“Dall’Ucraina per danzare sulle note della libertà”

L’étoile Olga Golytsia

ph. Ksenia Orlova

Tutte le più grandi Ètoile del Mondo hanno danzato almeno una volta su uno dei brani del repertorio classico tra i più celebri e noti della Storia della danza: The Dying Swan, La morte del cigno, con quell’inconfondibile movimento delle gambe basato sul “pas de bourèe suivi” e la precisione nelle movenze delle braccia e delle mani. Ma quelle di Olga Golytsia, prima ballerina dell’Ukrainian Classical Ballet, non sono braccia. Non sono mani. Sono ali. Si alza il sipario. Vederla danzare è dimenticare e ricordare al tempo stesso. Perché con quelle stesse gambe Olga è dovuta fuggire dalla sua terra, l’Ucraina, e con quelle braccia ha protetto sotto le bombe suo figlio undicenne per salvarsi dalla Guerra e andare incontro al suo sogno di libertà. Ha trovato rifugio dai suoi cari, a Francoforte. «Quando è iniziata la Guerra non sapevo affatto cosa fare… ho pensato: “Dove sarà il rifugio antiaereo più vicino?” “Sarà meglio lasciare l’Ucraina o restare?”. Il padre di mio figlio vive a Francoforte. Chiamava costantemente e chiedeva di venire in Germania. Ma all’inizio mi sembrava che la Guerra non potesse essere vera e credevo che tutto sarebbe finito presto. I bombardamenti erano continui. All’inizio stavamo sempre chiusi nel bagno, poi, quando ho capito che non era un posto sicuro, siamo usciti e abbiamo passato la notte nel parcheggio. Due settimane dopo ho deciso di andarmene. Vivo in un quartiere di Kiev, non lontano da Irpin e Bucha… ero molto spaventata. Il nostro viaggio è durato quattro giorni! A Kiev siamo riusciti a prendere solo il terzo treno… c’era molta gente! Erano tutti inorriditi e presi dal panico. Gli aeroporti sono stati bombardati il ​​primo giorno. Abbiamo viaggiato in treno e in autobus fino a Francoforte».

ph. Ksenia Orlova

Olga Golytsia è arrivata poi in Italia con l’Ukrainian Classical Ballet grazie alla rete di solidarietà che ha coinvolto molti Teatri. In Sardegna ha aperto, insieme alle stelle del balletto ucraino, la stagione della Grande Danza del CeDac (l’Ukrainian Classical Ballet raccoglie artisti delle Compagnie ucraine più prestigiose: dall’Opera nazionale al Teatro Taras Shevchenko, dal Teatro dell’Opera e Balletto di Odessa, al Teatro Accademico di Kharkiv fino all’Opera Nazionale di Lviv, n.d.r.). Protagonisti della straordinaria esibizione, al Teatro Comunale di Sassari e al Massimo di Cagliari, i grandi capolavori della storia del balletto, tra spettacolari assoli e passi a due. Al momento dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, la Compagnia era in tournée in Francia. Il tour italiano non era in programma, è stato organizzato grazie all’impegno del teatro comunale di Ferrara.

«Quando è iniziata la guerra in Ucraina non ho pensato affatto al balletto. Pensavo solo a me e a mio figlio, a come sopravvivere… quando, dopo un mese e mezzo di Guerra, mi è stato offerto di andare in tournée, non capivo come fosse possibile! Ma poi ho pensato: “Cosa posso fare di buono per l’Ucraina? Posso aiutare in qualche modo?”. Ho capito come questa potesse essere una meravigliosa opportunità per presentare la cultura ucraina in Italia, per parlare degli orrori della Guerra e di ciò che ho vissuto personalmente. Spero che questi tour abbiano supportato almeno un po’ il mio Paese». Nel mese di marzo 2023 al Comunale di Ferrara è stato proiettato un documentario realizzato da Gianluca Lul e Angela Onorati e prodotto dallo stesso Teatro Comunale nell’aprile 2022, a pochi giorni dallo scoppio della Guerra, durante la presenza della Compagnia ucraina a Ferrara.  Attraverso le parole, gli occhi e l’arte dei ballerini dell’Ukrainian Classical Ballet il documento racconta l’inizio della Guerra.

ph. Andrey Stanko

Come è nato il tuo amore per la danza? Che cosa sognavi da piccola, desideravi diventare una ballerina?

«Avevo cinque anni quando mia madre mi portò in una Scuola di danza per la Propedeutica. All’inizio non mi piaceva molto. Era noioso e doloroso. Ma gli insegnanti dissero che avevo caratteristiche fisiche adatte al balletto. Perciò mia madre ha continuato a portarmi in Studio, anche quando tutti i miei amici hanno smesso di studiare. Poi, all’età di sette anni, sono entrata alla Pavel Virsky Ensemble School, un ensemble di danza ucraino (Pavlo Pavlovych Virsky, PAU, è stato un ballerino sovietico e ucraino, maestro di balletto, coreografo e fondatore del Pavlo Virsky Ukrainian National Folk Dance Ensemble, il cui lavoro nella danza ucraina è stato rivoluzionario e ha influenzato generazioni di ballerini, n.d.r.). Sono persino andata in tournée… e mi è piaciuta molto! A dieci anni sono entrata al Kyiv State Ballet College. Lì hanno instillato in me l’amore per la danza classica. Quando ero una ragazzina, non mi piaceva molto fare balletto. Era un desiderio di mia madre. Ma col tempo mi sono innamorata della mia professione! Sono molto grata a mia madre per avermi incoraggiata a diventare una ballerina».

ph. Ksenia Orlova

Chi sono stati i tuoi maestri di riferimento e le figure del mondo della danza che ti hanno maggiormente influenzata?

«Quando ero bambina non avevo idoli nel balletto. Non mi sono mai ispirata a nessuna. Volevo essere unica e diversa da chiunque altro. Nutro riconoscenza verso i miei insegnanti del College e del teatro, hanno lavorato molto con me. A scuola insegnavano l’accademismo e a teatro la mia insegnante Eleonora Steblyak mi ha aiutato ad aprirmi come attrice. Finora ho lavorato con attenzione e precisione su ogni gesto e movimento».

Hai utilizzato la tecnica dell’osservazione per raggiungere una tale perfezione e grazia?

«Questo pezzo richiede una preparazione speciale. Sembra facile, ma non lo è affatto. La mia maestra mi ha chiesto di andare al lago a guardare i cigni: come nuotano, come si muovono… ci sono tante versioni di questo numero! Io e il mio insegnante abbiamo realizzato Il lago dei Cigni adattandolo alle mie capacità. Lavoriamo sulle mie mani da molto tempo! È la cosa più importante. Abbiamo anche lavorato molto sull’immagine. Cerco di trasmettere la voglia di vivere e la lotta contro l’inevitabile morte».

ph. Oleksandra Zlunitsyna

Che rapporti hai con gli altri ballerini della compagnia? C’è amicizia tra voi?

«C’è un’atmosfera amichevole a teatro. Soprattutto tutti hanno iniziato a sostenersi a vicenda durante la Guerra. Sono molto contenta di aver deciso di tornare a Kiev e all’Opera Nazionale dell’Ucraina».

Che cosa rappresenta la danza per te?

«Amo il balletto, la danza è la mia vita. Non posso mangiare quello che voglio. Non faccio molte altre cose che possono fare persone che svolgono altre professioni. Ma non me ne pento… il lavoro mi porta piacere e gioia! Spero che il pubblico vada via dalle le mie esibizioni con nuove emozioni».

ph. Katerina Kornienko

***l’intervista a Olga Golytsia è stata tradotta dalla lingua Inglese all’Italiano.

***Le foto sono state concesse alla giornalista Luciana Satta dalla sign.ra Olga Golytsia, che ha autorizzato la pubblicazione per lo speciale a lei dedicato. Questo testo e gli scatti non possono essere riprodotti né pubblicati, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autrice che ne detiene i diritti. Il testo e il materiale fotografico sono apparsi sulla rivista Iod (numero di aprile 2023).

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NURAGUS, nel cuore del Sarcidano

Terra di vino e di racconti che sanno di vita e di umanità

di Luciana Satta

L’impegno a custodire nel tempo la memoria di una lunga storia. Una storia che affonda le radici nel passato e che ha segnato la via del ritorno: all’isola, alla terra, alle vigne e al lavoro delle mani che le curano quotidianamente. Nella linea di un cerchio che si chiude è la spirale di un tralcio di vite. Un segno che apre alla ciclicità e all’incessante movimento del vivere e del generare”.

C’è un filo sottile che collega le persone che credono ancora nella meraviglia. Nella bellezza del restare umani. A volte le incontri per caso. Sono anime che lasciano il segno, perché hanno gli occhi che sorridono. Ho conosciuto Stefano Soi nel 2016 e oggi vi racconto la storia del suo sogno diventato realtà nel cuore del Sarcidano, vent’anni orsono. È l’Agricola Soi, a Nuragus. Il rispetto per la tutela della tradizione vitivinicola e la sostenibilità ne sono i valori fondanti. «Alla base c’è l’obiettivo di lasciare il mondo migliore (così come si diceva una volta) rispetto a come l’abbiamo trovato – mi spiega Stefano -. È una scelta etica di coinvolgimento profondo, non un atteggiamento “modaiolo”. Da me ci sono ancora i ricci e i porcospini, le volpi, le api e le vespe: tutti gli animali che dobbiamo in qualche modo proteggere».

