Tutte le più grandi Ètoile del Mondo hanno danzato almeno una volta su uno dei brani del repertorio classico tra i più celebri e noti della Storia della danza: The Dying Swan, La morte del cigno, con quell’inconfondibile movimento delle gambe basato sul “pas de bourèe suivi” e la precisione nelle movenze delle braccia e delle mani. Ma quelle di Olga Golytsia, prima ballerina dell’Ukrainian Classical Ballet, non sono braccia. Non sono mani. Sono ali. Si alza il sipario. Vederla danzare è dimenticare e ricordare al tempo stesso. Perché con quelle stesse gambe Olga è dovuta fuggire dalla sua terra, l’Ucraina, e con quelle braccia ha protetto sotto le bombe suo figlio undicenne per salvarsi dalla Guerra e andare incontro al suo sogno di libertà. Ha trovato rifugio dai suoi cari, a Francoforte. «Quando è iniziata la Guerra non sapevo affatto cosa fare… ho pensato: “Dove sarà il rifugio antiaereo più vicino?” “Sarà meglio lasciare l’Ucraina o restare?”. Il padre di mio figlio vive a Francoforte. Chiamava costantemente e chiedeva di venire in Germania. Ma all’inizio mi sembrava che la Guerra non potesse essere vera e credevo che tutto sarebbe finito presto. I bombardamenti erano continui. All’inizio stavamo sempre chiusi nel bagno, poi, quando ho capito che non era un posto sicuro, siamo usciti e abbiamo passato la notte nel parcheggio. Due settimane dopo ho deciso di andarmene. Vivo in un quartiere di Kiev, non lontano da Irpin e Bucha… ero molto spaventata. Il nostro viaggio è durato quattro giorni! A Kiev siamo riusciti a prendere solo il terzo treno… c’era molta gente! Erano tutti inorriditi e presi dal panico. Gli aeroporti sono stati bombardati il primo giorno. Abbiamo viaggiato in treno e in autobus fino a Francoforte».
ph. Ksenia Orlova
Olga Golytsia è arrivata poi in Italia con l’Ukrainian Classical Ballet grazie alla rete di solidarietà che ha coinvolto molti Teatri. In Sardegna ha aperto, insieme alle stelle del balletto ucraino, la stagione della Grande Danza del CeDac (l’Ukrainian Classical Ballet raccoglie artisti delle Compagnie ucraine più prestigiose: dall’Opera nazionale al Teatro Taras Shevchenko, dal Teatro dell’Opera e Balletto di Odessa, al Teatro Accademico di Kharkiv fino all’Opera Nazionale di Lviv, n.d.r.). Protagonisti della straordinaria esibizione, al Teatro Comunale di Sassari e al Massimo di Cagliari, i grandi capolavori della storia del balletto, tra spettacolari assoli e passi a due. Al momento dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, la Compagnia era in tournée in Francia. Il tour italiano non era in programma, è stato organizzato grazie all’impegno del teatro comunale di Ferrara.
«Quando è iniziata la guerra in Ucraina non ho pensato affatto al balletto. Pensavo solo a me e a mio figlio, a come sopravvivere… quando, dopo un mese e mezzo di Guerra, mi è stato offerto di andare in tournée, non capivo come fosse possibile! Ma poi ho pensato: “Cosa posso fare di buono per l’Ucraina? Posso aiutare in qualche modo?”. Ho capito come questa potesse essere una meravigliosa opportunità per presentare la cultura ucraina in Italia, per parlare degli orrori della Guerra e di ciò che ho vissuto personalmente. Spero che questi tour abbiano supportato almeno un po’ il mio Paese». Nel mese di marzo 2023 al Comunale di Ferrara è stato proiettato un documentario realizzato da Gianluca Lul e Angela Onorati e prodotto dallo stesso Teatro Comunale nell’aprile 2022, a pochi giorni dallo scoppio della Guerra, durante la presenza della Compagnia ucraina a Ferrara. Attraverso le parole, gli occhi e l’arte dei ballerini dell’Ukrainian Classical Ballet il documento racconta l’inizio della Guerra.
ph. Andrey Stanko
Come è nato il tuo amore per la danza? Che cosa sognavi da piccola, desideravi diventare una ballerina?
«Avevo cinque anni quando mia madre mi portò in una Scuola di danza per la Propedeutica. All’inizio non mi piaceva molto. Era noioso e doloroso. Ma gli insegnanti dissero che avevo caratteristiche fisiche adatte al balletto. Perciò mia madre ha continuato a portarmi in Studio, anche quando tutti i miei amici hanno smesso di studiare. Poi, all’età di sette anni, sono entrata alla Pavel Virsky Ensemble School, un ensemble di danza ucraino (Pavlo Pavlovych Virsky, PAU, è stato un ballerino sovietico e ucraino, maestro di balletto, coreografo e fondatore del Pavlo Virsky Ukrainian National Folk Dance Ensemble, il cui lavoro nella danza ucraina è stato rivoluzionario e ha influenzato generazioni di ballerini, n.d.r.). Sono persino andata in tournée… e mi è piaciuta molto! A dieci anni sono entrata al Kyiv State Ballet College. Lì hanno instillato in me l’amore per la danza classica. Quando ero una ragazzina, non mi piaceva molto fare balletto. Era un desiderio di mia madre. Ma col tempo mi sono innamorata della mia professione! Sono molto grata a mia madre per avermi incoraggiata a diventare una ballerina».
ph. Ksenia Orlova
Chi sono stati i tuoi maestri di riferimento e le figure del mondo della danza che ti hanno maggiormente influenzata?
«Quando ero bambina non avevo idoli nel balletto. Non mi sono mai ispirata a nessuna. Volevo essere unica e diversa da chiunque altro. Nutro riconoscenza verso i miei insegnanti del College e del teatro, hanno lavorato molto con me. A scuola insegnavano l’accademismo e a teatro la mia insegnante Eleonora Steblyak mi ha aiutato ad aprirmi come attrice. Finora ho lavorato con attenzione e precisione su ogni gesto e movimento».
Hai utilizzato la tecnica dell’osservazione per raggiungere una tale perfezione e grazia?
«Questo pezzo richiede una preparazione speciale. Sembra facile, ma non lo è affatto. La mia maestra mi ha chiesto di andare al lago a guardare i cigni: come nuotano, come si muovono… ci sono tante versioni di questo numero! Io e il mio insegnante abbiamo realizzato Il lago dei Cigni adattandolo alle mie capacità. Lavoriamo sulle mie mani da molto tempo! È la cosa più importante. Abbiamo anche lavorato molto sull’immagine. Cerco di trasmettere la voglia di vivere e la lotta contro l’inevitabile morte».
ph. Oleksandra Zlunitsyna
Che rapporti hai con gli altri ballerini della compagnia? C’è amicizia tra voi?
«C’è un’atmosfera amichevole a teatro. Soprattutto tutti hanno iniziato a sostenersi a vicenda durante la Guerra. Sono molto contenta di aver deciso di tornare a Kiev e all’Opera Nazionale dell’Ucraina».
Che cosa rappresenta la danza per te?
«Amo il balletto, la danza è la mia vita. Non posso mangiare quello che voglio. Non faccio molte altre cose che possono fare persone che svolgono altre professioni. Ma non me ne pento… il lavoro mi porta piacere e gioia! Spero che il pubblico vada via dalle le mie esibizioni con nuove emozioni».
ph. Katerina Kornienko
***l’intervista a Olga Golytsia è stata tradotta dalla lingua Inglese all’Italiano.
***Le foto sono state concesse alla giornalista Luciana Satta dalla sign.ra Olga Golytsia, che ha autorizzato la pubblicazione per lo speciale a lei dedicato. Questo testo e gli scatti non possono essere riprodotti né pubblicati, in tutto o in parte, senza l’autorizzazione dell’autrice che ne detiene i diritti.Il testo e il materiale fotografico sono apparsi sulla rivista Iod (numero di aprile 2023).
Terra di vino e di racconti che sanno di vita e di umanità
di Luciana Satta
“L’impegno a custodire nel tempo la memoria di una lunga storia. Una storia che affonda le radici nel passato e che ha segnato la via del ritorno: all’isola, alla terra, alle vigne e al lavoro delle mani che le curano quotidianamente. Nella linea di un cerchio che si chiude è la spirale di un tralcio di vite. Un segno che apre alla ciclicità e all’incessante movimento del vivere e del generare”.
C’è un filo sottile che collega le persone che credono ancora nella meraviglia. Nella bellezza del restare umani. A volte le incontri per caso. Sono anime che lasciano il segno, perché hanno gli occhi che sorridono. Ho conosciuto Stefano Soi nel 2016 e oggi vi racconto la storia del suo sogno diventato realtà nel cuore del Sarcidano, vent’anni orsono. È l’Agricola Soi, a Nuragus. Il rispetto per la tutela della tradizione vitivinicola e la sostenibilità ne sono i valori fondanti. «Alla base c’è l’obiettivo di lasciare il mondo migliore (così come si diceva una volta) rispetto a come l’abbiamo trovato – mi spiega Stefano -. È una scelta etica di coinvolgimento profondo, non un atteggiamento “modaiolo”. Da me ci sono ancora i ricci e i porcospini, le volpi, le api e le vespe: tutti gli animali che dobbiamo in qualche modo proteggere».
Stefano Soi nelle sue vigne. (ph. V. Sanna)
Tanto impegno, che ha portato i vini Agricola Soi a ottenere riconoscimenti importanti, dal Gambero Rosso dell’Oscar 2017, ai due bicchieri nelle edizioni 2018 e 2019. Inoltre tutti i vini Soi sono inseriti con tre stelle nella Guida Vini Buoni d’Italia del Touring e tra le dieci eccellenze della Sardegna nella selezione a parte tra le Guide di “La Repubblica”.
«Mio nonno è stato uno dei primi enologi di scuola sarda – racconta –. Figlio di un notaio, aveva intrapreso una strada completamente diversa, perché si era diplomato in Enologia nel 1900. Era un proprietario terriero, ma scelse di lavorare come agronomo per quasi quarant’anni nella colonia penale del Sarcidano, per concludere la sua carriera in quella di Castiadas. Io l’ho visto relativamente poche volte nella vita, perché era già molto grande, dunque il legame che mi ha portato in maniera viscerale e imprescindibile a Nuragus non è nato da un’eredità diretta, ma da una trasmissione d’amore data soprattutto dai racconti di mio padre: ogni fine settimana ci caricava sul suo maggiolino bianco e ci portava a visitare questi luoghi. Tutti i suoi racconti affascinanti mi hanno infarcito di voglia di approfondire il rapporto con questa zona. Ho frequentato il liceo classico a Cagliari, poi Ingegneria, senza grande entusiasmo. Non la sentivo la mia vera strada. Un’estate andai a lavorare in Alto Adige e lì ci fu la classica “folgorazione”, perché mi sono sentito in un ambiente più allegro, più disincantato e più creativo, che era l’ambiente dell’architettura. Era quello che avrei voluto fare. Quindi, a ventidue anni, mi trasferii a Venezia. Abitavo a Padova e viaggiavo con il treno, ho dovuto lavorare per mantenermi».
«Con la campagna avevo solo un rapporto vissuto attraverso la narrazione, era un legame acquisito dai racconti di mio padre. La vera conoscenza è arrivata da mio zio Gino, il fratello di mia mamma. Aveva una tenuta in Toscana, dove mi trasferivo ogni estate, a fine anno scolastico. Lì da ragazzino usavo il trattore, ma la passione per questo prodotto meraviglioso, l’uva che veniva trasformata in vino, mi ha intrigato al punto che dicevo a tutti che da grande avrei voluto fare questo lavoro. Quando mio zio è mancato ho giurato a me stesso che prima o poi avrei voluto ripercorrere le sue orme, avere un piccolo possedimento mio».
Stefano Soi (Agricola Soi)
Il tuo progetto nasce da un obiettivo: trasformare il concetto di “agricoltura” in “agricultura”? Cosa significa?
