dare maggiore risalto al legame inscindibile tra i due settori.

Uscita dalla chiesa (olio su tela) ph. Luciana Satta

La Sardegna popolare e l’Africa vivono attraverso gli occhi di questo artista sardo influenzato dalla pittura secessionista e espressionista.

Il Fondo Biasi raccoglie l’intera opera del pittore. Dal decorativismo degli anni Dieci di alcune grandi tele, all’olio Processione in Barbagia, “Dove lo sguardo dello spettatore si sposta bruscamente dalle figure in primo piano immerse nella penombra, sullo sfondo del paese illuminato dal sole. Questo quadro segnò il debutto del pittore alla Biennale di Venezia del 1909 e ne testimonia la fase secessionista giovanile, molto vicina all’illustrazione.

La pennellata densa rivela invece, nella seconda metà degli anni Dieci, l’evoluzione stilistica del pittore. Risale a questi anni, precisamente al 1923, Germania Lonati, dipinto da Biasi a Bellagio, in Lombardia, in cui si vede l’influenza dell’austriaco Klimt.

Ancora, gli splendidi ritratti di fanciulle in abiti tradizionali, come la Sposa di Ollolai, La ragazza di Busachi, La ragazza di Oliena e Il ritratto di Mintonia, del 1935 circa.

Il percorso espositivo conduce alla fase del suo lungo soggiorno in Nordafrica, dal 1924 al 1927, durante il quale la pittura diventa un’indagine sulle differenze, sul rapporto tra cultura occidentale e “mondo altro”.

“Un mondo bellissimo, fatto soprattutto di corpi femminili”…

Studio di donna africana 1924-26 (olio su compensato) ph. Luciana Satta
Studio di donna africana 1924-25 (olio su tela) ph. Luciana Satta

“Come colui che ha fatto il giro del mondo – spiegava l’artista – svilupperò tutto l’intero materiale raccolto, e qualche cosa ne deve nascere. Tra l’arte egiziana e quella indiana di cui arriva qui l’ondata, ho subito una potente lavatura”.

***Questo testo e gli scatti non possono essere riprodotti, senza l’autorizzazione dell’autrice, che ne detiene i diritti. Il testo riferito alla mostra di Biasi nell’ex Convento del Carmelo è apparso nel 2008 sulla rivista “Il Messaggero sardo (e pubblicato qui di seguito).

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Il mio Blog si veste di nuovo!

Ci sono storie scritte e storie ancora da scrivere… tante sono rimaste impresse sulla carta, altre sono state nascoste, custodite, amate o odiate, da qualcuno sottratte, alcune consumate, altre ancora scopiazzate. Ma restano. Hanno gambe veloci e occhi grandi, le storie scritte. Rompono silenzi. Valicano muri. Evolvono. Frutto del passato, con lo sguardo orientato verso il nuovo. Si cambia strada, sempre!
Quello che leggerete è frutto del mio lavoro e della mia passione.
Questa è la casa delle mie idee, dei miei pensieri, dei miei incontri.

*BENVENUTI e BENVENUTE!*

Luciana Satta

 

LILIANA, la figlia di Totò

(Raccontata dalla nipote, Elena Alessandra Anticoli De Curtis)

*Anteprima del III capitolo dell’opera L’Arte di essere Figli

di Luciana Satta

https://www.carlodelfinoeditore.it/scheda-titolo.aspx?isbn=9788893613040

Liliana De Curtis con suo padre, Totò

Liliana e suo padre Antonio. Uno sguardo per capirsi. Un legame che è come una coperta che ripara e protegge in quei momenti della vita in cui si sente freddo. Il prima e il dopo, la vita e la morte, spartiacque tra la presenza e l’assenza di un’artista immenso che rimane, a dispetto del tempo che passa e come in un fermo immagine, nel cuore e nell’affetto del suo pubblico, conquistando così il dono dell’immortalità. Una rete di protezione che, quando manca, lascia un senso di vuoto incolmabile e una struggente nostalgia in Liliana, per quel rapporto così stretto e speciale tra padre e figlia. Questa è la storia di Liliana De Curtis. La racconta per lei sua figlia, Elena Alessandra Anticoli De Curtis, nipote di Totò, erede di una memoria storica custodita negli anni da sua madre (scomparsa il 3 giugno 2022, n.d.r.). […]

