Vivere per il Cinema CARLOTTA BOLOGNINI

Storia di una famiglia romana che ha lasciato un ricordo indelebile nella Storia del Cinema.

*In occasione del Premio Bolognini che si è tenuto a Roma, pubblico un estratto dal mio libro L’Arte di essere Figli (con un anteprima dell’intervista rilasciata dalla produttrice Carlotta Bolognini il 15 luglio del 2022) e vi racconto del Premio Bolognini – Anni D’oro del Cinema a cui ho avuto l’onore di partecipare venerdì 31 gennaio 2025.

di Luciana Satta

 

La voce narrante di Giancarlo Giannini a raccontare un tempo che non c’è più. Sul grande schermo scorrono le immagini di chi quell’epoca d’oro del Cinema italiano l’ha vissuta con gli occhi di un bambino: Renzo Rossellini, Ricky Tognazzi, Simona Izzo, Fabrizio e Fabio Frizzi, George Hilton, Danny Quinn, Alessandro Rossellini, Vera Gemma, Francesco Frigeri, Claudio Risi e tanti volti ancora, “Testimoni del tempo, del tempo dei nostri padri”.

 

 

Questa è la storia della produttrice cinematografica Carlotta Bolognini. Della sua infanzia trascorsa a “respirare Cinema” con suo padre Manolo, produttore cinematografico e con suo zio Mauro, regista. Figli del Set è il docufilm tratto da una sua idea per la regia del catanese Alfredo Lo Piero in cui ricorda la sua storia di figlia d’arte cresciuta sui set cinematografici. Un invito a cena nato dalla decisione di rivedere i suoi amici d’infanzia, i figli d’arte. Seduti intorno a un tavolo, con suo padre Manolo, nel suo film rievoca con nostalgia e attraverso foto, filmati, testimonianze e racconti, cinquant’anni di storia del Cinema. Una macchina dei sogni che andava dritta al cuore e alla testa degli spettatori. «Eravamo una famiglia molto legata – racconta – . Mio papà e mio zio non solo erano fratelli, ma i migliori amici l’uno dell’altro. Mio zio Mauro è stato un secondo papà per me e per mio fratello Andrea. Quando non c’era lui, c’era zio. Era un rapporto bellissimo». «Figli del set è nato dalla nostalgia che avevo del set e di tutte quelle persone che avevo conosciuto e che, purtroppo, non ci sono più. Mio papà me lo sono goduto fino al 2017, perché è morto a novantadue anni, ancora superattivo, stava preparando il Ritorno di Django, probabilmente il suo film prediletto. Zio Mauro invece purtroppo è scomparso nel 2001, dopo cinque anni di Sla, una malattia terribile».

Il docufilm ha partecipato come evento speciale al Giffoni Film Festival a Taormina, encomio del Presidente della Repubblica Mattarella, ventesimo su centoventuno ai David di Donatello, evento al Festival di Taormina.

 

 

Quello che mi colpisce maggiormente di Carlotta Bolognini è la sua straordinaria umiltà e dolcezza, doti che rendono difficile credere di essere di fronte a chi ha ricevuto tutti questi riconoscimenti: Premio “Donna che fa la differenza 2014”, in Campidoglio; Premi “Gianni Di Venanzo”, “ITFF international Film Festival”, “Premio Circeo”, ” Musa d’argento”, “Dea alata” a Venezia”, “Premio alla memoria Mauro Bolognini”, “Premio alla memoria Manolo Bolognini”, “Premio CortoDino Film Festival”, “Premio speciale Cinema, l’eco del litorale Anzio”, “Premio speciale Le donne nell’Arte”, “Premio Raf Vallone”, “Premio S.Te.P Festival, Teatro”. Tra questi, anche il Premio Apoxiomeno a Forte Dei Marmidove si è svolta la XXIV edizione del Premio internazionale Apoxiomeno, prestigiosa manifestazione promossa dell’International Police Association (Ipa) in collaborazione con l’Associazione Arte di Apoxiomeno.