Stefano Soi nelle sue vigne. (ph. V. Sanna)

Tanto impegno, che ha portato i vini Agricola Soi a ottenere riconoscimenti importanti, dal Gambero Rosso dell’Oscar 2017, ai due bicchieri nelle edizioni 2018 e 2019. Inoltre tutti i vini Soi sono inseriti con tre stelle nella Guida Vini Buoni d’Italia del Touring e tra le dieci eccellenze della Sardegna nella selezione a parte tra le Guide di “La Repubblica.

«Mio nonno è stato uno dei primi enologi di scuola sarda – racconta –. Figlio di un notaio, aveva intrapreso una strada completamente diversa, perché si era diplomato in Enologia nel 1900. Era un proprietario terriero, ma scelse di lavorare come agronomo per quasi quarant’anni nella colonia penale del Sarcidano, per concludere la sua carriera in quella di Castiadas. Io l’ho visto relativamente poche volte nella vita, perché era già molto grande, dunque il legame che mi ha portato in maniera viscerale e imprescindibile a Nuragus non è nato da un’eredità diretta, ma da una trasmissione d’amore data soprattutto dai racconti di mio padre: ogni fine settimana ci caricava sul suo maggiolino bianco e ci portava a visitare questi luoghi. Tutti i suoi racconti affascinanti mi hanno infarcito di voglia di approfondire il rapporto con questa zona. Ho frequentato il liceo classico a Cagliari, poi Ingegneria, senza grande entusiasmo. Non la sentivo la mia vera strada. Un’estate andai a lavorare in Alto Adige e lì ci fu la classica “folgorazione”, perché mi sono sentito in un ambiente più allegro, più disincantato e più creativo, che era l’ambiente dell’architettura. Era quello che avrei voluto fare. Quindi, a ventidue anni, mi trasferii a Venezia. Abitavo a Padova e viaggiavo con il treno, ho dovuto lavorare per mantenermi».

«Con la campagna avevo solo un rapporto vissuto attraverso la narrazione, era un legame acquisito dai racconti di mio padre. La vera conoscenza è arrivata da mio zio Gino, il fratello di mia mamma. Aveva una tenuta in Toscana, dove mi trasferivo ogni estate, a fine anno scolastico. Lì da ragazzino usavo il trattore, ma la passione per questo prodotto meraviglioso, l’uva che veniva trasformata in vino, mi ha intrigato al punto che dicevo a tutti che da grande avrei voluto fare questo lavoro. Quando mio zio è mancato ho giurato a me stesso che prima o poi avrei voluto ripercorrere le sue orme, avere un piccolo possedimento mio».

Il tuo progetto nasce da un obiettivo: trasformare il concetto di “agricoltura” in “agricultura”? Cosa significa?

«Ci sono lavori che nessuno vuole intraprendere più perché si pensa siano di “categoria inferiore”. Inoltre nessuno si impegna seriamente anche dal punto di vista economico, a impiegare risorse importanti. Può sembrare una cosa quasi ovvia, ma spesso l’agricoltura viene vista come un lavoro di livello “basso”. Ci sono invece figure specialistiche (come il potatore), che potrebbero guadagnare e vivere molto bene tutto l’anno. Il lavoro agricolo ti dà innanzitutto la possibilità di stare all’aria aperta. Nel periodo della pandemia molti di noi hanno riscoperto il piacere di non sentirsi confinati a casa. Noi non abbiamo subito neanche per un giorno questo oltraggio, semplicemente perché avevamo la terra. Eravamo in qualche modo giustificati: potevamo andare in campagna e io quando sono nella mia terra mi sento il re del mondo. Proprio in queste situazioni mi sono domandato più volte perché il lavoro agricolo debba essere considerato come un lavoro di secondo ordine o di bassa qualifica. Questo mi ha sempre urtato».

Agricola Soi. Le vigne. (ph. V. Sanna)

«Mi sono reso conto che negli ultimi anni tutti coloro che si sono avvicinati all’agricoltura sono spesso “agricoltori di ritorno”. È un concetto che aveva sottolineato l’antropologa Alessandra Guigoni: gli “agricoltori di ritorno” sono persone che, dopo aver conseguito una laurea o un corso formativo qualificato, a un certo punto hanno pensato che le loro mani dovessero essere asservite anche a svolgere un qualcosa di pratico, di materiale. Avevano perso l’uso delle mani, dei piedi, del camminare, che non significa soltanto muoversi, o spostarsi. Ho parlato dunque spesso del concetto di “agricultura”: il campo, la vigna, la cantina, il caseificio, il settore dell’allevamento, delle olive, luoghi in cui materialmente avviene il passaggio dalla produzione, dalla creazione del prodotto agricolo, dell’uva, o del latte, o dell’olio (dunque la cantina, o il frantoio, o l’ovile) potessero diventare luoghi di cultura. Fenoglio definiva la campagna “luogo della parola”, che poi genera cultura, letteratura».

«Mi sono laureato in Architettura e continuo a fare l’Architetto, ma anche il contadino, il vignaiolo. So cosa voglia dire concimare e usare gli strumenti agricoli. Ne sentivo proprio l’esigenza. La campagna è vista (nel migliore dei casi) in modo idilliaco, ma spesso di idilliaco non c’è niente, è un lavoro legato alla produzione di beni primari, senza i quali non ci nutriremmo e non potremmo sopravvivere.

Da quando il vino ha assunto il ruolo di ospite primario nelle tavole, è diventato un prodotto che forse più di tanti altri è riuscito a coniugare questi due concetti di “agricoltura” e di “agricultura”, perché intorno al vino sono sorti movimenti, discorsi, e tutti coloro che si sono avvicinati al vino, da poeti come Rimbaud, Verlaine, lo hanno utilizzato come strumento per elevarsi, non per abbruttirsi, non per scendere in basso. Io ho provato a fare questo percorso, accogliendo le persone, semplicemente raccontando loro quello che è il nostro lavoro».

La Vendemmia 2020 – Video

«Dico con convinzione che mi sento quasi un “presidio territoriale”, perché quando sono arrivato a Nuragus le vigne stavano scomparendo, non c’era più nessuno che le coltivava, se non per fare un po’ di vinello per casa. Invece la vigna è economia e, se guidata in un contesto un po’ più ampio a livello regionale, può diventare un luogo da visitare, così come avviene con i musei. Le vigne del Chianti, del Salento, delle Langhe, sono diventate esempi di “cultura enogastronomica” e hanno offerto lo spunto per fare Festival. Penso “Collisioni”, a Barolo, e a tutti gli eventi che vengono organizzati periodicamente nel Chianti. La campagna è diventata un luogo reale dove ritrovarsi, perché abbiamo spazi ampi, perché non c’è il frastuono della città. Abbiamo la possibilità di pensare, di concentrarci di più. Spesso quando sono in campagna – tranne quando uso il trattore perché non riuscirei a sentire – metto le cuffiette e ascolto musica classica, jazz.

A mio avviso questo è il futuro vero dell’agricoltura: non soltanto luogo di produzione di beni primari, ma luogo di riflessione, di confronto tra il bene prodotto e i fruitori di questo bene che possono trovare un vantaggio più ampio unendo cultura e letteratura».

La tua attività è anche fulcro di incontri, da Mauro Corona e Erri De Luca, entrambi spiriti liberi. Come li hai conosciuti e che cosa avete in comune?

«Mauro è stato il primo con cui ho iniziato un rapporto di fratellanza. Ci chiamiamo “fratellini”, anche se lui è un po’ più grande di me. Ormai ci conosciamo da quasi venticinque anni e siamo diventati inseparabili. Non c’è stato un momento importante della nostra vita che non abbiamo condiviso insieme. Si cresce insieme, si invecchia insieme. Io ho la fortuna di ricevere spesso i suoi manoscritti prima che vengano pubblicati. Insieme a Mauro una sera di tanti anni fa sono andato a Belluno dove c’era una serata dedicata a Erri De Luca, del quale avevo letto solo il primo libro, perché lui non era ancora uno scrittore, era un operaio che cominciava a scrivere. È una persona con cui si è creato un rapporto incredibile, al punto che quando è morta sua mamma lui è venuto a casa mia, sentiva di rifugiarsi in un posto dove nessuno gli facesse domande, lo consolasse in maniera eccessiva, perché è una persona molto schiva, molto particolare. Sono stato più volte a casa sua, ho condiviso in parte anche le sue passioni politiche, anche se all’epoca non ci conoscevamo. Ho creduto che, in qualche modo, il mondo sarebbe potuto essere oggetto di miglioramento. Regolarmente – la gente non lo sa – Erri va in Ucraina per cercare di portare conforto. Sente l’esigenza di un ruolo sociale. Prima di conoscere Mauro Corona e Erri De Luca avevo già la casa piena di libri, da quando conosco loro ancora di più. Sono stato con Mauro una quindicina di volte al Premio Nonino, siamo stati al premio Strega, ho conosciuto grazie a lui quattro premi Nobel, siamo stati a Torino, a Francoforte, a Gavoi… ho fatto con loro delle cose meravigliose, fino a quando ho avuto il coraggio (e spesso questo mi manca) di separarmi da quel mondo. Abbiamo vissuto un periodo magico, però poi il richiamo della terra è stato forte, ci vediamo periodicamente e non più a livello settimanale, come accadeva prima. È un rapporto meraviglioso (sono citato anche nell’ultimo libro di Erri, Spizzichi e Bocconi, n.d.r.) e a volte Mauro mi ha usato come personaggio di qualche sua storia. È un rapporto che mi gratifica moltissimo, penso anche di non meritarlo, ma è andato così».

Stefano Soi con l’amico Erri De Luca

Ciò che ti ha spinto è la passione per l’edilizia biosostenibile. L’uso della pietra, il legno, l’acciaio e gli isolanti sostenibili come la lana di pecora e il sughero. Appartenenza e rispetto: è la tua filosofia. Che significato hanno queste parole per te? Come le applichi nella tua azienda, nel tuo modo di vivere?