«Ci sono lavori che nessuno vuole intraprendere più perché si pensa siano di “categoria inferiore”. Inoltre nessuno si impegna seriamente anche dal punto di vista economico, a impiegare risorse importanti. Può sembrare una cosa quasi ovvia, ma spesso l’agricoltura viene vista come un lavoro di livello “basso”. Ci sono invece figure specialistiche (come il potatore), che potrebbero guadagnare e vivere molto bene tutto l’anno. Il lavoro agricolo ti dà innanzitutto la possibilità di stare all’aria aperta. Nel periodo della pandemia molti di noi hanno riscoperto il piacere di non sentirsi confinati a casa. Noi non abbiamo subito neanche per un giorno questo oltraggio, semplicemente perché avevamo la terra. Eravamo in qualche modo giustificati: potevamo andare in campagna e io quando sono nella mia terra mi sento il re del mondo. Proprio in queste situazioni mi sono domandato più volte perché il lavoro agricolo debba essere considerato come un lavoro di secondo ordine o di bassa qualifica. Questo mi ha sempre urtato».
Agricola Soi. Le vigne. (ph. V. Sanna)
«Mi sono reso conto che negli ultimi anni tutti coloro che si sono avvicinati all’agricoltura sono spesso “agricoltori di ritorno”. È un concetto che aveva sottolineato l’antropologa Alessandra Guigoni: gli “agricoltori di ritorno” sono persone che, dopo aver conseguito una laurea o un corso formativo qualificato, a un certo punto hanno pensato che le loro mani dovessero essere asservite anche a svolgere un qualcosa di pratico, di materiale. Avevano perso l’uso delle mani, dei piedi, del camminare, che non significa soltanto muoversi, o spostarsi. Ho parlato dunque spesso del concetto di “agricultura”: il campo, la vigna, la cantina, il caseificio, il settore dell’allevamento, delle olive, luoghi in cui materialmente avviene il passaggio dalla produzione, dalla creazione del prodotto agricolo, dell’uva, o del latte, o dell’olio (dunque la cantina, o il frantoio, o l’ovile) potessero diventare luoghi di cultura. Fenoglio definiva la campagna “luogo della parola”, che poi genera cultura, letteratura».
«Mi sono laureato in Architettura e continuo a fare l’Architetto, ma anche il contadino, il vignaiolo. So cosa voglia dire concimare e usare gli strumenti agricoli. Ne sentivo proprio l’esigenza. La campagna è vista (nel migliore dei casi) in modo idilliaco, ma spesso di idilliaco non c’è niente, è un lavoro legato alla produzione di beni primari, senza i quali non ci nutriremmo e non potremmo sopravvivere.
Da quando il vino ha assunto il ruolo di ospite primario nelle tavole, è diventato un prodotto che forse più di tanti altri è riuscito a coniugare questi due concetti di “agricoltura” e di “agricultura”, perché intorno al vino sono sorti movimenti, discorsi, e tutti coloro che si sono avvicinati al vino, da poeti come Rimbaud, Verlaine, lo hanno utilizzato come strumento per elevarsi, non per abbruttirsi, non per scendere in basso. Io ho provato a fare questo percorso, accogliendo le persone, semplicemente raccontando loro quello che è il nostro lavoro».
«Dico con convinzione che mi sento quasi un “presidio territoriale”, perché quando sono arrivato a Nuragus le vigne stavano scomparendo, non c’era più nessuno che le coltivava, se non per fare un po’ di vinello per casa. Invece la vigna è economia e, se guidata in un contesto un po’ più ampio a livello regionale, può diventare un luogo da visitare, così come avviene con i musei. Le vigne del Chianti, del Salento, delle Langhe, sono diventate esempi di “cultura enogastronomica” e hanno offerto lo spunto per fare Festival. Penso “Collisioni”, a Barolo, e a tutti gli eventi che vengono organizzati periodicamente nel Chianti. La campagna è diventata un luogo reale dove ritrovarsi, perché abbiamo spazi ampi, perché non c’è il frastuono della città. Abbiamo la possibilità di pensare, di concentrarci di più. Spesso quando sono in campagna – tranne quando uso il trattore perché non riuscirei a sentire – metto le cuffiette e ascolto musica classica, jazz.
A mio avviso questo è il futuro vero dell’agricoltura: non soltanto luogo di produzione di beni primari, ma luogo di riflessione, di confronto tra il bene prodotto e i fruitori di questo bene che possono trovare un vantaggio più ampio unendo cultura e letteratura».
La tua attività è anche fulcro di incontri, da Mauro Corona e Erri De Luca, entrambi spiriti liberi. Come li hai conosciuti e che cosa avete in comune?
«Mauro è stato il primo con cui ho iniziato un rapporto di fratellanza. Ci chiamiamo “fratellini”, anche se lui è un po’ più grande di me. Ormai ci conosciamo da quasi venticinque anni e siamo diventati inseparabili. Non c’è stato un momento importante della nostra vita che non abbiamo condiviso insieme. Si cresce insieme, si invecchia insieme. Io ho la fortuna di ricevere spesso i suoi manoscritti prima che vengano pubblicati. Insieme a Mauro una sera di tanti anni fa sono andato a Belluno dove c’era una serata dedicata a Erri De Luca, del quale avevo letto solo il primo libro, perché lui non era ancora uno scrittore, era un operaio che cominciava a scrivere. È una persona con cui si è creato un rapporto incredibile, al punto che quando è morta sua mamma lui è venuto a casa mia, sentiva di rifugiarsi in un posto dove nessuno gli facesse domande, lo consolasse in maniera eccessiva, perché è una persona molto schiva, molto particolare. Sono stato più volte a casa sua, ho condiviso in parte anche le sue passioni politiche, anche se all’epoca non ci conoscevamo. Ho creduto che, in qualche modo, il mondo sarebbe potuto essere oggetto di miglioramento. Regolarmente – la gente non lo sa – Erri va in Ucraina per cercare di portare conforto. Sente l’esigenza di un ruolo sociale. Prima di conoscere Mauro Corona e Erri De Luca avevo già la casa piena di libri, da quando conosco loro ancora di più. Sono stato con Mauro una quindicina di volte al Premio Nonino, siamo stati al premio Strega, ho conosciuto grazie a lui quattro premi Nobel, siamo stati a Torino, a Francoforte, a Gavoi… ho fatto con loro delle cose meravigliose, fino a quando ho avuto il coraggio (e spesso questo mi manca) di separarmi da quel mondo. Abbiamo vissuto un periodo magico, però poi il richiamo della terra è stato forte, ci vediamo periodicamente e non più a livello settimanale, come accadeva prima. È un rapporto meraviglioso (sono citato anche nell’ultimo libro di Erri, Spizzichi e Bocconi, n.d.r.) e a volte Mauro mi ha usato come personaggio di qualche sua storia. È un rapporto che mi gratifica moltissimo, penso anche di non meritarlo, ma è andato così».
Stefano Soi con l’amico Erri De Luca
Ciò che ti ha spinto è la passione per l’edilizia biosostenibile. L’uso della pietra, il legno, l’acciaio e gli isolanti sostenibili come la lana di pecora e il sughero. Appartenenza e rispetto: è la tua filosofia. Che significato hanno queste parole per te? Come le applichi nella tua azienda, nel tuo modo di vivere?
«Ho sempre creduto molto nel recupero dei materiali. La cantina è stata costruita con questi principi: materiali che non fossero da smaltire, ma che, alla fine del loro percorso, fossero recuperabili. A Nuragus sono stato il primo, dopo sessant’anni, ad utilizzare la pietra come materiale da costruzione. Molti usavano i blocchetti, o altri materiali. Avendo studiato a Venezia, dove c’è un’attenzione particolare, mi sono specializzato e ovviamente, quando si è trattato di costruire la cantina, ho adottato i materiali tra i più puliti: l’isolamento è fatto con il sughero, i muri con Gasbeton (materiale completamente riciclabile). I muri hanno circa sessanta centimetri di spessore, quindi non serve usare tanto la climatizzazione, quanto l’intervento passivo del materiale che ti permette di non fare entrare il caldo o il freddo. Inoltre noi in vigna non usiamo diserbanti, i pali della vigna sono tutti in legno e quando marciscono vengono sostituiti. Hanno una loro motivazione di tipo sostenibile, oltre che estetica.
Un altro aspetto importante, che ci tengo sempre a sottolineare quando parlo della vigna, è che noi abbiamo seguito la tradizione di fare le vigne in aridocoltura. Prendono acqua quando piove, ma abbiamo lavorato con gli innesti sulle viti americane, che sono viti selvatiche (non abbiamo preso le barbatelle già pronte) e queste hanno approfondito le radici, hanno fatto sì che scendessero fino in fondo, quindi anche nelle annate più siccitose la nostra parete verde delle vigne è sempre rigogliosa. Quando abitui le viti ad andare a cercare l’umidità in fondo, loro lo fanno. In campagna i migliori pomodori, i migliori meloni e la migliore uva, viene sempre in luoghi dove l’acqua non viene utilizzata. I noti meloni in asciutto della Marmilla, ad esempio, non ricevono un goccio d’acqua e sono presidio slow food. Ho creduto che la natura non vada troppo manomessa. Se in Sardegna per secoli e secoli hanno fatto degli ottimi vini senza usare irrigazione, c’è un motivo. Questa è la mia filosofia».
«Mi piacerebbe che questo spazio, questa corte in pietra dove si svolge la mia attività, possa diventare un luogo non soltanto di vino ma di racconti. Vorrei utilizzare questo spazio per dire: “Apriamo una bottiglia, mangiamo qualcosa e però condividiamo con le persone che ancora credono in questo tipo di racconto e che non vogliono soltanto stare attaccati ai cellulari!”. Uso internet e i social network, è inevitabile, ma con parsimonia. Ci sono persone che invece vivono per raccontarsi sui social. Non voglio essere tutti i giorni presente e dire la mia su tutto, per carità! Lo faccio con un compito quasi sociale, adoro l’idea che qualche ragazzo possa trarre spunto dal mio lavoro. Sono felice quando qui arrivano i giovani, è successo con gli studenti dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo di Carlo Petrini».
L’evento “Il Tinello”, Agricola Soi Nuragus
«Continuo a pensare che in Sardegna non tutto sia perduto. Si tratta di parlare forse con cento persone, di queste quattro ti seguiranno e solo una effettivamente avrà successo, ma io credo che pian piano il nostro territorio stia cambiando, che si stia creando una rete di persone che vogliono restare a stretto contatto con la terra. Non mi interessa l’idea di muovermi per fare turismo, ma per scambiare idee, acquisirle e riportarle qui a Nuragus. La mia officina, il mio bacino deve restare qui, perché mi fa piacere che la gente arrivi e capisca che non è vero che la terra è un qualcosa “da sfigati”, ma è un posto meraviglioso dove si possono raccontare storie. È quello che facciamo quando organizziamo le serate del “Tinello”. A me piace molto che venga raccontato quello che si mangiava un tempo. Da me si fanno i piatti che hanno le radici nella nostra cucina storica. Portare la gente qui, fare trascorrere loro una bella serata con musica dal vivo, raccontare, leggere un brano. Io ho scoperto nella gente che frequenta questi eventi, che preferisco chiamare “accadimenti”, una luce negli occhi. Qui la gente ha il piacere di venire e non se ne andrebbe più. Dobbiamo farlo vivere questo interno della Sardegna. Perché è meraviglioso. Credo che qui si possa vivere, non soltanto sopravvivere».
C’è chi li definisce commerciali, chi geniali, C’è chi mi reputa un artista a tutto tondo e chi mi percepisce come un “paraculo”. Io sono d’accordo.
Bob Marongiu
di Luciana Satta
«Ho sempre amato l’approccio alla vita concreto e allo stesso tempo sognante. Sono inclassificabile. Mi sento un artista in movimento». Parlare con Bob Marongiu è come entrare in un fiume in piena. Una corrente piena di parole, di idee, di sogni. Come gli occhi grandi dei suoi personaggi, che ti chiamano a giocare. Occhi che ti invitano a entrare nel quadro, a prenderli per mano e a tuffarsi nei colori . Il giallo, il rosso, l’azzurro. «L’espressionismo e il Fauvismo (https://it.wikipedia.org/wiki/Fauves) mi hanno influenzato, per l’uso dei colori: il mare verde, il cielo giallo e per la loro reinterpretazione della realtà attraverso lo stato d’animo – spiega -. Io sono positivo, quindi voglio rappresentare quel mio modo di sentire». Un vortice di gioia e di voglia di vivere.
«Sono apprezzato da chi di arte “non capisce un tubo”, da chi nella sua vita non ha mai acquistato un quadro, da chi ha comprato una casa perché ha visto un mio dipinto all’interno, la mia arte è definita arte ai massimi livelli, o “non arte”. C’è chi li definisce commerciali, chi geniali, c’è chi mi reputa un artista a tutto tondo e chi mi percepisce come un paraculo. Ho anche dei clienti internazionali, che hanno i miei quadri a fianco ad artisti importanti. Io non saprei chi difendere dei due schieramenti, sono d’accordo. L’unica cosa per ingannare il tempo, a parte l’amore era la pittura. Mi diverte e concordo con chi dice che non siano opere d’arte e con chi afferma che siano dei capolavori».