Se la vuoi scoprire, continua a leggere il terzo capitolo del mio saggio L’Arte di essere Figli. Con foto inedite e l’intervista esclusiva alla nipote, rilasciata il 1° maggio 2022, quando Liliana De Curtis era ancora in vita. Ha vissuto con la figlia Elena Alessandra, che si è presa cura di lei fino all’ultimo suo giorno). https://www.carlodelfinoeditore.it/scheda-titolo.aspx?isbn=9788893613040

***Questo testo e il materiale fotografico concessi in via esclusiva per specifica pubblicazione non possono essere riprodotti. Non si autorizza alcun tipo di riproduzione o pubblicazione. Ringrazio la sign.ra Elena Alessandra Anticoli De Curtis per l’immensa disponibilità e gentilezza.

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CRISTIANA CIACCI, la figlia di Little Tony

*anteprima capitolo II L’Arte di essere Figli

di Luciana Satta

L’arte di essere figli (Luciana Satta) – Carlo Delfino editore

Cristiana Ciacci da bambina, in compagnia del suo amato padre, Little Tony

«Eravamo simili nell’estro, avevamo entrambi la testa tra le nuvole, un lato artistico, anticonformista, un modo tutto nostro di pensare e di vedere la vita. Camminavamo sempre “sulla luna”. Invece eravamo differenti in altri aspetti del carattere. Papà è sempre stato una persona molto allegra: gli piaceva stare bene, divertirsi, circondarsi di amici e di persone che lo facessero ridere e sorridere. Io invece ho sempre avuto una pesantezza, una tristezza, una malinconia di fondo. Ci siamo scontrati tante volte per questo. Lui avrebbe voluto che fossi più leggera, più simile a lui, più cittadina del mondo, libera, anche nelle frequentazioni, nelle amicizie, mondana. Io invece ero l’opposto». […]

Nel mio saggio L’arte di essere figli (Luciana Satta) – Carlo Delfino editore vi racconto la storia di Cristiana e di suo padre Antonio Ciacci, in arte Little Tony. Con intervista rilasciata il 14 marzo 2022 e foto preziose gentilmente concesse dall’artista.

Questo testo e il materiale fotografico concesso in via esclusiva per specifica pubblicazione non possono essere riprodotti. Non si autorizza alcun tipo di riproduzione o pubblicazione.

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FRANCESCO VENDITTI *anteprima Capitolo I “L’Arte di essere Figli”

di Luciana Satta

L’arte di essere figli (Luciana Satta) – Carlo Delfino editore

Peppino, Peppino, figlio dell’amore
In quale vicolo o strada, batterà il tuo cuore
In quale culla di pietra pura
Imparerai, la vita è un’avventura

Peppino, Peppino, tu la dovrai amare
Amare è dura e senza frutti al sole
C’è più coraggio nella fantasia
La vita tua diventa mia.
(Peppino Peppino, Antonello Venditti, dall’album Venditti e Segreti, 1986)

«Ho capito la canzone Peppino Peppino quando avevo diciassette anni, perché prima non solo non avevo ancora una personalità definita, ma neanche la conoscenza dei fatti, dell’amore, del sapersi raccontare, del sapersi dare». Francesco è il figlio del cantautore Antonello Venditti e della regista, scrittrice, sceneggiatrice, Simona Izzo. Attore e doppiatore, ha percorso la strada di una lunga tradizione familiare nel doppiaggio, iniziata da suo nonno Renato e proseguita dalle zie, Rossella, Fiamma, Giuppy e dalla mamma Simona e abbracciando tutto quel bagaglio di insegnamenti ha costruito il suo essere artista. Quando suo padre scrive Peppino Peppino Francesco ha dieci anni. È il 1986. [continua…]

Vuoi scoprire la storia di Francesco Venditti?