«Ho sempre creduto molto nel recupero dei materiali. La cantina è stata costruita con questi principi: materiali che non fossero da smaltire, ma che, alla fine del loro percorso, fossero recuperabili. A Nuragus sono stato il primo, dopo sessant’anni, ad utilizzare la pietra come materiale da costruzione. Molti usavano i blocchetti, o altri materiali. Avendo studiato a Venezia, dove c’è un’attenzione particolare, mi sono specializzato e ovviamente, quando si è trattato di costruire la cantina, ho adottato i materiali tra i più puliti: l’isolamento è fatto con il sughero, i muri con Gasbeton (materiale completamente riciclabile). I muri hanno circa sessanta centimetri di spessore, quindi non serve usare tanto la climatizzazione, quanto l’intervento passivo del materiale che ti permette di non fare entrare il caldo o il freddo. Inoltre noi in vigna non usiamo diserbanti, i pali della vigna sono tutti in legno e quando marciscono vengono sostituiti. Hanno una loro motivazione di tipo sostenibile, oltre che estetica.

Un altro aspetto importante, che ci tengo sempre a sottolineare quando parlo della vigna, è che noi abbiamo seguito la tradizione di fare le vigne in aridocoltura. Prendono acqua quando piove, ma abbiamo lavorato con gli innesti sulle viti americane, che sono viti selvatiche (non abbiamo preso le barbatelle già pronte) e queste hanno approfondito le radici, hanno fatto sì che scendessero fino in fondo, quindi anche nelle annate più siccitose la nostra parete verde delle vigne è sempre rigogliosa. Quando abitui le viti ad andare a cercare l’umidità in fondo, loro lo fanno. In campagna i migliori pomodori, i migliori meloni e la migliore uva, viene sempre in luoghi dove l’acqua non viene utilizzata. I noti meloni in asciutto della Marmilla, ad esempio, non ricevono un goccio d’acqua e sono presidio slow food. Ho creduto che la natura non vada troppo manomessa. Se in Sardegna per secoli e secoli hanno fatto degli ottimi vini senza usare irrigazione, c’è un motivo. Questa è la mia filosofia».

«Mi piacerebbe che questo spazio, questa corte in pietra dove si svolge la mia attività, possa diventare un luogo non soltanto di vino ma di racconti. Vorrei utilizzare questo spazio per dire: “Apriamo una bottiglia, mangiamo qualcosa e però condividiamo con le persone che ancora credono in questo tipo di racconto e che non vogliono soltanto stare attaccati ai cellulari!”. Uso internet e i social network, è inevitabile, ma con parsimonia. Ci sono persone che invece vivono per raccontarsi sui social. Non voglio essere tutti i giorni presente e dire la mia su tutto, per carità! Lo faccio con un compito quasi sociale, adoro l’idea che qualche ragazzo possa trarre spunto dal mio lavoro. Sono felice quando qui arrivano i giovani, è successo con gli studenti dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo di Carlo Petrini».

L’evento “Il Tinello”, Agricola Soi Nuragus

«Continuo a pensare che in Sardegna non tutto sia perduto. Si tratta di parlare forse con cento persone, di queste quattro ti seguiranno e solo una effettivamente avrà successo, ma io credo che pian piano il nostro territorio stia cambiando, che si stia creando una rete di persone che vogliono restare a stretto contatto con la terra. Non mi interessa l’idea di muovermi per fare turismo, ma per scambiare idee, acquisirle e riportarle qui a Nuragus. La mia officina, il mio bacino deve restare qui, perché mi fa piacere che la gente arrivi e capisca che non è vero che la terra è un qualcosa “da sfigati”, ma è un posto meraviglioso dove si possono raccontare storie. È quello che facciamo quando organizziamo le serate del “Tinello”. A me piace molto che venga raccontato quello che si mangiava un tempo. Da me si fanno i piatti che hanno le radici nella nostra cucina storica. Portare la gente qui, fare trascorrere loro una bella serata con musica dal vivo, raccontare, leggere un brano. Io ho scoperto nella gente che frequenta questi eventi, che preferisco chiamare “accadimenti”, una luce negli occhi. Qui la gente ha il piacere di venire e non se ne andrebbe più. Dobbiamo farlo vivere questo interno della Sardegna. Perché è meraviglioso. Credo che qui si possa vivere, non soltanto sopravvivere».

Il Tinello – Video

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***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e l’autorizzazione dell’autrice.

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BOB MARONGIU Un vortice di gioia e voglia di vivere

di Luciana Satta

«Ho sempre amato l’approccio alla vita concreto e allo stesso tempo sognante. Sono inclassificabile. Mi sento un artista in movimento». Parlare con Bob Marongiu è come entrare in un fiume in piena. Una corrente piena di parole, di idee, di sogni. Come gli occhi grandi dei suoi personaggi, che ti chiamano a giocare. Occhi che ti invitano a entrare nel quadro, a prenderli per mano e a tuffarsi nei colori . Il giallo, il rosso, l’azzurro. «L’espressionismo e il Fauvismo (https://it.wikipedia.org/wiki/Fauves) mi hanno influenzato, per l’uso dei colori: il mare verde, il cielo giallo e per la loro reinterpretazione della realtà attraverso lo stato d’animo – spiega -. Io sono positivo, quindi voglio rappresentare quel mio modo di sentire». Un vortice di gioia e di voglia di vivere.

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«Sono apprezzato da chi di arte “non capisce un tubo”, da chi nella sua vita non ha mai acquistato un quadro, da chi ha comprato una casa perché ha visto un mio dipinto all’interno, la mia arte è definita arte ai massimi livelli, o “non arte”. C’è chi li definisce commerciali, chi geniali, c’è chi mi reputa un artista a tutto tondo e chi mi percepisce come un paraculo. Ho anche dei clienti internazionali, che hanno i miei quadri a fianco ad artisti importanti. Io non saprei chi difendere dei due schieramenti, sono d’accordo. L’unica cosa per ingannare il tempo, a parte l’amore era la pittura. Mi diverte e concordo con chi dice che non siano opere d’arte e con chi afferma che siano dei capolavori».

«Ho preso un sogno e gli ho tracciato le misure. Mi sono seduto a progettarlo con le squadrette».

Non so bene cosa volessi fare esattamente nella vita. Diciamo che ero molto “confuso”. Ho affrontato anche la pittura con questa “incoscienza”. Amavo la storia dell’Arte, mi sono appassionato quando frequentavo il liceo. Poi ho iniziato ad andare per gallerie. “Divoravo” i quadri di Picasso, o di Mirò, volevo capire cosa si nascondesse dietro quelle pennellate. Quel filo sottilissimo che lega l’artista alla follia. Avevo questa confusione, mista alla joie de vivre, all’allegria. Volevo manifestare la mia felicità, attraverso il sole, il mare, i colori. Ho vissuto a Firenze, uscivo di casa e mi immergevo nella città».

Esorcizzare il dolore, l’arte di Bob Marongiu ha anche questo intento. «Ho vissuto gli anni Novanta e mi rivedevo moltissimo nel modo di esprimersi di Jovanotti, di Leonardo Pieraccioni (*il regista possiede due quadri di Bob, n.d.r.), ad esempio. Consapevoli dei propri limiti, ma avevano grande capacità di comunicare con la gente. Io non volevo essere empatico o accomodante con gli altri, ero e sono proprio così. Mi sono sempre sentito un po’ “figlio delle stelle”, una specie di extraterrestre».

«Partivo da Mordillo e da Jacovitti, poi sono arrivati i Simpson. L’occhio di Mordillo era un “puntino”, un po’ stralunato. Gli occhi per me devono invitare al gioco, quell’atteggiamento di volerti coinvolgere».

«Questa era la mia idea. E’ quasi un invito a entrare nel quadro. L’occhio nasce con quell’obiettivo, anche se prima di disegnare gli occhi, c’erano “le Margherite di Bob”. Rappresentavo scene di vita ideale, storie a lieto fine».

«Andavo sempre a comprare i colori e un giorno ho acquistato tutto l’espositore. Per strada, tra i palazzoni marroni, immaginavo le margherite colorate. Ho vissuto un’esperienza forte che mi ha messo in contatto con artisti internazionali. Ero alla ricerca di qualcosa… Ero sempre spinto dalla curiosità e dall’osare il più possibile. A me piace il silenzio totale, la tranquillità, o il demenziale. Mi piacciono gli opposti».

Perché «Non è Bob se non è provocatorio».

***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e dell’autrice. Tutte foto sono state gentilmente concesse da Bob Marongiu, che ha autorizzato la pubblicazione.

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MASSIMO MANCA I coltelli di Pattada orgoglio dell’Isola nel mondo

di Luciana Satta

Il martello che batte sull’incudine. La sega nastro che taglia il corno. La raspa e la lima per le rifiniture. Quelli che per tutti sono percepiti come “rumori”, per un maestro forgiatore come Massimo Manca si trasformano in suoni. Suoni familiari che ogni giorno, da vent’anni, lo accompagnano nel suo laboratorio alla ricerca della perfezione nella costruzione di un oggetto diventato l’orgoglio dell’Isola nel mondo: sa resolza, il coltello di Pattada (***A serramanico, la sua lama viene realizzata in diverse lunghezze).

 

Simbolo di identità culturale, con la sua tipica lama “a foglia di mirto”, sa resolza ha una storia secolare. «L’utilizzo dei materiali – spiega l’artigiano – era il corno, che si ricavava dal bestiame per realizzare i manici. Il metallo, perché in antichità in Sardegna erano presenti vari giacimenti ferrosi. Le prime attestazioni risalgono al 1800. Era il coltello che il pastore possedeva per qualsiasi esigenza. Ora è un oggetto prezioso, ma realizzato con materiali semplici. Quella è la base».