«Ho preso un sogno e gli ho tracciato le misure. Mi sono seduto a progettarlo con le squadrette».
Non so bene cosa volessi fare esattamente nella vita. Diciamo che ero molto “confuso”. Ho affrontato anche la pittura con questa “incoscienza”. Amavo la storia dell’Arte, mi sono appassionato quando frequentavo il liceo. Poi ho iniziato ad andare per gallerie. “Divoravo” i quadri di Picasso, o di Mirò, volevo capire cosa si nascondesse dietro quelle pennellate. Quel filo sottilissimo che lega l’artista alla follia. Avevo questa confusione, mista alla joie de vivre, all’allegria. Volevo manifestare la mia felicità, attraverso il sole, il mare, i colori. Ho vissuto a Firenze, uscivo di casa e mi immergevo nella città».
Esorcizzare il dolore, l’arte di Bob Marongiu ha anche questo intento. «Ho vissuto gli anni Novanta e mi rivedevo moltissimo nel modo di esprimersi di Jovanotti, di Leonardo Pieraccioni (*il regista possiede due quadri di Bob, n.d.r.), ad esempio. Consapevoli dei propri limiti, ma avevano grande capacità di comunicare con la gente. Io non volevo essere empatico o accomodante con gli altri, ero e sono proprio così. Mi sono sempre sentito un po’ “figlio delle stelle”, una specie di extraterrestre».
«Partivo da Mordillo e da Jacovitti, poi sono arrivati i Simpson. L’occhio di Mordillo era un “puntino”, un po’ stralunato. Gli occhi per me devono invitare al gioco, quell’atteggiamento di volerti coinvolgere».
«Questa era la mia idea. E’ quasi un invito a entrare nel quadro. L’occhio nasce con quell’obiettivo, anche se prima di disegnare gli occhi, c’erano “le Margherite di Bob”. Rappresentavo scene di vita ideale, storie a lieto fine».
«Andavo sempre a comprare i colori e un giorno ho acquistato tutto l’espositore. Per strada, tra i palazzoni marroni, immaginavo le margherite colorate. Ho vissuto un’esperienza forte che mi ha messo in contatto con artisti internazionali. Ero alla ricerca di qualcosa… Ero sempre spinto dalla curiosità e dall’osare il più possibile. A me piace il silenzio totale, la tranquillità, o il demenziale. Mi piacciono gli opposti».
Perché «Non è Bob se non è provocatorio».
***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e dell’autrice. Tutte foto sono state gentilmente concesse da Bob Marongiu, che ha autorizzato la pubblicazione.
“Un tempo, non molto lontano, il cinema italiano era grande di suo Una macchina dei sogni che andava dritta al cuore e alla testa degli spettatori Non eravamo Hollywood, ma sognavamo di diventarla Maestranze ruspanti, artigiani della macchina da presa, attori presi dalla strada Gente votata all’ingegno ma anche alla fatica Testimoni del tempo, del tempo dei nostri padri E di tutti quelli che ci avevano preceduto Avevamo scoperto che fare cinema era un bel modo di stare al mondo Di guadagnarsi da vivere I nostri figli entravano ed uscivano dai set Un film era un gioco di specchi, tutto si mischiava Da tempo sento dire che del grande cinema italiano rimane poco Ma forse non è vero, occorre tutelarne il ricordo Un ricordo che rimarrà indelebile Nelle memorie di chi l’ha vissuto“.
(tratto da Figli del Set, 2016, da un’idea di Carlotta Bolognini, regia di Alfredo Lo Piero)
Storia di una famiglia romana che ha lasciato un ricordo indelebile nella Storia del Cinema.
*In occasione del Premio Bolognini che si è tenuto a Roma, pubblico un estratto dal mio libro L’Arte di essere Figli (con un anteprima dell’intervista rilasciata dalla produttrice Carlotta Bolognini il 15 luglio del 2022) e vi racconto del Premio Bolognini – Anni D’oro del Cinema a cui ho avuto l’onore di partecipare venerdì 31 gennaio 2025.
di Luciana Satta
La voce narrante di Giancarlo Giannini a raccontare un tempo che non c’è più. Sul grande schermo scorrono le immagini di chi quell’epoca d’oro del Cinema italiano l’ha vissuta con gli occhi di un bambino: Renzo Rossellini, Ricky Tognazzi, Simona Izzo, Fabrizio e Fabio Frizzi, George Hilton, Danny Quinn, Alessandro Rossellini, Vera Gemma, Francesco Frigeri, Claudio Risi e tanti volti ancora, “Testimoni del tempo, del tempo dei nostri padri”.
Questa è la storia della produttrice cinematografica Carlotta Bolognini. Della sua infanzia trascorsa a “respirare Cinema” con suo padre Manolo, produttore cinematografico e con suo zio Mauro, regista. Figli del Set è il docufilm tratto da una sua idea per la regia del catanese Alfredo Lo Piero in cui ricorda la sua storia di figlia d’arte cresciuta sui set cinematografici. Un invito a cena nato dalla decisione di rivedere i suoi amici d’infanzia, i figli d’arte. Seduti intorno a un tavolo, con suo padre Manolo, nel suo film rievoca con nostalgia e attraverso foto, filmati, testimonianze e racconti, cinquant’anni di storia del Cinema. Una macchina dei sogni che andava dritta al cuore e alla testa degli spettatori. «Eravamo una famiglia molto legata – racconta – . Mio papà e mio zio non solo erano fratelli, ma i migliori amici l’uno dell’altro. Mio zio Mauro è stato un secondo papà per me e per mio fratello Andrea. Quando non c’era lui, c’era zio. Era un rapporto bellissimo». «Figli del set è nato dalla nostalgia che avevo del set e di tutte quelle persone che avevo conosciuto e che, purtroppo, non ci sono più. Mio papà me lo sono goduto fino al 2017, perché è morto a novantadue anni, ancora superattivo, stava preparando il Ritorno di Django, probabilmente il suo film prediletto. Zio Mauro invece purtroppo è scomparso nel 2001, dopo cinque anni di Sla, una malattia terribile».
Il docufilm ha partecipato come evento speciale al Giffoni Film Festival a Taormina, encomio del Presidente della Repubblica Mattarella, ventesimo su centoventuno ai David di Donatello, evento al Festival di Taormina.
Quello che mi colpisce maggiormente di Carlotta Bolognini è la sua straordinaria umiltà e dolcezza, doti che rendono difficile credere di essere di fronte a chi ha ricevuto tutti questi riconoscimenti: Premio “Donna che fa la differenza 2014”, in Campidoglio; Premi “Gianni Di Venanzo”, “ITFF international Film Festival”, “Premio Circeo”, ” Musa d’argento”, “Dea alata” a Venezia”, “Premio alla memoria Mauro Bolognini”, “Premio alla memoria Manolo Bolognini”, “Premio CortoDino Film Festival”, “Premio speciale Cinema, l’eco del litorale Anzio”, “Premio speciale Le donne nell’Arte”, “Premio Raf Vallone”, “Premio S.Te.P Festival, Teatro”. Tra questi, anche il Premio Apoxiomeno a Forte Dei Marmidove si è svolta la XXIV edizione del Premio internazionale Apoxiomeno, prestigiosa manifestazione promossa dell’International Police Association (Ipa) in collaborazione con l’Associazione Arte di Apoxiomeno.
«Essendo nata sul set, era quasi inevitabile – racconta -. Mio papà si è sposato mentre stava realizzando Il generale Della Rovere (1959, regia di Roberto Rossellini, n.d.r.), con Vittorio De Sica, al Teatro 5 degli Studi di Cinecittà a Roma. Ha detto: «Scusate, mi assento due o tre ore e torno!». È andato a sposare mia mamma e sono tornati al Teatro 5. Quindi io e mio fratello siamo nati e cresciuti sui set. Il mio primissimo film, è stato Django. Avevo cinque anni e una grande voglia di lavorare. Stando sul set ero la mascotte della troupe, la piccolina che saltava da un reparto all’altro, andavo al trucco, al parrucco. Mi infilavo in mezzo ai costumi e nelle ceste. A cinque anni dicevo: «Papà ma io voglio lavorare!». E lui: «Ma dove vai che sei piccolina!». Invece poi mi mise accanto (probabilmente per farmi stare buona) la segretaria di edizione, Patrizia Zulini, e mi raccomandò di stare attenta a tutti i particolari e di controllare se fossero presenti degli errori. Da lì ho ereditato la precisione nel lavoro, sto sempre molto attenta agli sbagli e che tutto sia collegato».
«Mio zio mi teneva tra le braccia spesso affinché controllassi quando era in moviola (è il nome di un sistema elettromeccanico utilizzato per la visione rallentata di filmati, n.d.r.), davanti alla mitica Catozzo (un tipo di giuntatrice specifica del montaggio dei film inventata da Leo Catozzo e utilizzata dai montatori cinematografici di tutto il mondo, fino all’avvento del montaggio digitale, n.d.r.). Ho da sempre avuto questa “febbre”. In Figli del Set ho voluto la stessa segretaria di edizione di Django. È stato il suo ultimo lavoro nel cinema, siamo ancora amiche».
ph. Giancarlo Fiori
«Del Cinema del passato mi manca tutto. Dalle persone al modo di lavorare e di filmare… il digitale ha tante convenienze, opportunità, agevolazioni, però la pellicola aveva un altro sapore, c’erano macchine enormi che venivano sollevate da tre macchinisti. Era tutto più artigianale, con le scatole delle pizze si facevano i portaceneri! (ride, n.d.r.). Adesso è tutto digitale. Nell’ultimo corto che ho realizzato abbiamo girato in una stanza dove c’erano i monitor, apparecchi sofisticati. Non si vive il set. Un tempo era un Cinema di tipo artigianale, stavamo tutti insieme».
Quali sono i valori più grandi che ha ereditato da suo padre e da suo zio, che le restano e che porta sempre con sé?
«L’onestà sempre, in tutto, il rispetto verso gli altri e verso il lavoro degli altri. Il riguardo per se stessi, per la famiglia, per gli amici. Zio aveva un grande rispetto per l’amicizia. Zeffirelli e Tosi erano suoi amici.
Valori rarissimi in quest’epoca…
Purtroppo sì, ma io dico sempre che preferisco “mangiare pane e cipolle”, ma rimanere pulita, corretta, onesta. Fino all’ultimo».
Una storia immensa, quella dei Bolognini, raccontata in Compagni d’arte, il nuovo docufilm diretto da Carlotta Bolognini e Fabio Luigi Lionello presentato a Roma lo scorso ottobre. Al centro della pellicola i giganti del Cinema italiano, di cui non si deve perdere memoria: da Mauro e Manolo Bolognini a Franco Zeffirelli, da Anna Allegri a Piero Tosi.
Venerdì 31 gennaio nella Sala della Regina di Montecitorio si è svolta la IV edizione del Premio Bolognini, alla presenza di tanti grandi professionisti del Cinema. «In occasione del centenario del mio papà – ha spiegato Carlotta Bolognini – ho voluto accanto a me un suo amico con il quale ha fatto cinque film: Franco Nero».
«Ho dei bellissimi ricordi di tuo padre – ha detto l’attore Franco Nero – ricordo in particolare la sua voce. Gli dicevo “Ma tu devi fare il doppiatore!”. Lui è stato il produttore del vero Django, nel 1966».
ph. Luciana Satta
***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e dell’autrice. Le foto private della famiglia Bolognini sono state gentilmente concesse da Carlotta Bolognini per il mio saggio L’Arte di essere Figli.
“La fotografia è l’unica terapia che ho a disposizione per realizzare i miei pensieri“
(Roberto Pintus, fotografo)
di Luciana Satta
Ci sono storie che vanno urlate. Anche se, come ricorda Roberta – una delle donne protagoniste della mostra e del calendario Le urla delle donne – ideati e realizzati dal fotografo Roberto Pintus – a volte la violenza non fa rumore e non lascia lividi, ma fa comunque a pezzi (*cit. Susanna Casciani).
Donne riprese in momenti di vita quotidiana, durante la loro professione, o nel tempo libero. Di contro, quello sguardo attento, intimo, l’occhio del fotografo che è l’anima della donna, quasi la sua coscienza, sguardo indagatore dietro quell’immagine apparente mostrata agli altri.