«Essendo nata sul set, era quasi inevitabile – racconta -. Mio papà si è sposato mentre stava realizzando Il generale Della Rovere (1959, regia di Roberto Rossellini, n.d.r.), con Vittorio De Sica, al Teatro 5 degli Studi di Cinecittà a Roma. Ha detto: «Scusate, mi assento due o tre ore e torno!». È andato a sposare mia mamma e sono tornati al Teatro 5. Quindi io e mio fratello siamo nati e cresciuti sui set. Il mio primissimo film, è stato Django. Avevo cinque anni e una grande voglia di lavorare. Stando sul set ero la mascotte della troupe, la piccolina che saltava da un reparto all’altro, andavo al trucco, al parrucco. Mi infilavo in mezzo ai costumi e nelle ceste. A cinque anni dicevo: «Papà ma io voglio lavorare!». E lui: «Ma dove vai che sei piccolina!». Invece poi mi mise accanto (probabilmente per farmi stare buona) la segretaria di edizione, Patrizia Zulini, e mi raccomandò di stare attenta a tutti i particolari e di controllare se fossero presenti degli errori. Da lì ho ereditato la precisione nel lavoro, sto sempre molto attenta agli sbagli e che tutto sia collegato».

 

 

«Mio zio mi teneva tra le braccia spesso affinché controllassi quando era in moviola
(è il nome di un sistema elettromeccanico utilizzato per la visione rallentata di filmati, n.d.r.), davanti alla mitica Catozzo  (un tipo di giuntatrice specifica del montaggio dei film inventata da Leo Catozzo e utilizzata dai montatori cinematografici di tutto il mondo, fino all’avvento del montaggio digitale, n.d.r.). Ho da sempre avuto questa “febbre”. In Figli del Set ho voluto la stessa segretaria di edizione di Django. È stato il suo ultimo lavoro nel cinema, siamo ancora amiche».

 

ph. Giancarlo Fiori

 

«Del Cinema del passato mi manca tutto. Dalle persone al modo di lavorare e di filmare… il digitale ha tante convenienze, opportunità, agevolazioni, però la pellicola aveva un altro sapore, c’erano macchine enormi che venivano sollevate da tre macchinisti. Era tutto più artigianale, con le scatole delle pizze si facevano i portaceneri! (ride, n.d.r.). Adesso è tutto digitale. Nell’ultimo corto che ho realizzato abbiamo girato in una stanza dove c’erano i monitor, apparecchi sofisticati. Non si vive il set. Un tempo era un Cinema di tipo artigianale, stavamo tutti insieme».

 

 

Quali sono i valori più grandi che ha ereditato da suo padre e da suo zio, che le restano e che porta sempre con sé?

«L’onestà sempre, in tutto, il rispetto verso gli altri e verso il lavoro degli altri. Il riguardo per se stessi, per la famiglia, per gli amici. Zio aveva un grande rispetto per l’amicizia. Zeffirelli e Tosi erano suoi amici. 

Valori rarissimi in quest’epoca…

Purtroppo sì, ma io dico sempre che preferisco “mangiare pane e cipolle”, ma rimanere pulita, corretta, onesta. Fino all’ultimo».

Una storia immensa, quella dei Bolognini, raccontata in Compagni d’arte, il nuovo docufilm diretto da Carlotta Bolognini e Fabio Luigi Lionello presentato a Roma lo scorso ottobre. Al centro della pellicola i giganti del Cinema italiano, di cui non si deve perdere memoria: da Mauro e Manolo Bolognini a Franco Zeffirelli, da Anna Allegri a Piero Tosi.

 

 

Venerdì 31 gennaio nella Sala della Regina di Montecitorio si è svolta la IV edizione del Premio Bolognini, alla presenza di tanti grandi professionisti del Cinema. «In occasione del centenario del mio papà – ha spiegato Carlotta Bolognini – ho voluto accanto a me un suo amico con il quale ha fatto cinque film: Franco Nero».

«Ho dei bellissimi ricordi di tuo padre – ha detto l’attore Franco Nero – ricordo in particolare la sua voce. Gli dicevo “Ma tu devi fare il doppiatore!”. Lui è stato il produttore del vero Django, nel 1966».