«La mia intenzione – prosegue – era (ed è) di trasformarlo, utilizzando anche materiali preziosi. Considera che uno dei miei coltelli ha 331 diamanti. Ci vuole il mercato giusto, non sono oggetti che espongo nel mio laboratorio, perché chi viene qui da me cerca il coltello classico. Chi viene a Pattada vuole il coltello tradizionale, cerca la Storia».

 

 

Una tradizione destinata all’estinzione, come tante – purtroppo. «È un’arte che si perderà, la mia attività inizia con me e finirà con me. Nessuno mi ha mai chiesto di imparare, molti artigiani e tradizioni si perderanno».

Lucio Dalla aveva, sulla sua scrivania, un coltello realizzato da Massimo Manca. «È ancora nel suo studio – racconta l’artista di Pattada – glielo regalò un cugino. Lo utilizzava come tagliacarte».

 

 

Da Montecarlo a Dubai, da Londra alla Corsica. Oggetto da collezione, orgoglio dell’Isola, il coltello di Massimo Manca è arrivato in diverse parti del mondo. Dalla famiglia reale del Principato di Monaco, dal principe arabo Hamdan Al Maktoum di Dubai. «Sette anni fa ho ottenuto una vetrina esclusiva nell’hotel Burj Al Arab. Avevo sempre la passione per questo hotel, è particolare perché ha una forma che riproduce una vela. Ho provato a realizzare un coltello, perché la vela ne ricorda la forma. Ho conosciuto un signore che trascorre le giornate in questo hotel e tramite lui sono stato contattato dal direttore».

 

 

«Sono stato invitato a Dubai e ho consegnato personalmente un coltello al direttore del Burj Al Arab; inoltre, attraverso l’interprete, gli è stata raccontata la storia ed è rimasto affascinato. Non sapeva come sdebitarsi per questo omaggio e mi ha proposto di realizzare lo stesso coltello, in formato più piccolo, poi mi ha chiesto di creare circa dodici pezzi, destinati alla vendita nelle boutique dell’hotel. Per un piccolo artigiano come me è stato un evento incredibile».

 

 

«Nel 2007 Ferrari organizzò un tour mondiale, con circa duecento Ferrari che hanno girato il mondo. Ogni Stato o regione interessato offriva un omaggio della propria tradizione. Sono arrivati in Sardegna, da Porto Cervo a Cagliari. Mi hanno scelto per realizzare i coltelli, sono gli unici al mondo con il marchio Ferrari».

 

 

Gli appassionati sono numerosi e alcuni coltelli sono delle rarità. «Vengono venduti ai collezionisti, molti vogliono acquistare il coltello di Pattada perché hanno sentito la storia. Molti lo acquistano per regalarlo. A Bolotana, ad esempio, ho creato dodici coltelli per uno sposo che ha voluto donarli come “bomboniera”. È un simbolo. Richiedono moltissimo anche i set da tavola. Poco prima dell’estate ho creato 120 pezzi per un ristorante in Corsica, un altro centinaio per l’Harris bar di Londra, altri pezzi ancora per un privato, sempre a Londra».

 

 

«Da quattro anni la mia attività sta andando tantissimo, grazie soprattutto ai sacrifici e all’impegno. Ho iniziato in un momento molto complicato della mia vita. Avevo alle spalle un lavoro andato male ma, grazie a Dio, ho sempre avuto una buona manualità e il lavoro manuale è sempre stato fondamentale per me ma, non essendo figlio di un artigiano, è stato difficilissimo. Lo considero “un dono”».

Un dono, per il quale Massimo Manca ringrazia soprattutto sua madre, che vent’anni fa lo ha incoraggiato a intraprendere quest’arte e a realizzare i suoi meravigliosi coltelli.

 

 

***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e dell’autrice. Tutte foto sono state gentilmente concesse da Massimo Manca, che ha autorizzato la pubblicazione.

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ALGHERO, mille storie e mille passati

***Reportage di Luciana Satta

ph. Luciana Satta

Una città dalle mille storie e dai mille passati, che ha visto il susseguirsi di popoli differenti, dai Fenici, ai Bizantini, dai Pisani ai Genovesi. Ma l’anima di Alghero è catalana. E il suono delle voci, la lingua, le case, i volti della gente svelano subito questa sua indole. Non a caso la città è conosciuta come la “Barceloneta d’Italia”. O più spesso “Riviera del Corallo”, perché nei fondali marini di Alghero il cosiddetto oro rosso, uno dei più pregiati al mondo, da sempre trova il suo habitat naturale. Tutto concorre a fare del territorio algherese, come scriveva nel 1891 Gaston Vuillier nelle sue Isole dimenticate, un luogo altro rispetto al resto della Sardegna. Un luogo che si presta alle più svariate forme di turismo. Perché ad Alghero non si viene solo per la costa, per le splendide spiagge di roccia, di ciottoli, di sabbia fine, protette dalla macchia mediterranea, per le cale riparate dai forti venti di maestrale. Chi arriva in città non si accontenta della semplice escursione. Vuole inoltrarsi in un percorso ricco di fascino e di storia. Viaggiatori di ogni età si mescolano tra i residenti e fanno vivere non solo d’estate ma ormai tutto l’anno le vie e i vicoli più antichi e suggestivi dell’Alguer, che dal mare appena fuori dal porto mostra l’imponenza delle sue antiche mura.

ph. F.H. ph. Luciana Satta

Approdo di notevole rilevanza strategica, Alghero deriva il suo nome dalla quantità di vegetali marini deposti sul litorale dalle correnti. Nasce così l’Algerium, secondo la forma latina riscontrata nei documenti dei Doria, S’Alighera in sardo e l’Alguer in catalano. Racchiuso tra i bastioni, visibile dal mare, nell’antico borgo si staglia uno dei monumenti più significativi della città: la cattedrale di Santa Maria, del XVI secolo. Il suo campanile, con le eleganti forme gotico-catalane e la cupola di San Michele, con le caratteristiche maioliche policrome, spiccano nel cielo azzurro, il colore vivido caratteristico del Nord Sardegna.

 

ph. Luciana Satta

Sono scorci e panorami incantevoli, trionfo di questa perla del Mediterraneo, segno delle memorie del passato, da quando nel 1353 la flotta aragonese, comandata dall’ammiraglio Bernart De Cabrera, ebbe la meglio su quella genovese, nella celebre battaglia di Porto Conte. Dopo aver lasciato la città nelle mani del barone Gispert de Castellet, e con la partenza del Cabrera a Cagliari, gli algheresi si ribellarono ai nuovi dominatori. Ma l’anno successivo, Pietro IV d’Aragona riconquistò la Fortezza. Da allora e per ben quattro secoli gli aragonesi divennero protagonisti indiscussi della storia dell’Alguer, quando Pietro IV decise di allontanare dalla città tutti gli abitanti originari per ripopolarla con le genti della penisola Iberica.

Ad Alghero si tocca il segno di questa forte identità. Nelle rime dei suoi poeti, nelle canzoni, nelle associazioni che lottano per conservare intatta la tradizione e in tutte le iniziative che l’amministrazione comunale promuove per divulgare l’immagine di una città che mai dimentica questo stretto legame di sangue.

ph. Luciana Satta

Un altro luogo degno di nota della storia culturale di Alghero, esemplare raro in Italia e unico in tutta la Sardegna, è il Teatro Civico, della seconda metà del XIX secolo. Qui si sono svolti e si svolgono prestigiosi Convegni e spettacoli di prosa e di lirica. L’idea di una struttura adeguata ad accogliere le rappresentazioni teatrali nacque in seguito all’interessamento della “Società degli armatori del teatro”. L’architetto Franco Poggi diede quindi il via ai lavori. Nel 1982 la città aveva il suo teatro, con quattrocento posti tra la platea, i tre ordini dei palchetti e il loggione. Attualmente si presenta come un piccolo gioiello, con i suoi 284 posti e una struttura portante interamente di legno, caratteristica principale dell’edificio.

ph. https://museialghero.it/teatro-civico/

Bastano pochi minuti dal centro storico della città per raggiungere uno degli arenili più lunghi dell’Isola, Il Lido di Alghero, o Lido di San Giovanni, che prosegue fino alla spiaggia di Maria Pia.

ph. Luciana Satta

E poi i colori caldi della macchia mediterranea non si spengono. Dopo aver superato la frazione di Fertilia, passando dalle spiagge più note della marina, le Bombarde e il Lazzaretto, si arriva a Mugoni, racchiusa nel golfo di Porto Conte. E ancora, mete indimenticabili sono la Cala Dragunara, fino alle insenature nascoste, irte e per questo meno frequentate, come le calette del Lazzaretto, le rocce rosse di Cala Viola, vicino al Porticciolo e la Bramassa, nei pressi di Punta Giglio. Il promontorio di Punta Giglio delimita a Est quello che era l’antico Portus Ninpharum dei romani, il porto naturale più vasto del Mediterraneo: la Baia di Porto Conte.

ph. Luciana Satta

Nella parte più interna della Baia si trova la lunghissima spiaggia di Mugoni, annunciata dalla pineta. Quindi la costa riprende a salire fino a culminare con le pareti a strapiombo sul mare di Punta Semaforo, a Capo Caccia, e Punta Cristallo. Non si può dimenticare, inoltre, la cala di Tramariglio, a Capo Caccia, all’interno del grande Golfo di Alghero, che offre agli occhi dei visitatori uno spettacolo naturale incantevole. Un tempo era la sede di una colonia penale, ora è a tutti gli effetti un centro turistico. Su un piccolo promontorio sorge la Torre di Tramariglio, di età spagnola, costruita alla fine del Cinquecento.