L’esposizione fotografica Le urla delle donne è stata patrocinata dal comune di Sassari e inaugurata lo scorso 25 novembre – in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne – a Palazzo Ducale. Ospitata fino al 7 dicembre, è diventata un calendario i cui proventi saranno devoluti al Progetto Aurora. Protagoniste dodici donne. «Con questo mio progetto – spiega Pintus – ho voluto creare dodici racconti che mostrassero cosa si può nascondere dietro il sorriso di una donna. È stato complicato portare a termine tutto il lavoro, ci sono voluti cinque mesi per realizzarlo. Ho scelto donne comuni, non modelle. Alcune di loro non avevano mai posato.
Ero preoccupato, perché non sapevo come il mio progetto potesse essere percepito dall’esterno. Attraverso le mie foto ho voluto mostrare ciò che può celarsi dietro l’immagine di una donna “felice” e mostrare i diversi aspetti della violenza, dalla psicologica, alla fisica, alla verbale».
«Un giorno – prosegue il fotografo – ho assistito ad una scena che mi ha colpito particolarmente e mi ha fatto riflettere. Passavo per strada e si è aperta una finestra, si è affacciato un uomo che, mentre stendeva i panni, si rivolgeva ad una donna insultandola e dicendole: Non sai neanche stendere! Lei piangeva».
Secondo i dati del Ministero degli Interni dal primo gennaio al 22 dicembre 2024 in Italia si registrano 300 omicidi, con 109 femminicidi. 109 vittime sono donne. Un fenomeno che a volte è silente. Perché la violenza non è solo fisica. Rompere il silenzio attraverso il linguaggio per immagini. Sono foto “potenti”, che arrivano come urla inascoltate. Questo è il messaggio di Roberto Pintus.
Un incontro casuale, quello tra Roberto Pintus e la fotografia. Una passione nata nel 2012. I suoi scatti messaggi portatori di cultura, di arte e di sensibilità. Oggi le sue fotografie sono racconti della Stagione teatrale del Ce.DA.C di Sassari, per La Grande Prosa & Danza al Teatro Verdi e al Teatro Comunale.
«Mio fratello, Tore Pintus (*Responsabile Circuito Teatro e Danza Ce.DA.C Sassari), aveva necessità di un fotografo per la Stagione teatrale. Odiavo fotografare a teatro, non era un genere che mi piaceva. Ora lo adoro».
«Diversi attori e attrici, come Caterina Murino, Anna Foglietta hanno apprezzato i miei lavori, anche tanti ballerini, alcune Compagnie teatrali hanno scelto le mie foto. Mi manca quando non scatto».
ph. Roberto Pintus per Ce.DA.C Sassari
«Sono stato il fotografo ufficiale di Miss Grand Prix, Miss Blumare, per sei anni. Ma sono autodidatta, è nato tutto per passione. Ho iniziato per “gioco”. All’inizio mi piaceva fotografare la natura e i paesaggi. Ho iniziato a fare caccia fotografica, mimetizzato. Ho realizzato la mia prima mostra nel 2014 a palazzo Ducale a Sassari, in sala Duce. Si intitolava Un solo momento».
ph. Roberto Pintus
«Nel 2012 mi hanno chiesto di partecipare ad un Workshop fotografico. Ho conosciuto un gruppo di fotografi che si chiama Riscatto foto libera e ho legato con Giammario Cherchi, che in seguito si è appassionato alla caccia fotografica e all’infrarosso. La mia curiosità per l’infrarosso è nata anni fa. Mi aveva colpito una immagine scattata sul lago di Gusana, realizzata con questa tecnica. Mi piacciono le foto di Simone Pollastrini, siamo diventati amici. Amo particolarmente il filtro 590, che trasforma il colore verde in giallo oro».
«Dicevo: «Non diventerò mai bravo!».
“L’unica cosa che mi salva da tutti i mali. La fotografia“
(Roberto Pintus)
***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e dell’autrice. Tutte foto sono state gentilmente concesse da Roberto Pintus, che ha autorizzato la pubblicazione.
Chi viene a Pattada vuole il coltello tradizionale, cerca la Storia
Massimo Manca, Coltelli artigianali
di Luciana Satta
Il martello che batte sull’incudine. La sega nastro che taglia il corno. La raspa e la lima per le rifiniture. Quelli che per tutti sono percepiti come “rumori”, per un maestro forgiatore come Massimo Manca si trasformano in suoni. Suoni familiari che ogni giorno, da vent’anni, lo accompagnano nel suo laboratorio alla ricerca della perfezione nella costruzione di un oggetto diventato l’orgoglio dell’Isola nel mondo: sa resolza, il coltello di Pattada (***A serramanico, la sua lama viene realizzata in diverse lunghezze).
Simbolo di identità culturale, con la sua tipica lama “a foglia di mirto”, sa resolza ha una storia secolare. «L’utilizzo dei materiali – spiega l’artigiano – era il corno, che si ricavava dal bestiame per realizzare i manici. Il metallo, perché in antichità in Sardegna erano presenti vari giacimenti ferrosi. Le prime attestazioni risalgono al 1800. Era il coltello che il pastore possedeva per qualsiasi esigenza. Ora è un oggetto prezioso, ma realizzato con materiali semplici. Quella è la base».
«La mia intenzione – prosegue – era (ed è) di trasformarlo, utilizzando anche materiali preziosi. Considera che uno dei miei coltelli ha 331 diamanti. Ci vuole il mercato giusto, non sono oggetti che espongo nel mio laboratorio, perché chi viene qui da me cerca il coltello classico. Chi viene a Pattada vuole il coltello tradizionale, cerca la Storia».
Una tradizione destinata all’estinzione, come tante – purtroppo. «È un’arte che si perderà, la mia attività inizia con me e finirà con me. Nessuno mi ha mai chiesto di imparare, molti artigiani e tradizioni si perderanno».
Lucio Dalla aveva, sulla sua scrivania, un coltello realizzato da Massimo Manca. «È ancora nel suo studio – racconta l’artista di Pattada – glielo regalò un cugino. Lo utilizzava come tagliacarte».
Da Montecarlo a Dubai, da Londra alla Corsica. Oggetto da collezione, orgoglio dell’Isola, il coltello di Massimo Manca è arrivato in diverse parti del mondo. Dalla famiglia reale del Principato di Monaco, dal principe arabo Hamdan Al Maktoum di Dubai. «Sette anni fa ho ottenuto una vetrina esclusiva nell’hotel Burj Al Arab. Avevo sempre la passione per questo hotel, è particolare perché ha una forma che riproduce una vela. Ho provato a realizzare un coltello, perché la vela ne ricorda la forma. Ho conosciuto un signore che trascorre le giornate in questo hotel e tramite lui sono stato contattato dal direttore».
«Sono stato invitato a Dubai e ho consegnato personalmente un coltello al direttore del Burj Al Arab; inoltre, attraverso l’interprete, gli è stata raccontata la storia ed è rimasto affascinato. Non sapeva come sdebitarsi per questo omaggio e mi ha proposto di realizzare lo stesso coltello, in formato più piccolo, poi mi ha chiesto di creare circa dodici pezzi, destinati alla vendita nelle boutique dell’hotel. Per un piccolo artigiano come me è stato un evento incredibile».
Massimo Manca con il figlio del re di Dubai, prince Hamdan al Maktoum
«Nel 2007 Ferrari organizzò un tour mondiale, con circa duecento Ferrari che hanno girato il mondo. Ogni Stato o regione interessato offriva un omaggio della propria tradizione. Sono arrivati in Sardegna, da Porto Cervo a Cagliari. Mi hanno scelto per realizzare i coltelli, sono gli unici al mondo con il marchio Ferrari».
Gli appassionati sono numerosi e alcuni coltelli sono delle rarità. «Vengono venduti ai collezionisti, molti vogliono acquistare il coltello di Pattada perché hanno sentito la storia. Molti lo acquistano per regalarlo. A Bolotana, ad esempio, ho creato dodici coltelli per uno sposo che ha voluto donarli come “bomboniera”. È un simbolo. Richiedono moltissimo anche i set da tavola. Poco prima dell’estate ho creato 120 pezzi per un ristorante in Corsica, un altro centinaio per l’Harris bar di Londra, altri pezzi ancora per un privato, sempre a Londra».
«Da quattro anni la mia attività sta andando tantissimo, grazie soprattutto ai sacrifici e all’impegno. Ho iniziato in un momento molto complicato della mia vita. Avevo alle spalle un lavoro andato male ma, grazie a Dio, ho sempre avuto una buona manualità e il lavoro manuale è sempre stato fondamentale per me ma, non essendo figlio di un artigiano, è stato difficilissimo. Lo considero “un dono”».
Un dono, per il quale Massimo Manca ringrazia soprattutto sua madre, che vent’anni fa lo ha incoraggiato a intraprendere quest’arte e a realizzare i suoi meravigliosi coltelli.
***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e dell’autrice. Tutte foto sono state gentilmente concesse da Massimo Manca, che ha autorizzato la pubblicazione.
Non vorrei vivere in un altro posto Lontano dal mare Per me è tutto È l’immenso Con la mente puoi vagare altrove Perché non c’è una fine, vedi sempre l’orizzonte
(Tecla, una delle protagoniste del film “Fiori sotto Pelle”)
Le ciocche dei capelli sono come le foglie. Vanno via, basta il vento. La forza della natura e il coraggio della donna. Valeria, Tiziana, Tecla sono il simbolo di chi ha trovato la forza di guardare avanti. Oltre il dolore e la fragilità. Sono il lungo inverno che non può durare a lungo, perché nessuno può fermare la primavera. Quelle foglie spazzate via da un flebile soffio di vento sono ghirlande di fiori colorati e vivi sulle loro teste.
Fiori sotto pelle del regista Karim Galici non è solo un film. È una poesia che ci fa accostare con delicatezza alle storie delle tre donne protagoniste, espressione della fragilità che si trasforma in speranza, delle lacrime che si fanno sorrisi e dei loro occhi, così autentici e veri.
La storia di Valeria, di Tiziana e di Tecla è una testimonianza preziosa anche di chi sta vicino a queste donne e accanto a loro combatte la battaglia della malattia oncologica con spirito guerriero. Come il compagno di Tiziana, Alessandro: «La sua parrucca – dice – è particolare, ha riflessi blu, lei è stupenda, è sempre più bella. Questi riflessi blu mi fanno pensare al mare, al cielo, alla natura. La vedo splendere».
Il mare. Il mare è fondamentale, elemento centrale, il respiro della vita, l’orizzonte da non perdere di vista, la speranza. «Creo – spiega il regista, Karim Galici – una sceneggiatura che è una scaletta con delle idee che inizialmente tengo per me, perché so che possono variare. Nella prima versione ho pensato alle quattro stagioni. Nella prima idea associavo il mare a immagini più estive, ma avremmo dovuto portare avanti il lavoro per tutto l’anno. Sono state le donne stesse a sottolineare il rapporto con il mare, soprattutto Tecla, ma anche Tiziana. Penso che sia inevitabile. Sentiamo molto forte l’influsso dal mare e pensa a quanto possa avere inciso su Tecla, che vive a Peonia Rosa, sotto l’isola del Toro. L’isola nell’isola di sant’Antioco. Anche per me ha un significato di circolarità, come le stagioni della vita».
Il nuraghe. All’inizio del film le tre donne percorrono un sentiero, arrivano al nuraghe Cuccurada (Mogoro), entrano, alla fine del film escono da questo luogo. La scelta del nuraghe ha un significato preciso per le protagoniste, simbolico per il regista. «È un luogo misterioso. Ho percepito un parallelismo con una malattia che è essa stessa ancora “un mistero”, il cancro. È come se anche queste persone fossero all’interno di una situazione “labirintica”. Quando ho visto la maestosità del nuraghe Cuccurada, ho pensato a come potesse essere in origine e che ci fosse un parallelo tra queste storie e quel luogo. È bello trasmettere l’esempio di queste donne, perché chissà quante si scoraggiano… invece sapere che in questo perdersi c’è la possibilità di ritrovarsi dimostra come queste donne si siano incontrate, anche nella realtà. Ci hanno messo un attimo a capire che si trovano sulla stessa barca e possono aiutarsi le une con le altre».