Leggi L’arte di essere figli (Luciana Satta) – Carlo Delfino editore

*contiene l’intervista esclusiva a Francesco Venditti rilasciata in data 17 febbraio 2022 e foto inedite gentilmente concesse dall’artista

Francesco Venditti, alle sue spalle suo figlio Tommaso. Foto gentilmente concessa dall’artista, pubblicata per la prima volta ne “L’Arte di essere Figli”

Questo testo e il materiale fotografico concesso in via esclusiva per specifica pubblicazione non possono essere riprodotti. Non si autorizza alcun tipo di riproduzione o pubblicazione.

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Ad occhi chiusi per sentire il suono dell’ANIMA

NICOLA AGUS

di Luciana Satta

ph. Nicola Castangia

Era un giorno di fine estate del 2019 quando il suo “Viaggio intorno al mondo in ottanta strumenti”, spettacolo di musica e immagini da lui ideato, è arrivato alla trentaseiesima edizione di Voci d’Europa, a Porto Torres, uno dei festival più longevi di musiche polifoniche della Sardegna. Lì ho conosciuto l’energia di Nicola Agus, il suo mondo straordinario di compositore e di polistrumentista e quell’universo affascinante di suoni e di strumenti musicali, che aprono un varco nell’immaginazione e dal Mediterraneo ti fanno volare nelle aree nordiche e celtiche, dalla Spagna alla Scozia e ancora dall’America giungere fino in Cina. Chiudi gli occhi e ti ritrovi in un’altra dimensione. In spazi sconfinati. È un percorso in cui le sonorità della Sardegna “svestono gli abiti della tradizione ed entrano in un mondo di suoni moderni e contemporanei, in cui lo strumento è valorizzato in ogni suo aspetto tecnico e sonoro”. È vento che soffia, o mare in tempesta, è il respiro dell’infinito. Il suono dell’Anima. Dall’Occidente all’Oriente. Dalla Gaita de Cuerno, strumento spagnolo dell’Andalucia all’UDU, lo strumento a percussione delle donne nigeriane, dal Shakuhachi Flute, al Koto, l’arpa giapponese, dall’Hichiriki ad ancia doppia, all’Eram, lo strumento inventato quattro anni fa da Nicola Agus con le canne portate da una mareggiata improvvisa fino al Poetto di Cagliari… «A me interessa – spiega – che la mia musica conduca in punti lontani dell’anima, la devi sentire sulla pelle. Ti devi lasciare trasportare, voglio che sia un’esperienza, altrimenti non avrebbe senso. La posso suonare ovunque, anche chiuso in una stanza, ma la gente la percepisce, viaggia… poi quando a fine concerto qualcuno si avvicina e mi dice: “Ah, mi hai portato lontano…” io sono felice. Il significato è questo: con me bisogna lasciare fluire, farsi trasportare. E poi, siccome viaggiare costa (ride, n.d.r.), almeno con la mia musica sognano di essere in un luogo lontano nell’immaginario, sentono una cornamusa e attraverso quel suono magari immaginano di trovarsi in Irlanda, o in Scozia».

ph. Nicola Castangia

Il tuo percorso nella musica ha origine molto tempo fa, quando eri piccolo. Cosa ricordi di quando eri bambino e cosa ti ha affascinato del mondo dei suoni?

«Da bambino ero attratto dai suoni, ero curioso, avevo voglia di capire. Ero irrequieto, non stavo mai fermo, mai tranquillo. Ho messo alla prova i nervi dei miei genitori! Ma ho manifestato e capito da subito che la musica era la mia vita. Giocavo… con le costruzioni non creavo case, ma strumenti musicali, come i flauti, avevo già questa propensione. A casa c’erano gli strumenti classici, perché gli zii si dilettavano a suonarli, a mio padre piaceva la chitarra, non era eccelso, ma gli piaceva canticchiare a modo suo, credeva di essere bravo. Ma la mia passione non è nata dall’osservazione. Per me è qualcosa di innato, sei affascinato da un suono e lo sviluppi. In realtà tutti noi già quando siamo nel ventre materno percepiamo i suoni che provengono dall’esterno. Appartengono alla nostra memoria. La voce della madre poi tranquillizza il bambino e riesce a farlo addormentare. Non è la ninnananna in sé che lo calma, ma è la voce che è abituato a sentire. Assorbiamo tutti i suoni, è una curiosità che ci appartiene da sempre. La musica ha un ruolo importante. Poi, logicamente, un conto è essere curiosi, un conto è cercare di riprodurre quei suoni e farne una professione. Quello arriva con il tempo e con lo studio e l’approfondimento. Per me la musica è linguaggio, è la mia seconda lingua. È una grande forma di comunicazione, un modo per lanciare un messaggio. Il mio obiettivo è di farti trovare in un’altra dimensione e “staccare” la mente da tutto. Già nelle tribù africane era una forma di comunicazione molto potente, perché la voce non poteva essere percepita a grandi distanze, mentre il suono dei tamburi raggiungeva chilometri di distanza. La musica nasce dove l’uomo non può arrivare».