Ph. Luciana Satta

Nel 1999 Porto Conte, Capo Caccia divennero Parco Regionale. Qui, all’interno della Foresta demaniale “Le Prigionette”, vivono specie animali e vegetali rare, salvaguardate da convenzioni internazionali. Oltre alla ginestra, all’elicriso, al corbezzolo l’area protetta ospita la Centaurea Horrida, presente in Sardegna solo a Tavolara e all’Asinara. Tante anche le specie animali che sono state reintrodotte nella zona, dal cinghiale, al daino, ai cavallini della Giara, fino al Grifone.

Sul lato ovest di Capo Caccia, aperta al pubblico con visite guidate per tutto l’anno, la maestosa Grotta di Nettuno richiama migliaia di visitatori di varie nazionalità. Sono attratti non solo dalla risonanza storica, ma anche dalla imponenza di questa meraviglia geologica, con i suoi cunicoli angusti, la trasparenza delle acque al suo interno, le gallerie. Una grotta che ha un’ampiezza di 2.500 metri, considerata ad oggi una delle più interessanti in tutto il Mediterraneo.  Può essere raggiunta con il servizio barche che, partendo dal porto o dalla Cala Dragunara, nei pressi di Capo Caccia, permette di ammirare lo splendido scenario naturale della Riviera del Corallo. O ancora, via terra, raggiungendo il promontorio di Capo Caccia dopo un percorso in auto di circa 24 chilometri. Si scende poi sul lato occidentale, lungo una suggestiva gradinata di 654 scalini, costruita nel 1954: la Escala  Cabirol. Tanti gli scrittori che in passato ne furono affascinati. Tanti i principi e i re che la vollero visitare. Tra questi Carlo Alberto di Savoia, che la vide in tre circostanze. Nel 1829, quando era Principe di Carignano e nel 1841 e nel 1843, come sovrano del Regno di Sardegna.

 

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Quasi parallela alla Grotta di Nettuno grande rilievo dal punto di vista archeologico ha la Grotta Verde o di Sant’Elmo; e poi, ancora, il Monte Doglia, punto panoramico sull’intero golfo algherese e lo stagno di Calich, patrimonio ambientale al centro dell’attenzione degli studiosi.

Ma Alghero è anche luogo di interesse archeologico. Tra Alghero e Capo Caccia si trova il Complesso Nuragico di Palmavera.

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Sulla strada dei due mari, verso Porto Torres, invece, si trova la necropoli di Anghelu Ruju, uno dei più grandi complessi di Domus de janas dell’Isola. Sulla strada verso il paese di Ittiri sorge invece un’altra necropoli, quella di Santu Pedru.

Ad Alghero sembra non arrivi mai il tempo per annoiarsi. È una città dove gli appuntamenti con la tradizione e con l’innovazione si rinnovano continuamente, d’estate e d’inverno. I concerti, dal Festivalguer che nella stagione estiva porta in città artisti di fama internazionale, la festa del patrono, San Michele, il Cap D’Any, e i numerosi eventi che si susseguono senza tregua, lasciano ricordi indelebili in chi ha avuto la fortuna di conoscere questa città.

 

ph. Luciana Satta

ph. Luciana Satta

***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza l‘autorizzazione dell’autrice

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Il mio Blog si veste di nuovo!

Ci sono storie scritte e storie ancora da scrivere… tante sono rimaste impresse sulla carta, altre sono state nascoste, custodite, amate o odiate, da qualcuno sottratte, alcune consumate, altre ancora scopiazzate. Ma restano. Hanno gambe veloci e occhi grandi, le storie scritte. Rompono silenzi. Valicano muri. Evolvono. Frutto del passato, con lo sguardo orientato verso il nuovo. Si cambia strada, sempre!
Quello che leggerete è frutto del mio lavoro e della mia passione.
Questa è la casa delle mie idee, dei miei pensieri, dei miei incontri.

*BENVENUTI e BENVENUTE!*

Luciana Satta

 

ERRI DE LUCA

“La parola d’ordine di questo tempo? Per me è Fraternità”

“Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca.
Considero valore il regno minerale, l’assemblea delle stelle.
Considero valore il vino finché dura il pasto, un sorriso involontario,
la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano.
Considero valore quello che domani non varrà più niente
e quello che oggi vale ancora poco.

Considero valore tutte le ferite.
Considero valore risparmiare acqua, riparare un paio di scarpe,
tacere in tempo, accorrere a un grido, chiedere permesso prima di sedersi,
provare gratitudine senza ricordare di che.

Considero valore sapere in una stanza dov’è il nord,
qual è il nome del vento che sta asciugando il bucato.
Considero valore il viaggio del vagabondo, la clausura della monaca,
la pazienza del condannato, qualunque colpa sia.

Considero valore l’uso del verbo amare e l’ipotesi che esista un creatore.
Molti di questi valori non ho conosciuto”.

(Erri De Luca, Valore, tratto da Opera sull’acqua e altre poesie, Einaudi, Torino, 2002)

Il mare, la montagna, l’impegno civile. Parole che racchiudono il valore di un uomo. Di uno scrittore, uno dei più grandi della Letteratura contemporanea, che nell’era della tecnologia e dell’intelligenza artificiale non ha mai sostituito la sua penna con la tastiera di un computer. «Ho cominciato a scrivere in adolescenza ma dopo essere diventato un lettore – ricorda –.  Avevo a disposizione la biblioteca dei miei genitori e una predisposizione a starmene in disparte invece che con dei coetanei. Allora è venuta la scrittura, in aggiunta alla lettura come modo di tenermi compagnia. Ho scritto la prima storia a undici anni, raccontava di un pesce. Da allora ho proseguito e ancora oggi considero la scrittura il tempo felice della mia giornata». Il suo stile è ormai riconoscibile e inconfondibile, dal suo primo libro (Non ora, non qui), pubblicato nel 1989 e tradotto in oltre trenta lingue, all’ultimo Le regole dello Shangai, presentato all’ultima Fiera del libro di Torino. È quel modo limpido di raccontare le storie, la cura e la precisione nella scelta dei vocaboli e quella semplicità apparente che ti induce a riflettere, a scavare in profondità e a guardarti dentro. A cercare di andare oltre l’apparenza. Lui che non solo in montagna e in completa solitudine percepisce l’immensità, ma quando ancora una volta tende la mano, al bambino o all’anziano, in mezzo alla gente che soffre. In prima linea, per donare il suo immancabile supporto. In silenzio, senza clamori. Perché la parola d’ordine di questo tempo per Erri De Luca resta sempre e solo una: “Fraternità”.

In un’intervista ha dichiarato: «Non avevo orec­chio per la musica. […] A Napoli era un grande difetto fisico. Me lo hanno cor­retto incul­can­domi musica fino a farmi into­nato. Ma ero anche, di pre­fe­renza, zitto. Allora le can­zoni mi hanno aperto le vie ingol­fate delle corde vocali. Ho impa­rato a par­lare come i bal­bu­zienti: can­tando. Per­ciò la musica mi ha medicato». Quanto è profondo il legame tra la musica e la sua scrittura?

«La musica è con me troppo esigente, se c’è non posso fare altro che ascoltarla. Non la posso usare come sottofondo di un’attività, neanche quando guido, perché assorbe tutta la mia attenzione. Perciò quasi mai ho musica intorno. Mi capita di canticchiare quando sto scalando una parete ma è una tecnica per regolare la respirazione. Nella scrittura che faccio conta invece la voce del personaggio che la sta raccontando. La mia scrittura è orale, la sento nell’orecchio interno mentre la stendo sul quaderno. Io scrivo a penna, non su tastiera».

Lei ha detto: “Oggi il successo viene esposto in tutte le varie gradazioni. Il successo nel mestiere, nell’amore, nello sport. Dall’altra parte ci sono quelli che tentano di sottrarsi da questo chiasso del successo e a consistere in valori più silenziosi, in valori di rinuncia a questa esposizione”. Come vive questa epoca e questa società dove ostentazione e narcisismo sono protagonisti?

«Il successo per me è solo il participio, passato del verbo succedere.  Mi sono successe molte cose impreviste, compresa questa di rispondere a domande di un’intervista. Faccio lo scrittore, un’attività di limitato impatto pubblico, che non mi espone su clamorose ribalte. Se invitato in televisione, vado solo se posso limitarmi a un dialogo con chi conduce la trasmissione, senza dover partecipare di un dibattito e di un battibecco. Non seguo perciò nessun programma di discussione spettacolo. Insomma mi tengo un po’ in disparte, per temperamento».

Il mare e la montagna: due grandi passioni. Cosa rappresentano per lei?

«Sono spazi dove la presenza umana si dirada fino a scomparire. Appeso a una parete verticale riconosco con precisione la mia taglia minuscola nell’immensità del luogo. È il giusto rapporto tra la presenza umana e la grandezza del pianeta. In luoghi affollati l’ambiente finisce sotto i piedi. In mare come in montagna invece è superficie di attraversamento. La cima di una montagna non è arrivo, solo termine di salita prima della discesa. Non è spazio accogliente, non è un parco giochi, al meglio è indifferente, estraneo, ma basta poco, anche un banco di nebbia, a renderlo impraticabile. Non trovo me stesso in montagna, invece perdo questo me stesso che si crede residente e si ritrova in quegli spazi un intruso, un ospite senza invito».

Che significato ha per lei la parola “libertà”?