«Avrei voluto che, idealmente, come in un ciclo, queste donne avessero età diverse. Valeria ha circa trentacinque anni, Tiziana ne ha quasi cinquanta, Tecla circa settanta. Abbiamo conosciuto Tecla a Carbonia, durante una giornata della consegna delle parrucche. La produzione aveva preso accordi specifici e avevamo un punto di riferimento importante, il dott. Atzori (dott. Francesco Atzori, Responsabile oncologia ospedale Sirai Carbonia, n.d.r.). Abbiamo ripreso tutta la consegna. Ho parlato con Tecla in un modo molto intimo ed è come se si fosse scelta da sola.
Un’altra volta eravamo a Nuoro, nel Salone delle coccole. Quando siamo arrivati lì siamo rimasti un po’ spiazzati perché pensavamo di vedere una decina di donne che ricevevano le parrucche, invece erano solamente in due. Tiziana era molto perplessa sul fatto di apparire e di prendere parte a questo lavoro. Ci aveva colpito il rapporto con il suo compagno. È stata un’intervista bellissima.
Valeria è stata consigliata dal Salone di Valentino di Mogoro ed è anche una volontaria, aiuta nella donazione delle ciocche. Lavora come personale medico, è una figura di riferimento per questa rete di parrucchieri».
“Le ciocche donate, il lavoro minuzioso e professionale di una rete di parrucchieri solidali, l’impegno del personale medico e dei volontari, esprimono un meraviglioso abbraccio alla condizione umana in tutta la sua fragilità“.
Fiori sottopelle di Karim Galici è prodotto dall’associazione Oltresardegna con il contributo della Regione Autonoma della Sardegna – Assessorato della Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport in collaborazione con l’associazione Paravè – Progetto Inachis, la Fondazione Andrea Parodi e il Comitato Nazionale Italiano Fairplay.
***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e dell’autrice. Un ringraziamento particolare a Paola Piroddi, direzione scientifica, e a Dafne Turillazzi, ufficio stampa dell’associazione Oltresardegna. Ringrazio il regista, Karim Galici, per l’intervista e la disponibilità. Le foto sono di proprietà dell’Associazione Oltresardegna.
Il folle che parlava agli uccelli apre la stagione del CEDAC
L’uomo iniziò a dare i nomi alle cose Ma sbagliò le parole Chiamò il denaro “valore” La specie “razza” Separò le ricchezze e le persone E chiamò “progresso” l’autodistruzione L’uomo disse: «I ghiacci si sciolgono il mare si avvelena, La terra non produce L’aria ammala».
Simone Cristicchi
Riflessioni, canzoni inedite, domande si alternano in un gioco di chiaroscuri. Con Franciscus/ Il folle che parlava agli uccelli Simone Cristicchi porta sul palco del teatro Verdi di Sassari per la prima del CEDAC, tutta la sua sensibilità, alter ego di «Franciscus, il rivoluzionario, l’estremista, l’innamorato della vita. Franciscus che visse per un sogno. Il folle che parlava agli uccelli e che vedeva la sacralità e la bellezza in ogni dove: nel volto di una persona, nello sguardo di un animale, ma anche nel sole, nella morte, nella terra su cui camminava insieme agli altri».
Al centro della scena, i grandi temi dell’Umanità: la vita e la morte, la gioia del donarsi, il dolore, la guerra interiore e tra gli uomini. La follia. Perdersi per ritrovarsi. E uno scambio intenso e profondo con il pubblico.
ph. Roberto Pintus
Simone Cristicchi veste Francesco D’Assisi di contemporaneità, attraverso i suoi occhi di artista viscerale, quando toglie il copricapo e svela se stesso con le sue mille domande sul senso dell’esistenza e attraverso lo sguardo di Cencio, personaggio centrale, quando il copricapo lo indossa insieme agli abiti di tela di sacco.
Foto di Roberto Pintus
Cencio, lo “straccivendolo”, voce narrante, non comprende la scelta di Francesco, è specchio dei suoi detrattori. E’ alla fine, nella sofferenza, che coglie il significato del suo messaggio.
ph. Roberto Pintus
«Mi era necessario approssimarlo , sia nel senso di avvicinarlo, tramite approfondite letture, conferenze, e visite nei suoi luoghi; sia nel senso di semplificarlo, per poterlo comprendere e sentire accanto, correndo il rischio di essere impreciso, insolente, insolito – ha spiegato Cristicchi -. Così è uscita fuori l’idea che ho di lui. Il mio Francesco. Non riuscivo a mettermi nei suoi panni, perciò me li sono fatti prestare da Cencio».
ph. Roberto Pintus
Io Francesco, lo amo e lo odio. Lo amo perché è di tutti. Lo odio perché non è per tutti. Lo amo perché è luminoso e carnale, così umano. Lo odio perché è difficile da imitare, troppo vicino al divino. Lo amo perché mostra una via. Lo odio perché quella via non ammette bugia.
Simone Cristicchi
ph. Roberto Pintus
di e con Simone Cristicchi scritto con Simona Orlando canzoni inedite di Simone Cristicchi e Amara musiche e sonorizzazioni Tony Canto scenografia Giacomo Andrico luci Cesare Agoni costumi Rossella Zucchi aiuto regia Ariele Vincenti produzione Centro Teatrale Bresciano, Accademia Perduta Romagna Teatri in collaborazione con Corvino Produzioni
“Lo sentite? Un tessuto interminabile dai disegni indefiniti In un tempo indefinito In un’attesa indefinita e segreta Sono io che attendo, tessendo Attendo cosa? per ogni cosa c’è un suo tempo e non ne esiste uno migliore Ah sì, ora so. Aspetto qualcuno che un giorno verrà a prendere questa stoffa e il segreto della tessitura Io stessa lo poserò sulle ginocchia come adesso confido a voi queste parole”
*Testo di Gianluca Medas (Teatro Astra, Sassari, 23 novembre 2024)
La lunga notte di Raffaella. Dove le emozioni e i ricordi vagano, alla ricerca di un “perché”. Dove lei attende che qualcuno un giorno sciolga i nodi della matassa dei suoi pensieri che all’imbrunire si ripresentano per terminare all’alba, quando suo padre la chiama per andare a scuola. Ha dodici anni, Raffaella. Come una farfalla, immagina di volare via. Di librarsi in volo e di liberarsi da quel piccolo mondo che non la comprende, fatto di gesti e parole crudeli che arrivano dai coetanei, ma anche dagli adulti.
Cala la notte e, puntuale, la giostra dei suoi pensieri non si arresta.
“La notte si stende densa di foglie nella casa tutta scintillante di gocce di rugiada e di stelle nel fondo si perde un cavallo azzurro, screziato d’argento“
Così una ragazzina di dodici anni diventa come uno specchio, di fronte al quale lo spettatore non può riflettere se stesso con indifferenza. Lo spettacolo invita a rompere le barriere del moralismo e dei pregiudizi sul tema dei Disturbi Specifici del Linguaggio. La difficoltà di comunicazione di una ragazza che si affaccia al mondo con difficoltà e sofferenza diventa specchio della mancanza di comunicazione dei nostri tempi. Il non capire e il non capirsi. Respingere ciò che è “altro” rispetto a noi, a causa delle nostre abitudini radicate e strutturate.
“Soltanto l’Amore e la Bellezza resistono un po’ al tempo benché io non conosca il significato né dell’una né dell’altra Qualcosa come un tocco leggero sulla nuca“
L’attrice Sofia Quagliano ph. Luciana Satta
«Vengo qui un po’ come un pellegrino – afferma il regista, Franz di Maggio, al termine dello spettacolo -. Sono ligure, di adozione, poi ho vissuto a Pavia. Per tanti anni ho visto gli spettacoli di Gianluca Medas e ho sognato un giorno di poter lavorare con lui. Un giorno ha fatto una cosa straordinaria: ha preso un aereo, è venuto a Pavia e mi ha chiesto di fare la regia di questo spettacolo. Sono onorato e felice di questa occasione che mi ha dato e onorato e felice di lavorare con queste persone che sono qui accanto, Sofia Quagliano e Nicola Agus».
Il polistrumentista Nicola Agus ph. Luciana Satta
La Lunga notte – Volevo essere una farfalla (di Gianluca Medas, regia di Franz di Maggio, con Sofia Quagliano, musica dal vivo Nicola Agus) è andato in scena sabato 23 novembre ed è inserito nel cartellone del XXXIV Festival Etnia e Teatralità della Compagnia Teatro Sassari.
Un altro momento dello spettacolo al teatro Astra ph. Luciana Satta
La locandina e il cartellone del XXXIV Festival Etnia e Teatralità, dedicato a Giampiero Cubeddu
***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte
“I narratori sono strani. Porto qua questo mondo strambo che ogni tanto mi nasce in testa“
Alessandro Baricco (Teatro Verdi, Sassari, 26 novembre 2024)
Farsi trasportare dalla musica, dalle parole. Perché AbelConcerto fa “entrare lo spettatore in un fiume”. “Lasciate andare”, dice Alessandro Baricco al pubblico del Teatro Verdi, glielo sussurra, con quella voce calma che lo fa entrare in una danza, in un vortice dove la frase e il suono si fondono e si confondono, scivolano, lo accompagnano, lo cullano in un mare di grazia e di leggerezza. Insieme allo scrittore torinese, Cesare Picco, Roberto Tarasco e Nicola Tescari. “Ho scelto tre musicisti che mi piacciono molto, perché mi accompagnassero, e sono a loro molto grato”.
“Non è importante se avete letto il libro, non è neanche molto importante se capite bene la storia… Ho pensato di scegliere alcune pagine.
Sono colori, paesaggi, personaggi qua e là, frasi, cose che accadono ma, soprattutto, mi piacerebbe che entraste in questa specie di corrente di suono di questo Western”.
Sento una vibrazione, allora sparo.
Che ne so, come una vibrazione.
Estaggo e sparo.
Un minuscolo fremito del mondo, ecco. Dura meno di
un istante. Ho imparato a percepirlo da molto piccoli, nelle
grandi solitudini dove sono stato prima bambini, poi uomo
a undici anni, infine vecchio a diciannove quando mio
padre John John tolse il disturbo […]
“Quando pensavo a questo libro non sapevo bene esattamente cosa volessi fare, ma avevo in mente una storia di pirati. Seguivo queste storie. Ero stato su un grande fiume sudamericano, enorme, caldo terrificante… alla fine ho scelto un Western, è un genere magnifico, io lo amo molto. È la storia di un pistolero fantastico, che per strada perde le ragioni per sparare. Ma le perde con leggerezza e gioia”.
Abel Concerto è “per Baricco un’esperienza sonora”, per noi che ascoltiamo rapiti un dialogo intimo. “I narratori sono strani – afferma lo scrittore – Porto qua questo mondo strambo che ogni tanto mi nasce in testa”.
Credits: Mattia Uldanck
Baricco ritorna a Sassari dopo tanto tempo, “dopo un secolo”, dice lo scrittore. Dal suo primo romanzo, Castelli di Rabbia (1991), a Oceano mare, da Novecento, tradotto in ventitré Paesi, a Seta, il suo successo è stato enorme. “E’ strano, noi scriviamo libri e si pensa spesso che scriviamo cose che ci sono successe. Non vorrei che mi prendeste per pazzo, ma voi non avete idea di quante cose si scrivono e non ci sono successe, ma ci succederanno. Spesso sono Profezie”.
L’evento al teatro Verdi di Sassari è stato organizzato da Le Ragazze Terribili in collaborazione con Mister Wolf per la quinta edizione del Festival letterario Fino a Leggermi Matto-Musica tra le pagine. Abel Concerto è una produzione Savà Produzioni Creative e Feltrinelli, in collaborazione con Scuola Holden, che nel 2024 celebra 30 anni dalla fondazione.
(*Associazione GiULia GIORNALISTE UNITE LIBERE AUTONOME)
Riflessione in occasione della Giornata contro la violenza sulla donna
Arriverà oggi la sentenza della Corte d’Assise per Alessandro Impagnatiello, l’ex barman che il 27 maggio 2023 uccise con 37 coltellate la sua compagna Giulia Tramontano, incinta al settimo mese
Ma la violenza il più delle volte non si paleserà ai vostri occhi: è infida, nascosta dietro “facce pulite”, dietro ai moralisti e ai perbenisti.
A volte è gaslighting , a volte diventa stalking.
Spesso è fatta di triangolazioni e di diffamazioni che tutti ascoltano e conoscono, tranne il diretto o la diretta interessata, perché chi appare come la vittima è sempre più credibile, un po’ come la storia del lupo travestito da agnello.