ph. Nicola Castangia

I tuoi strumenti provengono da tutto il mondo, ma molti sono da te costruiti. Dove li hai acquistati o come li recuperi?

Questa degli strumenti musicali è una “malattia”. Viviamo il mondo come se fosse a nostra immagine e somiglianza, ma all’interno del nostro sistema non siamo soli, arrivano tante influenze da parte di diverse culture. La sardità che diventa “egocentrismo” non mi appartiene e non mi interessa, non mi sento in un ombelico del mondo da cui tutto ha origine, dove tutto nasce e si sviluppa. Io guardo oltre il mare. Prendere strumenti da ogni parte del mondo deriva da una mia ricerca musicale, ma anche dalla domanda: “Se fossi nato lì come avrei utilizzato questo strumento?”. Tutto nasce dalla mia curiosità, mi piace vedere come in parti diverse del mondo esistano strumenti anche molto simili tra loro. Nella Via della Seta, ad esempio, ci sono tanti strumenti affini, dal mondo arabo sino all’Oriente. Si presentano in forme diverse ma la timbrica è la stessa e lo stesso è il principio. Non mi fermo solo a questo tipo di ricerca, mi piace crearne anche di nuovi, strumenti che non esistono, con forme differenti, ma anche apparentemente banali: dal suono che posso ricavare da una bottiglia d’acqua o da quella sonorità che posso creare dal nulla. Tutto viene naturale, ma bisogna anche studiare. La ricerca va in una determinata direzione se c’è dietro uno studio. Altrimenti stai creando ponti che non hanno un significato».

Sei entrato in contatto con qualcuno che ti ha insegnato qualcosa per quanto riguarda anche la costruzione degli strumenti?

«No, perché ognuno ha un suo pensiero. Mi hanno sempre appassionato la fisica e la chimica, che sono importanti per la musica. La fisicità dello strumento ne determina anche la timbrica, la chimica e il tipo di sostanze che possono entrare e possono danneggiare gli strumenti, come gli agenti atmosferici. Oppure se, ad esempio, se utilizzo la plastica in una certa modo, posso ottenere lo stesso suono prodotto da una chitarra in legno. Sono modi differenti di vedere le cose».

Come nasce la tua musica, da quali evocazioni?

«Innanzitutto il mio è un filone “New Age Spiritual Colossal”, rientra nel mondo della Cinematografia e appartiene al mondo Contemporaneo, olistico documentaristico. “Olistico”, perché è una musica che induce al rilassamento, da non confondere con la “musica rilassante per massaggi”, perché la mia non è lineare, cambia, accelera, rallenta. Tende a riportare l’uomo alle sue origini naturali, affinché risvegli in lui una forma di spiritualità e non sia concentrato solo sul progresso e sul denaro».

ph. Nicola Castangia

Tu sei stato fuori, hai viaggiato… come mai poi hai scelto di ritornare in Sardegna?