«Per me consiste nel tenere insieme quello che dico e quello che faccio. Fare in modo che le parole corrispondano a conseguenti azioni. Da questa interpretazione della mia libertà si capisce che nessuna privazione esterna, neanche una prigione, me la può ridurre. In generale individuo la libertà in quella descritta nel libro dell’Esodo, dove un popolo di schiavi si stacca compatto in schiere dalla sua condizione. Ecco che la libertà è un deserto, non un paese di cuccagna, è uno sbaraglio che dura il tempo di costruire una comunità del tutto nuova, nata e svezzata dal deserto e dalla disciplina di un accampamento mobile. La libertà è un’impresa che si rinnova continuamente, non data una volta per tutte. Perciò le democrazie possono rinunciarci, suicidarsi, regredire verso forme di tirannia».

Ho partecipato al soccorso alimentare nei campi profughi. Oltre all’appoggio materiale serviva a quelle persone accampate il conforto di non sentirsi abbandonate. I nostri arrivi in quei campi erano occasione di abbracci, di strette di mano, di festa per i bambini che ricevevano anche quaderni e matite colorate. Riferisco queste piccole cose perché immenso è il bisogno di calore umano in una guerra”. Cosa ha significato per lei incontrare quei bambini, qual è il suo ricordo più vivido?

«I bambini hanno una forza superiore a quella degli adulti. Giocano pure nelle peggiori condizioni, sopportano denutrizioni, si fanno bastare il poco e niente. Dice una frase del Talmùd che è il frutto a proteggere l’albero. Da più di un anno vado con un furgone e un amico nell’Ucraina di orfanotrofi e di posti che ospitano profughi. Ho visto la disciplina di quel popolo messo alle strette, la disciplina dei bambini pronti a interrompere il gioco, attenti a non far chiasso in accampamenti e alloggi di fortuna ricavati in scuole e altri spazi pubblici. Senza andare così lontano, si possono vedere da noi simili bambini che sbarcano sulle nostre rive da scialuppe sgangherate, dopo aver condiviso uno spazio schiacciato e un tempo di sbaraglio in alto mare». 

Che cosa rappresenta la poesia per lei? A quale poeta della letteratura italiana si sente più affine?

«La mia poeta preferita si chiama Marina Zvetaeva, russa. Sono un lettore di poesia del 1900, un secolo che si è potuto esprimere sotto la pressione di enormi avvenimenti, migrazioni di miriadi di esseri umani, guerre mondiali, deportazioni, campi di concentramento. Poco tempo e poca carta per scrivere, e allora la poesia è stata la forma concentrata della letteratura. Ho conosciuto un poeta di Sarajevo negli anni ‘90 della guerra di Bosnia. Durante gli anni dell’accerchiamento si facevano serate di poesia in un seminterrato di notte. Quei cittadini che mancavano di tutto avevano bisogno di sentire parole capaci di sospendere l’oppressione, di far dimenticare per qualche ora la fame, i lutti.  La poesia è stata all’altezza del compito. Lui, Izet Sarajlic, mi diceva che loro, i poeti, avevano fatto il turno di notte per impedire l’arresto del cuore di Sarajevo e dei suoi abitanti». 

In una città che visito per la prima volta assaggio l’acqua di una fontana pubblica e il pane di un forno. Ogni posto distilla la sua acqua e ha le sue notti per cuocere l’impasto” (da Spizzichi e bocconi). Quale piatto le ricorda maggiormente la sua infanzia e chi glielo preparava?

«Il ragù della domenica a casa di nonna Emma, un’intensità di odore e di papille mai più raggiunto, ma indelebile nei miei sensi. In quella tavola chiacchierona si faceva l’improvviso silenzio della pasta al ragù calata fumante nei piatti. Chiudevo gli occhi per concentrarmi nella masticazione, li riaprivo per infilare la forchetta in quel rosso cupo, denso, cotto un giorno e una notte a fuoco minimo».

A Nuragus in Sardegna, dall’amico Stefano Soi ho bevuto latte di capra, pure quello munto fresco in regalo”. Sempre nel suo libro Spizzichi e bocconi ha citato un suo amico sardo, Stefano Soi, che nel corso di una mia intervista ha detto di lei a sua volta: “È una persona con cui si è creato un rapporto incredibile”. Quanto è importante per lei il valore dell’amicizia?

«L’amicizia è un dono, all’inizio del tutto immeritato, come dev’essere un dono. Poi dev’essere custodita, confermata, anche a distanza. Io ne ho perse molte con rammarico e per validi motivi. Oggi è parola inflazionata dall’uso improprio dei canali social. Io ne conservo il significato ristretto e uso per le altre relazioni il termine di conoscenze».

Nel 2011 ha creato la sua Fondazione che porta il suo nome e con cui si prefigge di seguire diversi progetti a sfondo culturale e sociale. Quali progetti le stanno a cuore?

«È un piccolo sodalizio che si regge sul sostegno dei soci e non di istituti pubblici o privati. Non accediamo a fondi. Procuriamo dei contributi agli studi universitari di studenti immigrati, scelti insieme alla Comunità di Sant’Egidio di Napoli, consideriamo i flussi migratori l’avvenimento maggiore della nostra epoca e la più importante esperienza sostenuta dal volontariato italiano, che è un’eccellenza europea».

Lei è una giovane gitana in fuga dalla famiglia per sottrarsi al matrimonio combinato con un uomo anziano, lui è un orologiaio che sta campeggiando sul confine e la accoglie nella propria tenda”. Le regole dello Shangai è il suo ultimo libro. Qual è il messaggio?

«Racconto storie, non voglio usarle per far passare messaggi. Oggi mi sta a cuore un’alleanza tra giovanissimi e anziani, le due fasce di età che sanno guardare al futuro per immaginarlo, non per contemplarlo. La fascia di età adulta è invece ingolfata nel presente, se lo contende e non è capace di intenderlo né volerlo, chiamando emergenza perfino la raccolta dei rifiuti. C’è una incompetenza di gestione adulta che rende necessaria l’intesa tra nipotini e nonni. Ho scritto una storia che riguarda queste due fasce di età».

“Uno vede la vita come un fiume, uno come un deserto,

 un altro come una partita a scacchi con la morte.

Io la vedo sotto forma di un gioco di Shangai fatto da solo”.

(Erri De Luca, Le regole dello Shangai, Feltrinelli, 2023)

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***Il testo non può essere riprodotto in tutto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autrice. Le foto sono della Fondazione Erri De Luca e concesse dallo scrittore all’autrice dell’articolo. Tutti i diritti sono riservati.

Ad occhi chiusi per sentire il suono dell’ANIMA

NICOLA AGUS

di Luciana Satta

ph. Nicola Castangia

Era un giorno di fine estate del 2019 quando il suo “Viaggio intorno al mondo in ottanta strumenti”, spettacolo di musica e immagini da lui ideato, è arrivato alla trentaseiesima edizione di Voci d’Europa, a Porto Torres, uno dei festival più longevi di musiche polifoniche della Sardegna. Lì ho conosciuto l’energia di Nicola Agus, il suo mondo straordinario di compositore e di polistrumentista e quell’universo affascinante di suoni e di strumenti musicali, che aprono un varco nell’immaginazione e dal Mediterraneo ti fanno volare nelle aree nordiche e celtiche, dalla Spagna alla Scozia e ancora dall’America giungere fino in Cina. Chiudi gli occhi e ti ritrovi in un’altra dimensione. In spazi sconfinati. È un percorso in cui le sonorità della Sardegna “svestono gli abiti della tradizione ed entrano in un mondo di suoni moderni e contemporanei, in cui lo strumento è valorizzato in ogni suo aspetto tecnico e sonoro”. È vento che soffia, o mare in tempesta, è il respiro dell’infinito. Il suono dell’Anima. Dall’Occidente all’Oriente. Dalla Gaita de Cuerno, strumento spagnolo dell’Andalucia all’UDU, lo strumento a percussione delle donne nigeriane, dal Shakuhachi Flute, al Koto, l’arpa giapponese, dall’Hichiriki ad ancia doppia, all’Eram, lo strumento inventato quattro anni fa da Nicola Agus con le canne portate da una mareggiata improvvisa fino al Poetto di Cagliari… «A me interessa – spiega – che la mia musica conduca in punti lontani dell’anima, la devi sentire sulla pelle. Ti devi lasciare trasportare, voglio che sia un’esperienza, altrimenti non avrebbe senso. La posso suonare ovunque, anche chiuso in una stanza, ma la gente la percepisce, viaggia… poi quando a fine concerto qualcuno si avvicina e mi dice: “Ah, mi hai portato lontano…” io sono felice. Il significato è questo: con me bisogna lasciare fluire, farsi trasportare. E poi, siccome viaggiare costa (ride, n.d.r.), almeno con la mia musica sognano di essere in un luogo lontano nell’immaginario, sentono una cornamusa e attraverso quel suono magari immaginano di trovarsi in Irlanda, o in Scozia».

ph. Nicola Castangia

Il tuo percorso nella musica ha origine molto tempo fa, quando eri piccolo. Cosa ricordi di quando eri bambino e cosa ti ha affascinato del mondo dei suoni?