 

ph. Luciana Satta

***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e dell’autrice. Le foto private della famiglia Bolognini sono state gentilmente concesse da Carlotta Bolognini per il mio saggio L’Arte di essere Figli.

https://www.carlodelfinoeditore.it/scheda-titolo.aspx?isbn=9788893613040

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Ad occhi chiusi per sentire il suono dell’ANIMA

NICOLA AGUS

di Luciana Satta

ph. Nicola Castangia

Era un giorno di fine estate del 2019 quando il suo “Viaggio intorno al mondo in ottanta strumenti”, spettacolo di musica e immagini da lui ideato, è arrivato alla trentaseiesima edizione di Voci d’Europa, a Porto Torres, uno dei festival più longevi di musiche polifoniche della Sardegna. Lì ho conosciuto l’energia di Nicola Agus, il suo mondo straordinario di compositore e di polistrumentista e quell’universo affascinante di suoni e di strumenti musicali, che aprono un varco nell’immaginazione e dal Mediterraneo ti fanno volare nelle aree nordiche e celtiche, dalla Spagna alla Scozia e ancora dall’America giungere fino in Cina. Chiudi gli occhi e ti ritrovi in un’altra dimensione. In spazi sconfinati. È un percorso in cui le sonorità della Sardegna “svestono gli abiti della tradizione ed entrano in un mondo di suoni moderni e contemporanei, in cui lo strumento è valorizzato in ogni suo aspetto tecnico e sonoro”. È vento che soffia, o mare in tempesta, è il respiro dell’infinito. Il suono dell’Anima. Dall’Occidente all’Oriente. Dalla Gaita de Cuerno, strumento spagnolo dell’Andalucia all’UDU, lo strumento a percussione delle donne nigeriane, dal Shakuhachi Flute, al Koto, l’arpa giapponese, dall’Hichiriki ad ancia doppia, all’Eram, lo strumento inventato quattro anni fa da Nicola Agus con le canne portate da una mareggiata improvvisa fino al Poetto di Cagliari… «A me interessa – spiega – che la mia musica conduca in punti lontani dell’anima, la devi sentire sulla pelle. Ti devi lasciare trasportare, voglio che sia un’esperienza, altrimenti non avrebbe senso. La posso suonare ovunque, anche chiuso in una stanza, ma la gente la percepisce, viaggia… poi quando a fine concerto qualcuno si avvicina e mi dice: “Ah, mi hai portato lontano…” io sono felice. Il significato è questo: con me bisogna lasciare fluire, farsi trasportare. E poi, siccome viaggiare costa (ride, n.d.r.), almeno con la mia musica sognano di essere in un luogo lontano nell’immaginario, sentono una cornamusa e attraverso quel suono magari immaginano di trovarsi in Irlanda, o in Scozia».

ph. Nicola Castangia

Il tuo percorso nella musica ha origine molto tempo fa, quando eri piccolo. Cosa ricordi di quando eri bambino e cosa ti ha affascinato del mondo dei suoni?

«Da bambino ero attratto dai suoni, ero curioso, avevo voglia di capire. Ero irrequieto, non stavo mai fermo, mai tranquillo. Ho messo alla prova i nervi dei miei genitori! Ma ho manifestato e capito da subito che la musica era la mia vita. Giocavo… con le costruzioni non creavo case, ma strumenti musicali, come i flauti, avevo già questa propensione. A casa c’erano gli strumenti classici, perché gli zii si dilettavano a suonarli, a mio padre piaceva la chitarra, non era eccelso, ma gli piaceva canticchiare a modo suo, credeva di essere bravo. Ma la mia passione non è nata dall’osservazione. Per me è qualcosa di innato, sei affascinato da un suono e lo sviluppi. In realtà tutti noi già quando siamo nel ventre materno percepiamo i suoni che provengono dall’esterno. Appartengono alla nostra memoria. La voce della madre poi tranquillizza il bambino e riesce a farlo addormentare. Non è la ninnananna in sé che lo calma, ma è la voce che è abituato a sentire. Assorbiamo tutti i suoni, è una curiosità che ci appartiene da sempre. La musica ha un ruolo importante. Poi, logicamente, un conto è essere curiosi, un conto è cercare di riprodurre quei suoni e farne una professione. Quello arriva con il tempo e con lo studio e l’approfondimento. Per me la musica è linguaggio, è la mia seconda lingua. È una grande forma di comunicazione, un modo per lanciare un messaggio. Il mio obiettivo è di farti trovare in un’altra dimensione e “staccare” la mente da tutto. Già nelle tribù africane era una forma di comunicazione molto potente, perché la voce non poteva essere percepita a grandi distanze, mentre il suono dei tamburi raggiungeva chilometri di distanza. La musica nasce dove l’uomo non può arrivare».

ph. Nicola Castangia

I tuoi strumenti provengono da tutto il mondo, ma molti sono da te costruiti. Dove li hai acquistati o come li recuperi?