A volte è quella molestia sottile, quell’umiliazione nascosta dietro la finta ironia, dietro quella battuta o quel commento che quando non accetti ti rispondono “Sei acida”.
Spesso è anche da parte delle donne e ti arriva come un pugno nello stomaco, perché non te la aspetti. È fatta di sgambetti e di invidia. E sempre di diffamazione.
Perché non è solo il nostro corpo che si vuole annientare, ma la nostra mente, la nostra anima, le nostre idee, la nostra creatività. La nostra essenza.
Alla Pinacoteca di Sassari le sue opere straordinarie
Processione in Barbagia (olio su tela) ph. Luciana Satta
“Quando si viene quaggiù per guardare le cose da vicino… e non si viaggia come le sardine dentro a una scatola o come le acciughe, in un barile… non si fa fatica a comprendere che questo non è un popolo barbaro. E la sua civiltà è nobile e antica“.
Giuseppe Biasi
Così il pittore Giuseppe Biasi descriveva la sua amata Terra.
La Sardegna, che era sempre stata descritta dagli antropologi dell’epoca come un luogo derelitto, oppresso dalla fame e devastato dalla malaria e dal banditismo, riconquistò, finalmente, nelle opere di Biasi, la sua dignità.
Proprio a questo straordinario artista del Novecento è stata dedicata nel 2008 una esposizione all’ex Convento del Carmelo. Si trattava del cosiddetto “Fondo Biasi”, la collezione delle opere di proprietà dell’Amministrazione regionale, il più significativo corpus di lavori mai esposti fino ad allora.
La mostra, curata da Giuliana Altea e allestita da Antonello Cuccu e dalla Ilisso, comprendeva 283 oli, tempere, ma anche chine, linoleografie e xilografie.
2024 – La collezione è stata esposta, a distanza di anni, alla Pinacoteca nazionale di Sassari, in piazza Santa Caterina, in un allestimento nuovo, curato dalla direttrice Maria Paola Dettori.
La mostra alla Pinacoteca nazionale di Sassari
Resterà aperta, in tutto il suo splendore, fino a gennaio del 2025. In alcune sale del museo, gestito dalla direzione regionale musei della Sardegna, sono presenti dipinti, incisioni, la produzione grafica e le opere dedicate al periodo africano.
Un viaggio a tutto tondo nell’arte di Biasi, attraverso i diversi aspetti della sua produzione: dalla pittura al disegno, fino all’incisione. Il Fondo Biasi fu acquistato nel 1956 e fu conservato nei depositi della Soprintendenza di Sassari, finché nel 1984 fu esposto in due mostre, a Sassari e a Nuoro. Nel 2004, poi, la regione la affidò in custodia al comune di Sassari in due differenti depositi, in via di una sistemazione definitiva.
Alcuni dei dipinti più significativi sono stati restaurati.
Il Caffé (olio su faesite) e di seguito particolari del dipinto ph. Luciana Satta
Nei 1.600 metri quadri di spazi espositivi nel 2008 si era evitato di separare le opere che raccontano l’Isola da quelle che evocano l’Africa, preferendo piuttosto un ordine cronologico, mettendo così in evidenza l’evoluzione del linguaggio dell’artista. Allo stesso tempo le opere pittoriche non erano state separate da quelle grafiche, per dare maggiore risalto al legame inscindibile tra i due settori.
Uscita dalla chiesa (olio su tela) ph. Luciana Satta
La Sardegna popolare e l’Africa vivono attraverso gli occhi di questo artista sardo influenzato dalla pittura secessionista e espressionista.
Il Fondo Biasi raccoglie l’intera opera del pittore. Dal decorativismo degli anni Dieci di alcune grandi tele, all’olio Processione in Barbagia, “Dove lo sguardo dello spettatore si sposta bruscamente dalle figure in primo piano immerse nella penombra, sullo sfondo del paese illuminato dal sole. Questo quadro segnò il debutto del pittore alla Biennale di Venezia del 1909 e ne testimonia la fase secessionista giovanile, molto vicina all’illustrazione.
La pennellata densa rivela invece, nella seconda metà degli anni Dieci, l’evoluzione stilistica del pittore. Risale a questi anni, precisamente al 1923, Germania Lonati, dipinto da Biasi a Bellagio, in Lombardia, in cui si vede l’influenza dell’austriaco Klimt.
Ancora, gli splendidi ritratti di fanciulle in abiti tradizionali, come la Sposa di Ollolai, La ragazza di Busachi, La ragazza di Oliena e Il ritratto di Mintonia, del 1935 circa.
Ritratto di Mintonia (olio su compensato) e Sposa di Ollolai (olio su tavola) ph. Luciana Satta
Il percorso espositivo conduce alla fase del suo lungo soggiorno in Nordafrica, dal 1924 al 1927, durante il quale la pittura diventa un’indagine sulle differenze, sul rapporto tra cultura occidentale e “mondo altro”.
“Un mondo bellissimo, fatto soprattutto di corpi femminili”…
Studio di donna africana 1924-26 (olio su compensato) ph. Luciana Satta
Studio di donna africana 1924-25 (olio su tela) ph. Luciana Satta
“Come colui che ha fatto il giro del mondo – spiegava l’artista – svilupperò tutto l’intero materiale raccolto, e qualche cosa ne deve nascere. Tra l’arte egiziana e quella indiana di cui arriva qui l’ondata, ho subito una potente lavatura”.
***Questo testo e gli scatti non possono essere riprodotti, senza l’autorizzazione dell’autrice, che ne detiene i diritti. Il testo riferito alla mostra di Biasi nell’ex Convento del Carmelo è apparso nel 2008 sulla rivista “Il Messaggero sardo (e pubblicato qui di seguito).
Ci sono storie scritte e storie ancora da scrivere… tante sono rimaste impresse sulla carta, altre sono state nascoste, custodite, amate o odiate, da qualcuno sottratte, alcune consumate, altre ancora scopiazzate. Ma restano. Hanno gambe veloci e occhi grandi, le storie scritte. Rompono silenzi. Valicano muri. Evolvono. Frutto del passato, con lo sguardo orientato verso il nuovo. Si cambia strada, sempre! Quello che leggerete è frutto del mio lavoro e della mia passione. Questa è la casa delle mie idee, dei miei pensieri, dei miei incontri.
Liliana e suo padre Antonio. Uno sguardo per capirsi. Un legame che è come una coperta che ripara e protegge in quei momenti della vita in cui si sente freddo. Il prima e il dopo, la vita e la morte, spartiacque tra la presenza e l’assenza di un’artista immenso che rimane, a dispetto del tempo che passa e come in un fermo immagine, nel cuore e nell’affetto del suo pubblico, conquistando così il dono dell’immortalità. Una rete di protezione che, quando manca, lascia un senso di vuoto incolmabile e una struggente nostalgia in Liliana, per quel rapporto così stretto e speciale tra padre e figlia. Questa è la storia di Liliana De Curtis. La racconta per lei sua figlia, Elena Alessandra Anticoli De Curtis, nipote di Totò, erede di una memoria storica custodita negli anni da sua madre (scomparsa il 3 giugno 2022, n.d.r.). […]
Se la vuoi scoprire, continua a leggere il terzo capitolo del mio saggio L’Arte di essere Figli. Con foto inedite e l’intervista esclusiva alla nipote, rilasciata il 1° maggio 2022, quando Liliana De Curtis era ancora in vita. Ha vissuto con la figlia Elena Alessandra, che si è presa cura di lei fino all’ultimo suo giorno). https://www.carlodelfinoeditore.it/scheda-titolo.aspx?isbn=9788893613040
***Questo testo e il materiale fotografico concessi in via esclusiva per specifica pubblicazione non possono essere riprodotti. Non si autorizza alcun tipo di riproduzione o pubblicazione.Ringrazio la sign.ra Elena Alessandra Anticoli De Curtis per l’immensa disponibilitàe gentilezza.
Cristiana Ciacci da bambina, in compagnia del suo amato padre, Little Tony
«Eravamo simili nell’estro, avevamo entrambi la testa tra le nuvole, un lato artistico, anticonformista, un modo tutto nostro di pensare e di vedere la vita. Camminavamo sempre “sulla luna”. Invece eravamo differenti in altri aspetti del carattere. Papà è sempre stato una persona molto allegra: gli piaceva stare bene, divertirsi, circondarsi di amici e di persone che lo facessero ridere e sorridere. Io invece ho sempre avuto una pesantezza, una tristezza, una malinconia di fondo. Ci siamo scontrati tante volte per questo. Lui avrebbe voluto che fossi più leggera, più simile a lui, più cittadina del mondo, libera, anche nelle frequentazioni, nelle amicizie, mondana. Io invece ero l’opposto». […]
Nel mio saggio L’arte di essere figli (Luciana Satta) – Carlo Delfino editore vi racconto la storia di Cristiana e di suo padre Antonio Ciacci, in arte Little Tony. Con intervista rilasciata il 14 marzo 2022 e foto preziose gentilmente concesse dall’artista.
Questo testo e il materiale fotografico concesso in via esclusiva per specifica pubblicazione non possono essere riprodotti. Non si autorizza alcun tipo di riproduzione o pubblicazione.
Francesco Venditti da bambino con suo padre, Antonello Venditti, e sua mamma, Simona Izzo (gentilmente concesse dall’artista per il saggio “L’Arte di essere Figli”)
Peppino, Peppino, figlio dell’amore In quale vicolo o strada, batterà il tuo cuore In quale culla di pietra pura Imparerai, la vita è un’avventura
Peppino, Peppino, tu la dovrai amare Amare è dura e senza frutti al sole C’è più coraggio nella fantasia La vita tua diventa mia. (Peppino Peppino, Antonello Venditti, dall’album Venditti e Segreti, 1986)
«Ho capito la canzone Peppino Peppino quando avevo diciassette anni, perché prima non solo non avevo ancora una personalità definita, ma neanche la conoscenza dei fatti, dell’amore, del sapersi raccontare, del sapersi dare». Francesco è il figlio del cantautore Antonello Venditti e della regista, scrittrice, sceneggiatrice, Simona Izzo. Attore e doppiatore, ha percorso la strada di una lunga tradizione familiare nel doppiaggio, iniziata da suo nonno Renato e proseguita dalle zie, Rossella, Fiamma, Giuppy e dalla mamma Simona e abbracciando tutto quel bagaglio di insegnamenti ha costruito il suo essere artista. Quando suo padre scrive Peppino Peppino Francesco ha dieci anni. È il 1986. [continua…]
*contiene l’intervista esclusiva a Francesco Venditti rilasciata in data 17 febbraio 2022 e foto inedite gentilmente concesse dall’artista
Francesco Venditti, alle sue spalle suo figlio Tommaso. Foto gentilmente concessa dall’artista, pubblicata per la prima volta ne “L’Arte di essere Figli”
Questo testo e il materiale fotografico concesso in via esclusiva per specifica pubblicazione non possono essere riprodotti. Non si autorizza alcun tipo di riproduzione o pubblicazione.
Era un giorno di fine estate del 2019 quando il suo “Viaggio intorno al mondo in ottanta strumenti”, spettacolo di musica e immagini da lui ideato, è arrivato alla trentaseiesima edizione di Voci d’Europa, a Porto Torres, uno dei festival più longevi di musiche polifoniche della Sardegna. Lì ho conosciuto l’energia di Nicola Agus, il suo mondo straordinario di compositore e di polistrumentista e quell’universo affascinante di suoni e di strumenti musicali, che aprono un varco nell’immaginazione e dal Mediterraneo ti fanno volare nelle aree nordiche e celtiche, dalla Spagna alla Scozia e ancora dall’America giungere fino in Cina. Chiudi gli occhi e ti ritrovi in un’altra dimensione. In spazi sconfinati. È un percorso in cui le sonorità della Sardegna “svestono gli abiti della tradizione ed entrano in un mondo di suoni moderni e contemporanei, in cui lo strumento è valorizzato in ogni suo aspetto tecnico e sonoro”. È vento che soffia, o mare in tempesta, è il respiro dell’infinito. Il suono dell’Anima. Dall’Occidente all’Oriente. Dalla Gaita de Cuerno, strumento spagnolo dell’Andalucia all’UDU, lo strumento a percussione delle donne nigeriane, dal Shakuhachi Flute, al Koto, l’arpa giapponese, dall’Hichiriki ad ancia doppia, all’Eram, lo strumento inventato quattro anni fa da Nicola Agus con le canne portate da una mareggiata improvvisa fino al Poetto di Cagliari… «A me interessa – spiega – che la mia musica conduca in punti lontani dell’anima, la devi sentire sulla pelle. Ti devi lasciare trasportare, voglio che sia un’esperienza, altrimenti non avrebbe senso. La posso suonare ovunque, anche chiuso in una stanza, ma la gente la percepisce, viaggia… poi quando a fine concerto qualcuno si avvicina e mi dice: “Ah, mi hai portato lontano…” io sono felice. Il significato è questo: con me bisogna lasciare fluire, farsi trasportare. E poi, siccome viaggiare costa (ride, n.d.r.), almeno con la mia musica sognano di essere in un luogo lontano nell’immaginario, sentono una cornamusa e attraverso quel suono magari immaginano di trovarsi in Irlanda, o in Scozia».
ph. Nicola Castangia
Il tuo percorso nella musica ha origine molto tempo fa, quando eri piccolo. Cosa ricordi di quando eri bambino e cosa ti ha affascinato del mondo dei suoni?