«Da bambino ero attratto dai suoni, ero curioso, avevo voglia di capire. Ero irrequieto, non stavo mai fermo, mai tranquillo. Ho messo alla prova i nervi dei miei genitori! Ma ho manifestato e capito da subito che la musica era la mia vita. Giocavo… con le costruzioni non creavo case, ma strumenti musicali, come i flauti, avevo già questa propensione. A casa c’erano gli strumenti classici, perché gli zii si dilettavano a suonarli, a mio padre piaceva la chitarra, non era eccelso, ma gli piaceva canticchiare a modo suo, credeva di essere bravo. Ma la mia passione non è nata dall’osservazione. Per me è qualcosa di innato, sei affascinato da un suono e lo sviluppi. In realtà tutti noi già quando siamo nel ventre materno percepiamo i suoni che provengono dall’esterno. Appartengono alla nostra memoria. La voce della madre poi tranquillizza il bambino e riesce a farlo addormentare. Non è la ninnananna in sé che lo calma, ma è la voce che è abituato a sentire. Assorbiamo tutti i suoni, è una curiosità che ci appartiene da sempre. La musica ha un ruolo importante. Poi, logicamente, un conto è essere curiosi, un conto è cercare di riprodurre quei suoni e farne una professione. Quello arriva con il tempo e con lo studio e l’approfondimento. Per me la musica è linguaggio, è la mia seconda lingua. È una grande forma di comunicazione, un modo per lanciare un messaggio. Il mio obiettivo è di farti trovare in un’altra dimensione e “staccare” la mente da tutto. Già nelle tribù africane era una forma di comunicazione molto potente, perché la voce non poteva essere percepita a grandi distanze, mentre il suono dei tamburi raggiungeva chilometri di distanza. La musica nasce dove l’uomo non può arrivare».

ph. Nicola Castangia

I tuoi strumenti provengono da tutto il mondo, ma molti sono da te costruiti. Dove li hai acquistati o come li recuperi?

Questa degli strumenti musicali è una “malattia”. Viviamo il mondo come se fosse a nostra immagine e somiglianza, ma all’interno del nostro sistema non siamo soli, arrivano tante influenze da parte di diverse culture. La sardità che diventa “egocentrismo” non mi appartiene e non mi interessa, non mi sento in un ombelico del mondo da cui tutto ha origine, dove tutto nasce e si sviluppa. Io guardo oltre il mare. Prendere strumenti da ogni parte del mondo deriva da una mia ricerca musicale, ma anche dalla domanda: “Se fossi nato lì come avrei utilizzato questo strumento?”. Tutto nasce dalla mia curiosità, mi piace vedere come in parti diverse del mondo esistano strumenti anche molto simili tra loro. Nella Via della Seta, ad esempio, ci sono tanti strumenti affini, dal mondo arabo sino all’Oriente. Si presentano in forme diverse ma la timbrica è la stessa e lo stesso è il principio. Non mi fermo solo a questo tipo di ricerca, mi piace crearne anche di nuovi, strumenti che non esistono, con forme differenti, ma anche apparentemente banali: dal suono che posso ricavare da una bottiglia d’acqua o da quella sonorità che posso creare dal nulla. Tutto viene naturale, ma bisogna anche studiare. La ricerca va in una determinata direzione se c’è dietro uno studio. Altrimenti stai creando ponti che non hanno un significato».

Sei entrato in contatto con qualcuno che ti ha insegnato qualcosa per quanto riguarda anche la costruzione degli strumenti?

«No, perché ognuno ha un suo pensiero. Mi hanno sempre appassionato la fisica e la chimica, che sono importanti per la musica. La fisicità dello strumento ne determina anche la timbrica, la chimica e il tipo di sostanze che possono entrare e possono danneggiare gli strumenti, come gli agenti atmosferici. Oppure se, ad esempio, se utilizzo la plastica in una certa modo, posso ottenere lo stesso suono prodotto da una chitarra in legno. Sono modi differenti di vedere le cose».

Come nasce la tua musica, da quali evocazioni?

«Innanzitutto il mio è un filone “New Age Spiritual Colossal”, rientra nel mondo della Cinematografia e appartiene al mondo Contemporaneo, olistico documentaristico. “Olistico”, perché è una musica che induce al rilassamento, da non confondere con la “musica rilassante per massaggi”, perché la mia non è lineare, cambia, accelera, rallenta. Tende a riportare l’uomo alle sue origini naturali, affinché risvegli in lui una forma di spiritualità e non sia concentrato solo sul progresso e sul denaro».

ph. Nicola Castangia

Tu sei stato fuori, hai viaggiato… come mai poi hai scelto di ritornare in Sardegna?

In realtà non ho scelto di rientrare in Sardegna. Si sono combinate alcune situazioni per cui mi sono arrivate delle proposte dalla Regione… ma penso che le mie idee fossero troppo innovative, io non sono un suonatore di launeddas tradizionale, sono un musicista che utilizza le launeddas in maniera diversa. La mia è una ricerca innovativa, dove lo strumento prende forma come se fosse una chitarra elettrica, o una cornamusa, o un sax, o un’armonica a bocca. Questo a volte fa storcere il naso ai tradizionalisti. Ma non è che io rifiuti la Sardegna… noi nasciamo liberi, in una terra chiamata “mondo”. A me interessa stare nel mondo. La Sardegna ce l’hai già dentro, ma io sono nato nell’ottantadue e ho avuto la possibilità di sperimentare e di capire perché la musica si è evoluta in una determinata maniera.

Arte, musica e riciclo. Tra i tanti strumenti che hai ideato, con le canne del Poetto tempo fa hai creato uno strumento che hai chiamato “Eram”…

Nel 2019 in seguito ad una mareggiata la spiaggia del Poetto fu completamente invasa dalle canne. È stato un forte momento di aggregazione, i bambini giocavano con le canne come se non le avessero mai viste. Ero rimasto molto colpito, perché era la prima volta che non ero stato io a cercarle per costruire i miei strumenti, ma loro erano giunte fino a me. Avevo voluto rendere omaggio a quel momento particolare, pensando anche al fenomeno dell’immigrazione, perché le canne spiaggiate ricordavano anche i corpi delle vittime portate dal mare, che oggi purtroppo è un cimitero a cielo aperto. Allora ho pensato di creare l’unico strumento che potesse parlare di quello che sta vivendo il mare, una sorta di strumento a corda… la corda può simulare le onde del mare, perché quando la fai vibrare produce un’onda e il suono viene propagato. Ho deciso di sperimentare e di creare uno strumento a corda utilizzando la canna e come tastiera un rostro, la spada del pesce spada e ho realizzato così uno strumento del mare… in seguito ne ho creato tantissimi.

Mi piace anche far cantare la voce dell’acqua utilizzando una semplice bottiglietta di acqua

naturale.

Sei anche autore delle musiche de “I venerdì della storia – Le bugie” dell’attore e autore Gianluca Medas, voce narrante dello spettacolo. In questo caso come nascono le tue composizioni per questo appuntamento alla manifattura Tabacchi di Cagliari?

Lì è un altro lavoro sull’improvvisazione diretta, in simbiosi con l’artista. Non ci sono prove. È fatto tutto sul momento e a me piace perché spazio e posso giocarmela sempre in maniera diversa. Misteri irrisolti e strumenti diversi, e ogni volta musiche e sensazioni nuove.

Ph. Nicola Castangia

Licia Colò ti ha chiamato diverse volte nelle sue trasmissioni. Sei stato invitato a portare la tua musica nello studio di “Il mondo insieme”, proprio per quella tua capacità di riuscire a fare suonare qualsiasi oggetto della quotidianità e ovviamente per i tuoi strumenti musicali dedicati ai vari paesi del mondo. Come è stata questa esperienza?

Inizialmente mi hanno invitato in trasmissione per suonare la carta e altri oggetti semplici e comuni. È stata una bella esperienza, sono stati gentilissimi, ma prevalentemente cercavano qualcosa che potesse stupire… suonare un pezzo di carta, o il vetro o un uovo magari è una forma spettacolare che colpisce maggiormente in tv. Poi, lei (Licia Colò) era rimasta colpita dall’Eram, perché unisce alla ricerca sonora una riflessione più profonda sull’emigrazione. Quando ho avuto la possibilità di suonare l’Eram ho potuto dare un senso più profondo e strutturato a ciò che voglio esprimere. È stata una pubblicità positiva e poi è una strada tutto da costruire. Io credo che non bisogna restare statici, ma perseverare e migliorare, sempre con umiltà. Io non suono esclusivamente per esibirmi in concerto, suono perché amo la musica. La vivo con umiltà e spensieratezza. Se il pubblico viene, bene, altrimenti suono lo stesso.

***Questo testo e gli scatti non possono essere riprodotti, senza l’autorizzazione dell’autrice e del fotografo, che ne detengono i diritti. Il testo e il materiale fotografico sono apparsi sulla rivista Iod (numero di settembre 2023).

© RIPRODUZIONE RISERVATA

 

138 ANNI: Tanti auguri STINTINO!

Reportage di Luciana Satta

***Articolo di approfondimento finora inedito, scritto nel 2009 per la bella rivista cartacea “Sardegna Fairway” e per il direttore e amico Lucio Piga. Lo pubblico oggi, per la prima volta, in occasione dei 138 anni di un luogo che amo da sempre: Stintino.

ph. Luciana Satta 2023

Il paese, racchiuso tra due insenature a forma di budello (in dialetto “isthintu”), si adagia con i suoi due porti, il “porto Nuovo”, detto anche “portu Mannu”, e il “porto Vecchio”, “portu Minori”, e ha il sapore di tempi antichi. Eppure il piccolo borgo marinaro ha origini abbastanza recenti. Fu fondato nel 1885, quando quarantacinque famiglie dovettero loro malgrado abbandonare l’isola dell’Asinara, che fu trasformata in stazione sanitaria di quarantena e in colonia penale. Queste famiglie, di agricoltori sardi e pescatori genovesi, furono alloggiate nelle strutture della Tonnara delle Saline. La raggiunsero con le loro barche, scoprendo così un punto strategico per la loro attività di pesca. Un mare, quello della zona, ricco di pesci e di aragoste. E, naturalmente, come è noto, di tonni.