Questa degli strumenti musicali è una “malattia”. Viviamo il mondo come se fosse a nostra immagine e somiglianza, ma all’interno del nostro sistema non siamo soli, arrivano tante influenze da parte di diverse culture. La sardità che diventa “egocentrismo” non mi appartiene e non mi interessa, non mi sento in un ombelico del mondo da cui tutto ha origine, dove tutto nasce e si sviluppa. Io guardo oltre il mare. Prendere strumenti da ogni parte del mondo deriva da una mia ricerca musicale, ma anche dalla domanda: “Se fossi nato lì come avrei utilizzato questo strumento?”. Tutto nasce dalla mia curiosità, mi piace vedere come in parti diverse del mondo esistano strumenti anche molto simili tra loro. Nella Via della Seta, ad esempio, ci sono tanti strumenti affini, dal mondo arabo sino all’Oriente. Si presentano in forme diverse ma la timbrica è la stessa e lo stesso è il principio. Non mi fermo solo a questo tipo di ricerca, mi piace crearne anche di nuovi, strumenti che non esistono, con forme differenti, ma anche apparentemente banali: dal suono che posso ricavare da una bottiglia d’acqua o da quella sonorità che posso creare dal nulla. Tutto viene naturale, ma bisogna anche studiare. La ricerca va in una determinata direzione se c’è dietro uno studio. Altrimenti stai creando ponti che non hanno un significato».

Sei entrato in contatto con qualcuno che ti ha insegnato qualcosa per quanto riguarda anche la costruzione degli strumenti?

«No, perché ognuno ha un suo pensiero. Mi hanno sempre appassionato la fisica e la chimica, che sono importanti per la musica. La fisicità dello strumento ne determina anche la timbrica, la chimica e il tipo di sostanze che possono entrare e possono danneggiare gli strumenti, come gli agenti atmosferici. Oppure se, ad esempio, se utilizzo la plastica in una certa modo, posso ottenere lo stesso suono prodotto da una chitarra in legno. Sono modi differenti di vedere le cose».

Come nasce la tua musica, da quali evocazioni?

«Innanzitutto il mio è un filone “New Age Spiritual Colossal”, rientra nel mondo della Cinematografia e appartiene al mondo Contemporaneo, olistico documentaristico. “Olistico”, perché è una musica che induce al rilassamento, da non confondere con la “musica rilassante per massaggi”, perché la mia non è lineare, cambia, accelera, rallenta. Tende a riportare l’uomo alle sue origini naturali, affinché risvegli in lui una forma di spiritualità e non sia concentrato solo sul progresso e sul denaro».

ph. Nicola Castangia

Tu sei stato fuori, hai viaggiato… come mai poi hai scelto di ritornare in Sardegna?

In realtà non ho scelto di rientrare in Sardegna. Si sono combinate alcune situazioni per cui mi sono arrivate delle proposte dalla Regione… ma penso che le mie idee fossero troppo innovative, io non sono un suonatore di launeddas tradizionale, sono un musicista che utilizza le launeddas in maniera diversa. La mia è una ricerca innovativa, dove lo strumento prende forma come se fosse una chitarra elettrica, o una cornamusa, o un sax, o un’armonica a bocca. Questo a volte fa storcere il naso ai tradizionalisti. Ma non è che io rifiuti la Sardegna… noi nasciamo liberi, in una terra chiamata “mondo”. A me interessa stare nel mondo. La Sardegna ce l’hai già dentro, ma io sono nato nell’ottantadue e ho avuto la possibilità di sperimentare e di capire perché la musica si è evoluta in una determinata maniera.

Arte, musica e riciclo. Tra i tanti strumenti che hai ideato, con le canne del Poetto tempo fa hai creato uno strumento che hai chiamato “Eram”…

Nel 2019 in seguito ad una mareggiata la spiaggia del Poetto fu completamente invasa dalle canne. È stato un forte momento di aggregazione, i bambini giocavano con le canne come se non le avessero mai viste. Ero rimasto molto colpito, perché era la prima volta che non ero stato io a cercarle per costruire i miei strumenti, ma loro erano giunte fino a me. Avevo voluto rendere omaggio a quel momento particolare, pensando anche al fenomeno dell’immigrazione, perché le canne spiaggiate ricordavano anche i corpi delle vittime portate dal mare, che oggi purtroppo è un cimitero a cielo aperto. Allora ho pensato di creare l’unico strumento che potesse parlare di quello che sta vivendo il mare, una sorta di strumento a corda… la corda può simulare le onde del mare, perché quando la fai vibrare produce un’onda e il suono viene propagato. Ho deciso di sperimentare e di creare uno strumento a corda utilizzando la canna e come tastiera un rostro, la spada del pesce spada e ho realizzato così uno strumento del mare… in seguito ne ho creato tantissimi.