In realtà non ho scelto di rientrare in Sardegna. Si sono combinate alcune situazioni per cui mi sono arrivate delle proposte dalla Regione… ma penso che le mie idee fossero troppo innovative, io non sono un suonatore di launeddas tradizionale, sono un musicista che utilizza le launeddas in maniera diversa. La mia è una ricerca innovativa, dove lo strumento prende forma come se fosse una chitarra elettrica, o una cornamusa, o un sax, o un’armonica a bocca. Questo a volte fa storcere il naso ai tradizionalisti. Ma non è che io rifiuti la Sardegna… noi nasciamo liberi, in una terra chiamata “mondo”. A me interessa stare nel mondo. La Sardegna ce l’hai già dentro, ma io sono nato nell’ottantadue e ho avuto la possibilità di sperimentare e di capire perché la musica si è evoluta in una determinata maniera.

Arte, musica e riciclo. Tra i tanti strumenti che hai ideato, con le canne del Poetto tempo fa hai creato uno strumento che hai chiamato “Eram”…

Nel 2019 in seguito ad una mareggiata la spiaggia del Poetto fu completamente invasa dalle canne. È stato un forte momento di aggregazione, i bambini giocavano con le canne come se non le avessero mai viste. Ero rimasto molto colpito, perché era la prima volta che non ero stato io a cercarle per costruire i miei strumenti, ma loro erano giunte fino a me. Avevo voluto rendere omaggio a quel momento particolare, pensando anche al fenomeno dell’immigrazione, perché le canne spiaggiate ricordavano anche i corpi delle vittime portate dal mare, che oggi purtroppo è un cimitero a cielo aperto. Allora ho pensato di creare l’unico strumento che potesse parlare di quello che sta vivendo il mare, una sorta di strumento a corda… la corda può simulare le onde del mare, perché quando la fai vibrare produce un’onda e il suono viene propagato. Ho deciso di sperimentare e di creare uno strumento a corda utilizzando la canna e come tastiera un rostro, la spada del pesce spada e ho realizzato così uno strumento del mare… in seguito ne ho creato tantissimi.

Mi piace anche far cantare la voce dell’acqua utilizzando una semplice bottiglietta di acqua

naturale.

Sei anche autore delle musiche de “I venerdì della storia – Le bugie” dell’attore e autore Gianluca Medas, voce narrante dello spettacolo. In questo caso come nascono le tue composizioni per questo appuntamento alla manifattura Tabacchi di Cagliari?

Lì è un altro lavoro sull’improvvisazione diretta, in simbiosi con l’artista. Non ci sono prove. È fatto tutto sul momento e a me piace perché spazio e posso giocarmela sempre in maniera diversa. Misteri irrisolti e strumenti diversi, e ogni volta musiche e sensazioni nuove.

Ph. Nicola Castangia

Licia Colò ti ha chiamato diverse volte nelle sue trasmissioni. Sei stato invitato a portare la tua musica nello studio di “Il mondo insieme”, proprio per quella tua capacità di riuscire a fare suonare qualsiasi oggetto della quotidianità e ovviamente per i tuoi strumenti musicali dedicati ai vari paesi del mondo. Come è stata questa esperienza?

Inizialmente mi hanno invitato in trasmissione per suonare la carta e altri oggetti semplici e comuni. È stata una bella esperienza, sono stati gentilissimi, ma prevalentemente cercavano qualcosa che potesse stupire… suonare un pezzo di carta, o il vetro o un uovo magari è una forma spettacolare che colpisce maggiormente in tv. Poi, lei (Licia Colò) era rimasta colpita dall’Eram, perché unisce alla ricerca sonora una riflessione più profonda sull’emigrazione. Quando ho avuto la possibilità di suonare l’Eram ho potuto dare un senso più profondo e strutturato a ciò che voglio esprimere. È stata una pubblicità positiva e poi è una strada tutto da costruire. Io credo che non bisogna restare statici, ma perseverare e migliorare, sempre con umiltà. Io non suono esclusivamente per esibirmi in concerto, suono perché amo la musica. La vivo con umiltà e spensieratezza. Se il pubblico viene, bene, altrimenti suono lo stesso.

***Questo testo e gli scatti non possono essere riprodotti, senza l’autorizzazione dell’autrice e del fotografo, che ne detengono i diritti. Il testo e il materiale fotografico sono apparsi sulla rivista Iod (numero di settembre 2023).

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