La Tonnara delle Saline (le cui prime notizie risalgono al 1604, quando ne fu concessionario Giovanni Antonio Martino) divenne indispensabile allo sviluppo della tradizione della piccola pesca. Intere generazioni di stintinesi divennero maestri della pesca del tonno, come si può capire visitando il Museo della Tonnara, un tempo al porto Nuovo, attualmente in via Lepanto, alla fine della strada panoramica che conduce al borgo e si affaccia sul porto vecchio. Un passaggio significativo per capire il ruolo fondamentale della pesca nella vita degli abitanti di Stintino. Da sempre.

Nel 1904 fu fondata la “Società mutua cooperativa fra i pescatori di Stintino”, che in seguito divenne la “Cooperativa pescatori di Stintino” costituita da 68 soci. Già dai primi anni del Novecento, quindi, Stintino sarebbe diventato il luogo delle vacanze della borghesia della città di Sassari e degli altri centri vicini, come Porto Torres. E proprio da Porto Torres, passando davanti alla vecchia Tonnara (ricordata soprattutto per la pesca miracolosa del 1968, quando nella “camera della morte” finirono più di duemila tonni), si arriva a Stintino.

Già frazione del comune di Sassari, il 10 agosto del 1988 Stintino è diventata comune autonomo. Nel marzo dell’anno successivo si tennero le elezioni per la nomina del consiglio comunale.

Se la si esplora meglio, poi, la costa non è l’unica attrattiva di Stintino. Lo sono anche i nuraghi e gli stagni salmastri dove i fenicotteri rosa hanno ripreso a nidificare, dopo una pausa di anni. Uno degli stagni si trova lungo la spiaggia delle Saline, dominata da una delle più antiche torri di avvistamento della Sardegna e vicino alle antiche saline che fino al XIII secolo venivano sfruttate  dai monaci di Santa Maria di Tergu. E non è raro che i maestosi fenicotteri rosa, a branchi, attraversino nel periodo estivo il cielo di questo territorio incantevole, sopra gli occhi di turisti curiosi.

Dalla spiaggia delle Saline si arriva agli altri splendidi arenili. Dalle Tonnare, superato il paese, si passa a  Cala Lupo, che sorge nell’omonima baia tra Stintino e Capo Falcone, in posizione dominante sul mare e, con le sue piccole spiaggette di sabbia a grana grossa e scogli, amata dagli appassionati delle escursioni subacquee.

Il forte contrasto tra due mari, il cosiddetto “Mare di fuori” (a occidente, dove si trovano le calette con le spiagge di “Coscia di Donna” e di Punta su Torrione”) e il “Mare di dentro” (la regione interna) domina il territorio stintinese.

Pochi minuti dal paese e si può ammirare un altro luogo scelto dagli appassionati delle immersioni. È la spiaggia di Punta Negra. Delimitata da brune scogliere, con la sua sabbia candida e fine, la spiaggia di Punta Negra è circondata dalla tipica macchia mediterranea con i suoi alberi vicino alla riva e offre un’incantevole vista sul golfo. E ancora, non si possono dimenticare luoghi come i Tamerici, l’Ancora, il Gabbiano. Dispongono di piccoli villaggi attrezzati, di centri di ristoro, mete ideali per gli sportivi amanti del windsurf, della vela e della canoa. 

Ma è più avanti che si apre la più nota spiaggia di Stintino, tappa obbligatoria per chi vi arriva per la prima volta. Suoi punti di forza sono, certamente, l’intensa sfumatura colore turchese del mare, il fondale basso e la sabbia bianchissima che la rendono unica. È la Pelosa.

Giunti in spiaggia non si può non rimanere colpiti alla vista del paesaggio, un quadro di straordinaria bellezza su cui si staglia l’isolotto e la caratteristica torre aragonese. Quest’ultima fu costruita nel 1578, a difesa del litorale, mentre un tempo l’isolotto era raggiungibile a piedi dalla spiaggia, seguendo un passaggio naturale. Poco più in là lo sguardo si rivolge all’isola Piana. Nel passato era pascolo per il bestiame il quale, data la vicinanza alla costa, veniva portato a nuoto, trainato sui barconi. Ed ecco, oltre l’isola Piana, il profilo delle rocce dell’isola dell’Asinara, un tempo carcere di massima sicurezza e, dal 1997, Parco Nazionale, mentre alla sinistra della Pelosa si stagliano, imponenti, le scogliere di Punta Capo Falcone.

Non mancano le attività che valorizzano al meglio le splendide acque di Stintino. Protagonista incontrastata ormai da ventisette anni è la “Regata della Vela Latina”, che coinvolge imbarcazioni provenienti da diversi Paesi del Mediterraneo. Nata nel 1983, su iniziativa dei fratelli Paolo e Piero Ajello, nel 1987 e nel 1991 è stata poi insignita dall’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, del “Trofeo Challenge Presidente della Repubblica” e nel 1998, dalle rispettive cariche istituzionali, dei Trofei “Challenge Presidente del Senato” e “Ministro della Pubblica Istruzione”. Fino a quando nel 2004 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, ha voluto rinnovare il Trofeo presidente della Repubblica, conferendo alla manifestazione un riconoscimento d’argento. È un evento importantissimo per Stintino. È un appuntamento a livello internazionale, che attira da sempre un folto pubblico. Ma la Vela Latina è solo uno degli appuntamenti stintinesi. Non si può non menzionare, infatti, il “Raduno dei 45”, nella prima settimana di agosto, regata con cui viene celebrata la nascita del paese, o ancora, il “Viaggio del postale”, nella seconda metà di luglio, rievocazione dell’antico servizio di trasporto postale tra Stintino e Porto Torres ad opera di Clemente Bonifacino, a bordo della barca a vela “Buona Difesa”.

Tre mesi di appuntamenti con la tradizione, inaugurati ogni anno dalla “Sagra del tonno”, il primo sabato di giugno. Cuochi provetti offrono piatti a base di tonno accompagnati da un ottimo vino.

Negli anni Stintino non sembra sia stata toccata dai contraccolpi della crisi. Alla vacanza non si rinuncia. E se la meta è Stintino non è difficile capire il perché.   

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***Articolo di approfondimento finora inedito, scritto nel 2009 per la bella rivista cartacea “Sardegna Fairway” e per il direttore e amico Lucio Piga. Lo pubblico oggi, per la prima volta, in occasione dei 138 anni di un luogo che amo da sempre: Stintino.

La platea dell’Umanità

Quel giorno a Venezia

(***Clicca sul video, la musica ti accompagnerà nella lettura) 
Video di Rene Caovilla – Diretto da Oliver Astrologo

Silenzio intorno a te. Gli archi intrecciati e i loggiati dei palazzi si riflettono splendenti e vibranti nelle acque della Laguna, nelle pieghe dei calli e nel reticolo dei canali. Davanti a te la Serenissima, l’innamorata segreta di chi la sa corteggiare e quell’impressione sia lì solo per noi. Ti fermi in ascolto.

di Luciana Satta

L’obiettivo di mille fotografi non riuscirà mai a cogliere quello che stiamo vedendo, le parole dei poeti non possono rendere quel momento, quell’attimo, quel raggio di bellezza che ci è riservato e che attendeva solo noi per essere raccolto.

Venezia, incerta fra cielo e terra è lì e, come uno specchio, lascia scoperta la tua anima, ti invita a entrare nel gioco dell’infanzia eterna. Vuoi tuffarti in questo universo di immagini e di colori, dove passato e presente non hanno più confine e si confondono in una danza di chiaroscuri. Il tempo è uno spazio aperto e impalpabile.

Ti prende per mano, ti porta con sé.

Venezia 2001 - ph. Luciana Satta
Venezia 2001 – ph. Luciana Satta

Ma il tuo sguardo è già lontano, spazia oltre i giardini. Una fila di tartarughe d’oro ti porta ancora più lontano, fino al grande letto. Ti sembra impossibile che quei corpi nascano dalla pietra, ma sei a Venezia, dove tutto è vita e morte al tempo stesso. I loro volti, inesistenti, ti guardano e ti parlano di poesia.

Un uomo è sdraiato accanto a una donna e avvolge il braccio intorno alle sue spalle.

Biennale Venezia 2001 – ph. Luciana Satta

Vorresti fermarti, ma non vuoi che il gioco finisca. I tuoi occhi ti hanno già portata all’interno di una grande sala, dove un uomo su una scala dipinge accuratamente le pareti di nero, mentre nella stessa sala una donna riprende il lavoro da capo e le ridipinge di bianco. Nero e bianco si rincorrono incessantemente: non esiste dolore senza gioia.

Tu cammini e canti, mentre sei già nella stanza accanto.

Scarpe gialle, rosse, blu liberano la tua immaginazione. Vorresti indossarle per sentirti leggera.

Vai alla finestra, guardi fuori, di nuovo verso il giardino. Su una panchina di legno siede quella ragazza. Alle sue spalle un enorme pannello bianco riporta una scritta: “La platea dell’Umanità”. Il suo viso è come un vetro attraverso il quale leggi la scritta: “La platea dell’Umanità”, tradotta in tutte le lingue del mondo. Lei è immobile, lo sguardo assente, fissa un punto preciso nello spazio senza limite, occhi ingigantiti a dismisura, occhi che parlano. Sembra non voglia più alzarsi, andare via. Le siedi accanto e come lei stringi forte le mani ai bordi della panchina.

Accenni un sorriso e ti scatto questa fotografia.

Mentre ti guardo ripenso a quella canzone: “perché sono le sfumature a dare vita ai colori/ e a farci tornare in mente le cose più pure dei giorni migliori”.

“La platea dell’Umanità” Luciana Satta alla Biennale di Venezia, 2001

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