Mi piace anche far cantare la voce dell’acqua utilizzando una semplice bottiglietta di acqua

naturale.

Sei anche autore delle musiche de “I venerdì della storia – Le bugie” dell’attore e autore Gianluca Medas, voce narrante dello spettacolo. In questo caso come nascono le tue composizioni per questo appuntamento alla manifattura Tabacchi di Cagliari?

Lì è un altro lavoro sull’improvvisazione diretta, in simbiosi con l’artista. Non ci sono prove. È fatto tutto sul momento e a me piace perché spazio e posso giocarmela sempre in maniera diversa. Misteri irrisolti e strumenti diversi, e ogni volta musiche e sensazioni nuove.

Ph. Nicola Castangia

Licia Colò ti ha chiamato diverse volte nelle sue trasmissioni. Sei stato invitato a portare la tua musica nello studio di “Il mondo insieme”, proprio per quella tua capacità di riuscire a fare suonare qualsiasi oggetto della quotidianità e ovviamente per i tuoi strumenti musicali dedicati ai vari paesi del mondo. Come è stata questa esperienza?

Inizialmente mi hanno invitato in trasmissione per suonare la carta e altri oggetti semplici e comuni. È stata una bella esperienza, sono stati gentilissimi, ma prevalentemente cercavano qualcosa che potesse stupire… suonare un pezzo di carta, o il vetro o un uovo magari è una forma spettacolare che colpisce maggiormente in tv. Poi, lei (Licia Colò) era rimasta colpita dall’Eram, perché unisce alla ricerca sonora una riflessione più profonda sull’emigrazione. Quando ho avuto la possibilità di suonare l’Eram ho potuto dare un senso più profondo e strutturato a ciò che voglio esprimere. È stata una pubblicità positiva e poi è una strada tutto da costruire. Io credo che non bisogna restare statici, ma perseverare e migliorare, sempre con umiltà. Io non suono esclusivamente per esibirmi in concerto, suono perché amo la musica. La vivo con umiltà e spensieratezza. Se il pubblico viene, bene, altrimenti suono lo stesso.

***Questo testo e gli scatti non possono essere riprodotti, senza l’autorizzazione dell’autrice e del fotografo, che ne detengono i diritti. Il testo e il materiale fotografico sono apparsi sulla rivista Iod (numero di settembre 2023).

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TONI SERVILLO L’incanto della Notte dei poeti

A Nora Toni Servillo legge Grazia Deledda

Un viaggio tra le righe e i versi della scrittrice Premio Nobel per la Letteratura

Toni Servillo legge Grazia Deledda (ph. Luciana Satta)

Sarà quello scenario così unico in Sardegna, con la sua torre che dalla cima del promontorio domina l’antica città di Nora e il mare intorno è una cornice impressionista. Sarà il vento salino che ti accarezza la pelle e la luce del tramonto che ti illumina gli occhi. Sarà l’incanto del Teatro romano, che si apre alla vista tra le rovine dell’antica civiltà fenicio punica, e poi romana. Sarà che La Notte dei poeti del CEDAC festeggia quarant’anni e che stasera uno dei più grandi attori italiani legge Grazia Deledda. Sarà, ma questa è una serata imperdibile. Qui oggi si respira arte. Qui, dove il tempo è sospeso. Silenzio, parlano i poeti.

“Il filosofo ammonisce: se tuo figlio scrive versi correggilo e mandalo per la strada dei monti.
Se lo trovi nella poesia la seconda volta, puniscilo ancora.
Se va per la terza volta, lascialo in pace perché è un poeta”.