«Da bambino ero attratto dai suoni, ero curioso, avevo voglia di capire. Ero irrequieto, non stavo mai fermo, mai tranquillo. Ho messo alla prova i nervi dei miei genitori! Ma ho manifestato e capito da subito che la musica era la mia vita. Giocavo… con le costruzioni non creavo case, ma strumenti musicali, come i flauti, avevo già questa propensione. A casa c’erano gli strumenti classici, perché gli zii si dilettavano a suonarli, a mio padre piaceva la chitarra, non era eccelso, ma gli piaceva canticchiare a modo suo, credeva di essere bravo. Ma la mia passione non è nata dall’osservazione. Per me è qualcosa di innato, sei affascinato da un suono e lo sviluppi. In realtà tutti noi già quando siamo nel ventre materno percepiamo i suoni che provengono dall’esterno. Appartengono alla nostra memoria. La voce della madre poi tranquillizza il bambino e riesce a farlo addormentare. Non è la ninnananna in sé che lo calma, ma è la voce che è abituato a sentire. Assorbiamo tutti i suoni, è una curiosità che ci appartiene da sempre. La musica ha un ruolo importante. Poi, logicamente, un conto è essere curiosi, un conto è cercare di riprodurre quei suoni e farne una professione. Quello arriva con il tempo e con lo studio e l’approfondimento. Per me la musica è linguaggio, è la mia seconda lingua. È una grande forma di comunicazione, un modo per lanciare un messaggio. Il mio obiettivo è di farti trovare in un’altra dimensione e “staccare” la mente da tutto. Già nelle tribù africane era una forma di comunicazione molto potente, perché la voce non poteva essere percepita a grandi distanze, mentre il suono dei tamburi raggiungeva chilometri di distanza. La musica nasce dove l’uomo non può arrivare».
ph. Nicola Castangia
I tuoi strumenti provengono da tutto il mondo, ma molti sono da te costruiti. Dove li hai acquistati o come li recuperi?
Questa degli strumenti musicali è una “malattia”. Viviamo il mondo come se fosse a nostra immagine e somiglianza, ma all’interno del nostro sistema non siamo soli, arrivano tante influenze da parte di diverse culture. La sardità che diventa “egocentrismo” non mi appartiene e non mi interessa, non mi sento in un ombelico del mondo da cui tutto ha origine, dove tutto nasce e si sviluppa. Io guardo oltre il mare. Prendere strumenti da ogni parte del mondo deriva da una mia ricerca musicale, ma anche dalla domanda: “Se fossi nato lì come avrei utilizzato questo strumento?”. Tutto nasce dalla mia curiosità, mi piace vedere come in parti diverse del mondo esistano strumenti anche molto simili tra loro. Nella Via della Seta, ad esempio, ci sono tanti strumenti affini, dal mondo arabo sino all’Oriente. Si presentano in forme diverse ma la timbrica è la stessa e lo stesso è il principio. Non mi fermo solo a questo tipo di ricerca, mi piace crearne anche di nuovi, strumenti che non esistono, con forme differenti, ma anche apparentemente banali: dal suono che posso ricavare da una bottiglia d’acqua o da quella sonorità che posso creare dal nulla. Tutto viene naturale, ma bisogna anche studiare. La ricerca va in una determinata direzione se c’è dietro uno studio. Altrimenti stai creando ponti che non hanno un significato».
Sei entrato in contatto con qualcuno che ti ha insegnato qualcosa per quanto riguarda anche la costruzione degli strumenti?
«No, perché ognuno ha un suo pensiero. Mi hanno sempre appassionato la fisica e la chimica, che sono importanti per la musica. La fisicità dello strumento ne determina anche la timbrica, la chimica e il tipo di sostanze che possono entrare e possono danneggiare gli strumenti, come gli agenti atmosferici. Oppure se, ad esempio, se utilizzo la plastica in una certa modo, posso ottenere lo stesso suono prodotto da una chitarra in legno. Sono modi differenti di vedere le cose».
Come nasce la tua musica, da quali evocazioni?
«Innanzitutto il mio è un filone “New Age Spiritual Colossal”, rientra nel mondo della Cinematografia e appartiene al mondo Contemporaneo, olistico documentaristico. “Olistico”, perché è una musica che induce al rilassamento, da non confondere con la “musica rilassante per massaggi”, perché la mia non è lineare, cambia, accelera, rallenta. Tende a riportare l’uomo alle sue origini naturali, affinché risvegli in lui una forma di spiritualità e non sia concentrato solo sul progresso e sul denaro».
ph. Nicola Castangia
Tu sei stato fuori, hai viaggiato… come mai poi hai scelto di ritornare in Sardegna?
In realtà non ho scelto di rientrare in Sardegna. Si sono combinate alcune situazioni per cui mi sono arrivate delle proposte dalla Regione… ma penso che le mie idee fossero troppo innovative, io non sono un suonatore di launeddas tradizionale, sono un musicista che utilizza le launeddas in maniera diversa. La mia è una ricerca innovativa, dove lo strumento prende forma come se fosse una chitarra elettrica, o una cornamusa, o un sax, o un’armonica a bocca. Questo a volte fa storcere il naso ai tradizionalisti. Ma non è che io rifiuti la Sardegna… noi nasciamo liberi, in una terra chiamata “mondo”. A me interessa stare nel mondo. La Sardegna ce l’hai già dentro, ma io sono nato nell’ottantadue e ho avuto la possibilità di sperimentare e di capire perché la musica si è evoluta in una determinata maniera.
Arte, musica e riciclo. Tra i tanti strumenti che hai ideato, con le canne del Poetto tempo fa hai creato uno strumento che hai chiamato “Eram”…
Nel 2019 in seguito ad una mareggiata la spiaggia del Poetto fu completamente invasa dalle canne. È stato un forte momento di aggregazione, i bambini giocavano con le canne come se non le avessero mai viste. Ero rimasto molto colpito, perché era la prima volta che non ero stato io a cercarle per costruire i miei strumenti, ma loro erano giunte fino a me. Avevo voluto rendere omaggio a quel momento particolare, pensando anche al fenomeno dell’immigrazione, perché le canne spiaggiate ricordavano anche i corpi delle vittime portate dal mare, che oggi purtroppo è un cimitero a cielo aperto. Allora ho pensato di creare l’unico strumento che potesse parlare di quello che sta vivendo il mare, una sorta di strumento a corda… la corda può simulare le onde del mare, perché quando la fai vibrare produce un’onda e il suono viene propagato. Ho deciso di sperimentare e di creare uno strumento a corda utilizzando la canna e come tastiera un rostro, la spada del pesce spada e ho realizzato così uno strumento del mare… in seguito ne ho creato tantissimi.
Mi piace anche far cantare la voce dell’acqua utilizzando una semplice bottiglietta di acqua
naturale.
Sei anche autore delle musiche de “I venerdì della storia – Le bugie” dell’attore e autore Gianluca Medas, voce narrante dello spettacolo. In questo caso come nascono le tue composizioni per questo appuntamento alla manifattura Tabacchi di Cagliari?
Lì è un altro lavoro sull’improvvisazione diretta, in simbiosi con l’artista. Non ci sono prove. È fatto tutto sul momento e a me piace perché spazio e posso giocarmela sempre in maniera diversa. Misteri irrisolti e strumenti diversi, e ogni volta musiche e sensazioni nuove.
Ph. Nicola Castangia
Licia Colò ti ha chiamato diverse volte nelle sue trasmissioni. Sei stato invitato a portare la tua musica nello studio di “Il mondo insieme”, proprio per quella tua capacità di riuscire a fare suonare qualsiasi oggetto della quotidianità e ovviamente per i tuoi strumenti musicali dedicati ai vari paesi del mondo. Come è stata questa esperienza?
Inizialmente mi hanno invitato in trasmissione per suonare la carta e altri oggetti semplici e comuni. È stata una bella esperienza, sono stati gentilissimi, ma prevalentemente cercavano qualcosa che potesse stupire… suonare un pezzo di carta, o il vetro o un uovo magari è una forma spettacolare che colpisce maggiormente in tv. Poi, lei (Licia Colò) era rimasta colpita dall’Eram, perché unisce alla ricerca sonora una riflessione più profonda sull’emigrazione. Quando ho avuto la possibilità di suonare l’Eram ho potuto dare un senso più profondo e strutturato a ciò che voglio esprimere. È stata una pubblicità positiva e poi è una strada tutto da costruire. Io credo che non bisogna restare statici, ma perseverare e migliorare, sempre con umiltà. Io non suono esclusivamente per esibirmi in concerto, suono perché amo la musica. La vivo con umiltà e spensieratezza. Se il pubblico viene, bene, altrimenti suono lo stesso.
ph. Nicola Castangia
***Questo testo e gli scatti non possono essere riprodotti, senza l’autorizzazione dell’autrice e del fotografo, che ne detengono i diritti. Il testo e il materiale fotografico sono apparsi sulla rivista Iod (numero di settembre 2023).
***Articolo di approfondimento finora inedito, scritto nel 2009 per la bella rivista cartacea “Sardegna Fairway” e per il direttore e amico Lucio Piga. Lo pubblico oggi, per la prima volta, in occasione dei 138 anni di un luogo che amo da sempre: Stintino.
Le falesie di roccia scura che si protendono verso il mare e abbracciano le spiagge e le calette dalla sabbia candida e finissima. Il mare dalle sfumature turchesi, tra i più belli del mondo, le cui acque cristalline sono spesso paragonate a quelle dei lidi tropicali. Ma la macchia mediterranea, spazzata dal vento e i suoi gialli dorati dei mesi estivi e autunnali, non possono ingannare. Siamo in Sardegna.
È l’immagine che resta viva nella memoria del visitatore che arriva per la prima volta a Stintino. Ma anche nel sardo, abituato a frequentarla, i colori vividi di questa meta incantevole sono ogni volta una morsa allo stomaco. Perché è vero che questa è una “terra di sogno che sa di magia”.
ph. Luciana Satta 2023
Il paese, racchiuso tra due insenature a forma di budello (in dialetto “isthintu”), si adagia con i suoi due porti, il “porto Nuovo”, detto anche “portu Mannu”, e il “porto Vecchio”, “portu Minori”, e ha il sapore di tempi antichi. Eppure il piccolo borgo marinaro ha origini abbastanza recenti. Fu fondato nel 1885, quando quarantacinque famiglie dovettero loro malgrado abbandonare l’isola dell’Asinara, che fu trasformata in stazione sanitaria di quarantena e in colonia penale. Queste famiglie, di agricoltori sardi e pescatori genovesi, furono alloggiate nelle strutture della Tonnara delle Saline. La raggiunsero con le loro barche, scoprendo così un punto strategico per la loro attività di pesca. Un mare, quello della zona, ricco di pesci e di aragoste. E, naturalmente, come è noto, di tonni.
La Tonnara delle Saline (le cui prime notizie risalgono al 1604, quando ne fu concessionario Giovanni Antonio Martino) divenne indispensabile allo sviluppo della tradizione della piccola pesca. Intere generazioni di stintinesi divennero maestri della pesca del tonno, come si può capire visitando il Museo della Tonnara, un tempo al porto Nuovo, attualmente in via Lepanto, alla fine della strada panoramica che conduce al borgo e si affaccia sul porto vecchio. Un passaggio significativo per capire il ruolo fondamentale della pesca nella vita degli abitanti di Stintino. Da sempre.