(Toni Servillo legge grazia deledda al teatro romano di nora)
Toni Servillo legge Grazia Deledda (Videoclip di Luciana Satta)
La XL edizione de “La Notte dei poeti del CEDAC (ph. Luciana Satta)
(ph. Anna Brotzu)
(ph. Luciana Satta)

Vi segnalo i prossimi appuntamenti:

Il cartellone

Il XL Festival “La Notte dei Poeti” è organizzato dal CeDAC / Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo dal Vivo in Sardegna con il patrocinio e il sostegno del MiC / Ministero della Cultura, dell’Assessorato della Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport della Regione Autonoma della Sardegna e del Comune di Pula con il contributo della Fondazione di Sardegna e il prezioso apporto di Sardinia Ferries, che ospita artisti e compagnie sulle sue navi.

***un ringraziamento particolare alla cara collega Anna Brotzu, sempre preziosa.

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ENNIO C’era una volta la nostra colonna sonora

“Ennio: The Maestro” di Giuseppe Tornatore

Quella musica che ti costringe a guardare dentro te stesso

di Luciana Satta

Un tuffo nella memoria. Quello che siamo stati, quello che siamo e chi saremo poi…

È “C’era una volta in America”, il film diretto da Sergio Leone e interpretato da Robert De Niro, Elizabeth McGovern e James Woods. È il 1984. Scorrono le scene di David “Noodles” Aaronson, i suoi amici e le loro vicissitudini tra Manhattan e e New York. Non esiste al mondo qualcosa di simile a quella nostalgia. Perché quella musica evoca immagini.

Non importa se ancora non sei venuto al mondo, se tu sei del 1975 e quel film storico diretto da Sergio Leone è del 1964: quel fischio inconfondibile ti resterà addosso, sotto pelle. Basterà solo un accenno alla colonna sonora e “Per un pugno di dollari” entrerà prepotentemente nella tua testa, ti verrà a cercare, da lì al resto dei tuoi giorni non ti lascerà più. “Perché – diceva lui – La musica esige che prima si guardi dentro se stessi, poi che si esprima quanto elaborato nella partitura e nell’esecuzione”.

Morricone ti costringe a guardare dentro te stesso e il film di Tornatore ti scava dentro. Quando i titoli di coda scorrono davanti ai tuoi occhi, li vedi lì tutti insieme tutti i suoi figli: “Il buono, il brutto e il cattivo“, “Uccellacci e Uccellini” , “C’era una volta il West“, “Novecento“, “Gli Intoccabili“, “Nuovo Cinema Paradiso“… “Nuovo Cinema Paradiso“… “Love Theme,” il tema d’amore, la mente vaga. Ogni musica, ogni nota, ti riporta a un profumo, a un’estate, a un paesaggio sconfinato bruciato dal sole, all’eclissi di luna. È la magia del cinema, quando nel buio della sala quella commistione indissolubile di immagini e suoni ti rapisce e ti porta lontano.

Così Ennio Morricone entra nella tua vita e non la lascia più. Da Gianni Morandi a Bruce Springsteen, da Clint Eastwood a Carlo Verdone, a Quentin Tarantino. Tutti concordi nel riconoscere che Morricone sia stato un precursore, “l’inventore di una nuova forma espressiva”. Nessuno più di lui ha sfidato le convenzioni per conquistare a pieno la sua indipendenza artistica e umana. Non si è arreso di fronte a quel bivio che lo pose di fronte a quella che all’inizio era sembrata una scelta necessaria tra la purezza musicale, quella che il suo maestro Goffredo Petrassi ricercava negli allievi, e quella prepotente forza creativa così fuori dagli schemi per quell’epoca e vissuta quasi come un senso di colpa da Ennio. Ma non si possono voltare le spalle alla libertà. E il vero artista è libero.

Eppure l’America non fu generosa con lui, fino a quando nel 2007 è costretta finalmente a inchinarsi di fronte al genio. Così Ennio Morricone stringe forte finalmente ciò che tante volte aveva appena sfiorato ma che da tempo ormai lontano gli spettava. Arriva l’Oscar alla carriera.

Difficile che qualcuno non conosca la sua storia. Per questo bisogna andare al cinema a vedere “Ennio: The Maestro”. di Giuseppe Tornatore. Non è solo la biografia di una leggenda, del compositore, direttore d’orchestra e arrangiatore, di uno dei più grandi compositori per il cinema di tutti i tempi. È un po’ come la Divina Commedia di Dante. Ennio ha raccontato in musica la storia di tutti noi.

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