Nel 1904 fu fondata la “Società mutua cooperativa fra i pescatori di Stintino”, che in seguito divenne la “Cooperativa pescatori di Stintino” costituita da 68 soci. Già dai primi anni del Novecento, quindi, Stintino sarebbe diventato il luogo delle vacanze della borghesia della città di Sassari e degli altri centri vicini, come Porto Torres. E proprio da Porto Torres, passando davanti alla vecchia Tonnara (ricordata soprattutto per la pesca miracolosa del 1968, quando nella “camera della morte” finirono più di duemila tonni), si arriva a Stintino.
Già frazione del comune di Sassari, il 10 agosto del 1988 Stintino è diventata comune autonomo. Nel marzo dell’anno successivo si tennero le elezioni per la nomina del consiglio comunale.
Se la si esplora meglio, poi, la costa non è l’unica attrattiva di Stintino. Lo sono anche i nuraghi e gli stagni salmastri dove i fenicotteri rosa hanno ripreso a nidificare, dopo una pausa di anni. Uno degli stagni si trova lungo la spiaggia delle Saline, dominata da una delle più antiche torri di avvistamento della Sardegna e vicino alle antiche saline che fino al XIII secolo venivano sfruttate dai monaci di Santa Maria di Tergu. E non è raro che i maestosi fenicotteri rosa, a branchi, attraversino nel periodo estivo il cielo di questo territorio incantevole, sopra gli occhi di turisti curiosi.
Dalla spiaggia delle Saline si arriva agli altri splendidi arenili. Dalle Tonnare, superato il paese, si passa a Cala Lupo, che sorge nell’omonima baia tra Stintino e Capo Falcone, in posizione dominante sul mare e, con le sue piccole spiaggette di sabbia a grana grossa e scogli, amata dagli appassionati delle escursioni subacquee.
Il forte contrasto tra due mari, il cosiddetto “Mare di fuori” (a occidente, dove si trovano le calette con le spiagge di “Coscia di Donna” e di Punta su Torrione”) e il “Mare di dentro” (la regione interna) domina il territorio stintinese.
Pochi minuti dal paese e si può ammirare un altro luogo scelto dagli appassionati delle immersioni. È la spiaggia di Punta Negra. Delimitata da brune scogliere, con la sua sabbia candida e fine, la spiaggia di Punta Negra è circondata dalla tipica macchia mediterranea con i suoi alberi vicino alla riva e offre un’incantevole vista sul golfo. E ancora, non si possono dimenticare luoghi come i Tamerici, l’Ancora, il Gabbiano. Dispongono di piccoli villaggi attrezzati, di centri di ristoro, mete ideali per gli sportivi amanti del windsurf, della vela e della canoa.
Ma è più avanti che si apre la più nota spiaggia di Stintino, tappa obbligatoria per chi vi arriva per la prima volta. Suoi punti di forza sono, certamente, l’intensa sfumatura colore turchese del mare, il fondale basso e la sabbia bianchissima che la rendono unica. È la Pelosa.
Giunti in spiaggia non si può non rimanere colpiti alla vista del paesaggio, un quadro di straordinaria bellezza su cui si staglia l’isolotto e la caratteristica torre aragonese. Quest’ultima fu costruita nel 1578, a difesa del litorale, mentre un tempo l’isolotto era raggiungibile a piedi dalla spiaggia, seguendo un passaggio naturale. Poco più in là lo sguardo si rivolge all’isola Piana. Nel passato era pascolo per il bestiame il quale, data la vicinanza alla costa, veniva portato a nuoto, trainato sui barconi. Ed ecco, oltre l’isola Piana, il profilo delle rocce dell’isola dell’Asinara, un tempo carcere di massima sicurezza e, dal 1997, Parco Nazionale, mentre alla sinistra della Pelosa si stagliano, imponenti, le scogliere di Punta Capo Falcone.
Non mancano le attività che valorizzano al meglio le splendide acque di Stintino. Protagonista incontrastata ormai da ventisette anni è la “Regata della Vela Latina”, che coinvolge imbarcazioni provenienti da diversi Paesi del Mediterraneo. Nata nel 1983, su iniziativa dei fratelli Paolo e Piero Ajello, nel 1987 e nel 1991 è stata poi insignita dall’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, del “Trofeo Challenge Presidente della Repubblica” e nel 1998, dalle rispettive cariche istituzionali, dei Trofei “Challenge Presidente del Senato” e “Ministro della Pubblica Istruzione”. Fino a quando nel 2004 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, ha voluto rinnovare il Trofeo presidente della Repubblica, conferendo alla manifestazione un riconoscimento d’argento. È un evento importantissimo per Stintino. È un appuntamento a livello internazionale, che attira da sempre un folto pubblico. Ma la Vela Latina è solo uno degli appuntamenti stintinesi. Non si può non menzionare, infatti, il “Raduno dei 45”, nella prima settimana di agosto, regata con cui viene celebrata la nascita del paese, o ancora, il “Viaggio del postale”, nella seconda metà di luglio, rievocazione dell’antico servizio di trasporto postale tra Stintino e Porto Torres ad opera di Clemente Bonifacino, a bordo della barca a vela “Buona Difesa”.
Tre mesi di appuntamenti con la tradizione, inaugurati ogni anno dalla “Sagra del tonno”, il primo sabato di giugno. Cuochi provetti offrono piatti a base di tonno accompagnati da un ottimo vino.
Negli anni Stintino non sembra sia stata toccata dai contraccolpi della crisi. Alla vacanza non si rinuncia. E se la meta è Stintino non è difficile capire il perché.
***Articolo di approfondimento finora inedito, scritto nel 2009 per la bella rivista cartacea “Sardegna Fairway” e per il direttore e amico Lucio Piga. Lo pubblico oggi, per la prima volta, in occasione dei 138 anni di un luogo che amo da sempre: Stintino.
Attenzione: Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e l’autorizzazione dell’autrice.
(***Clicca sul video, la musica ti accompagnerà nella lettura)
Video di Rene Caovilla – Diretto da Oliver Astrologo
Silenzio intorno a te. Gli archi intrecciati e i loggiati dei palazzi si riflettono splendenti e vibranti nelle acque della Laguna, nelle pieghe dei calli e nel reticolo dei canali. Davanti a te la Serenissima, l’innamorata segreta di chi la sa corteggiare e quell’impressione sia lì solo per noi. Ti fermi in ascolto.
di Luciana Satta
L’obiettivo di mille fotografi non riuscirà mai a cogliere quello che stiamo vedendo, le parole dei poeti non possono rendere quel momento, quell’attimo, quel raggio di bellezza che ci è riservato e che attendeva solo noi per essere raccolto.
Venezia, incerta fra cielo e terra è lì e, come uno specchio, lascia scoperta la tua anima, ti invita a entrare nel gioco dell’infanzia eterna. Vuoi tuffarti in questo universo di immagini e di colori, dove passato e presente non hanno più confine e si confondono in una danza di chiaroscuri. Il tempo è uno spazio aperto e impalpabile.
Ti prende per mano, ti porta con sé.
Venezia 2001 – ph. Luciana Satta
Ma il tuo sguardo è già lontano, spazia oltre i giardini. Una fila di tartarughe d’oro ti porta ancora più lontano, fino al grande letto. Ti sembra impossibile che quei corpi nascano dalla pietra, ma sei a Venezia, dove tutto è vita e morte al tempo stesso. I loro volti, inesistenti, ti guardano e ti parlano di poesia.
Un uomo è sdraiato accanto a una donna e avvolge il braccio intorno alle sue spalle.
Biennale Venezia 2001 – ph. Luciana Satta
Vorresti fermarti, ma non vuoi che il gioco finisca. I tuoi occhi ti hanno già portata all’interno di una grande sala, dove un uomo su una scala dipinge accuratamente le pareti di nero, mentre nella stessa sala una donna riprende il lavoro da capo e le ridipinge di bianco. Nero e bianco si rincorrono incessantemente: non esiste dolore senza gioia.
Tu cammini e canti, mentre sei già nella stanza accanto.
Scarpe gialle, rosse, blu liberano la tua immaginazione. Vorresti indossarle per sentirti leggera.
Vai alla finestra, guardi fuori, di nuovo verso il giardino. Su una panchina di legno siede quella ragazza. Alle sue spalle un enorme pannello bianco riporta una scritta: “La platea dell’Umanità”. Il suo viso è come un vetro attraverso il quale leggi la scritta: “La platea dell’Umanità”, tradotta in tutte le lingue del mondo. Lei è immobile, lo sguardo assente, fissa un punto preciso nello spazio senza limite, occhi ingigantiti a dismisura, occhi che parlano. Sembra non voglia più alzarsi, andare via. Le siedi accanto e come lei stringi forte le mani ai bordi della panchina.
Accenni un sorriso e ti scatto questa fotografia.
Mentre ti guardo ripenso a quella canzone: “perché sono le sfumature a dare vita ai colori/ e a farci tornare in mente le cose più pure dei giorni migliori”.
“La platea dell’Umanità” Luciana Satta alla Biennale di Venezia, 2001
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Figlio della Sardegna, sardo e isolano nella fantasia
di Luciana Satta
Figlio della Sardegna, sardo e isolano nella fantasia, con una pittura che accostava allegria a drammaticità, sacro a profano. Colori forti, che Aligi Sassu utilizzava per descrivere il sole del Mediterraneo, gli uomini e le donne, i mari e, immancabili, i cavalli “meravigliosi, furiosi, teneri e soavi”, tema costante della sua opera. Sassu non dimenticò mai l’Isola. Nato a Milano nel 1912, a nove anni si trasferì a Thiesi. Un ritorno alle origini, dopo la parentesi milanese, periodo durante il quale ancora molto piccolo si accostò al Futurismo. E nel decennale dalla sua scomparsa, nel 2010, l’Isola ha reso omaggio al Maestro. Thiesi, paese natale del padre Antonio, lo ha ricordato e dedicato un Museo. Presenti all’inaugurazione, il 23 maggio del 2010, la moglie Helenita Olivares Sassu, il figlio Vicente Sassu Urbina e Antonio Serra, amico e parente dell’artista.
Una collezione permanente a cura di Alfredo Paglione e Silvia Pegoraro (con la collaborazione di Elsa Betti), costituita da centoventi opere grafiche e pittoriche, con una selezione di lavori realizzati fra il 1929 e il 1995. Diverse le tecniche utilizzate per le opere grafiche (1929-1995): dalla litografia alla puntasecca, dall’acquaforte all’acquatinta. Nucleo centrale del Museo le due opere murali “I moti Angioini” e “La Vita e la Natura”, risalenti agli anni Sessanta. Il legame forte con la letteratura si evince dalle venti litografie, acqueforti e acquetinte della cartella “I cavalli innamorati” (edita nel 1973), accompagnate dai versi del poeta Raffaele Carrieri, suo amico. Presenti nell’esposizione di Thiesi anche cinque grandi litografie (“Omaggio alla Sardegna”), con le poesie di Sebastiano Satta. I rossi esprimono l’energia dei cavalli in “Come l’acqua nel fuggire” (1973) e ne “L’apparizione della Fenice” (1987).
E ancora, altre splendide opere di Sassu che si possono ammirare nel Museo thiesino sono “La grande battaglia” del 1987, “Più della luna pesa la criniera” (1973) e “Le puledre dell’isola bianca” (1987). Illustrano infine l’Apocalisse sette opere grafiche. Scrive Simona Campus, curatrice del catalogo della mostra: “Aligi Sassu è il colore. Della Sardegna, del mondo, dell’anima. È il rosso. È il giallo della canicola bruciante sui fichi d’India nel Sulcis e della luce confusa tra i corpi dei partigiani morti ammazzati. È il verde sulla bandiera dei Saraceni conquistatori e di un cavallo immaginato. È il bianco della schiuma del mare e degli abiti femminili nei caffè parigini. È il nero dentro le miniere e della notte sopra Chicago. Sassu ha viaggiato entusiasta, fino in Cina e in Venezuela e in Messico e a Cuba e negli Stati Uniti d’America. Ha scelto Milano per crescere, Maiorca per vivere e per amare. Ma torna sempre in Sardegna. Perché è la terra di suo padre. Perché qui è il fondamento della sua coscienza civile. Perché da qui si spiega il suo istinto per la libertà”.
***Articolo pubblicato per la prima volta nella versione cartacea de “Il Messaggero sardo, i giornali dei sardi nel mondo”, direttore Gianni De Candia, nel 2010, in occasione dell’inaugurazione del Museo Aligi Sassu. Non tutte le opere raffigurate nelle immagini sono presenti nell’esposizione di Thiesi.
Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e l’autorizzazione dell’autrice.