Essere “Figli d’Arte”

In libreria “L’Arte di essere Figli”

Scrivere questo libro è stato come salire su un treno. Intraprendere un viaggio. Dove ho atteso che ad ogni stazione i miei compagni di avventura, voi, figlie e figli d’arte, saliste a bordo. A volte mi sono fermata e vi ho aspettati. Qualcuno di voi non è arrivato. Qualcuno si è seduto subito accanto a me e siamo partiti. Di alcune delle vostre storie a volte ho preferito custodire i segreti più intimi, scegliendo di non pubblicarli. Le altre sono scritte in questo mio libro. Tutte mi hanno aiutato a capire il significato del più difficile dei mestieri: “L’arte di essere Figli”.

(Luciana Satta)

https://www.carlodelfinoeditore.it/scheda-titolo.aspx?isbn=9788893613040

L’Arte di essere Figli è la storia dei figli e delle figlie di personaggi celebri nel mondo dell’arte, del cinema, della musica, della cultura. Figli di artisti che hanno respirato l’arte in famiglia, con gli occhi di bambine e di bambini, per poi spiccare il volo e correre verso il sogno sulle loro gambe per afferrarlo con le loro mani.

Francesco Venditti, figlio di Antonello Venditti e di Simona Izzo, Cristiana Ciacci, figlia di Little Tony, Liliana De Curtis, figlia di Totò, raccontata dalla nipote del Principe, Elena Alessandra Anticoli De Curtis, Cristiano De André, figlio di Fabrizio de Andre’, Paola Gassman, figlia di Vittorio Gassman, Simona Izzo, figlia di Renato Izzo, Chiara Tortorella, figlia di Cino Tortorella, Maria Elvira Ciusa, figlia di Mario Ciusa Romagna, Rosanna Banfi, figlia di Lino Banfi, Luca Parodi, figlio di Andrea Parodi, Carlotta Bolognini, figlia di Manolo Bolognini.

Attraverso documenti, interviste, testimonianze e scatti preziosi, l’autrice offre un racconto inedito sul loro rapporto con il genitore, madre o padre, o entrambi, artisti di successo. Ogni capitolo dell’opera è introdotto da una pagina fotografica: uno scatto che immortala il figlio o la figlia, bambino o bambina, o adolescente, in compagnia del padre o della madre celebre, o di entrambi i genitori celebri. Ogni storia prende il suo titolo semplicemente dal nome proprio del figlio o della figlia. Francesco, Rosanna, Cristiano, Gianluca e tanti altri. In chiusura, lo scatto recente del protagonista del capitolo, da adulto. 

Una narrazione costruita con taglio giornalistico e svelata con delicatezza dall’autrice, attraverso una introduzione, alla quale segue l’intervista al personaggio. Un libro avvincente e prezioso sia per la ricchezza del materiale fotografico, sia per l’eleganza della grafica.

Ascolta l’intervista: https://www.radiolina.it/articolo/podcast-la-strambata/2023/07/19/luciana-satta-presenta-l-arte-di-essere-figli-un-libro-dedicato-a-106-1184627.html

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L’opera non può essere riprodotta, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e l’autorizzazione dell’autrice e dell’editore. Copiare è un reato, cita la fonte!

La platea dell’Umanità

Quel giorno a Venezia

(***Clicca sul video, la musica ti accompagnerà nella lettura) 
Video di Rene Caovilla – Diretto da Oliver Astrologo

Silenzio intorno a te. Gli archi intrecciati e i loggiati dei palazzi si riflettono splendenti e vibranti nelle acque della Laguna, nelle pieghe dei calli e nel reticolo dei canali. Davanti a te la Serenissima, l’innamorata segreta di chi la sa corteggiare e quell’impressione sia lì solo per noi. Ti fermi in ascolto.

di Luciana Satta

L’obiettivo di mille fotografi non riuscirà mai a cogliere quello che stiamo vedendo, le parole dei poeti non possono rendere quel momento, quell’attimo, quel raggio di bellezza che ci è riservato e che attendeva solo noi per essere raccolto.

Venezia, incerta fra cielo e terra è lì e, come uno specchio, lascia scoperta la tua anima, ti invita a entrare nel gioco dell’infanzia eterna. Vuoi tuffarti in questo universo di immagini e di colori, dove passato e presente non hanno più confine e si confondono in una danza di chiaroscuri. Il tempo è uno spazio aperto e impalpabile.

Ti prende per mano, ti porta con sé.

Venezia 2001 - ph. Luciana Satta
Venezia 2001 – ph. Luciana Satta

Ma il tuo sguardo è già lontano, spazia oltre i giardini. Una fila di tartarughe d’oro ti porta ancora più lontano, fino al grande letto. Ti sembra impossibile che quei corpi nascano dalla pietra, ma sei a Venezia, dove tutto è vita e morte al tempo stesso. I loro volti, inesistenti, ti guardano e ti parlano di poesia.

Un uomo è sdraiato accanto a una donna e avvolge il braccio intorno alle sue spalle.

Biennale Venezia 2001 – ph. Luciana Satta

Vorresti fermarti, ma non vuoi che il gioco finisca. I tuoi occhi ti hanno già portata all’interno di una grande sala, dove un uomo su una scala dipinge accuratamente le pareti di nero, mentre nella stessa sala una donna riprende il lavoro da capo e le ridipinge di bianco. Nero e bianco si rincorrono incessantemente: non esiste dolore senza gioia.

Tu cammini e canti, mentre sei già nella stanza accanto.

Scarpe gialle, rosse, blu liberano la tua immaginazione. Vorresti indossarle per sentirti leggera.

Vai alla finestra, guardi fuori, di nuovo verso il giardino. Su una panchina di legno siede quella ragazza. Alle sue spalle un enorme pannello bianco riporta una scritta: “La platea dell’Umanità”. Il suo viso è come un vetro attraverso il quale leggi la scritta: “La platea dell’Umanità”, tradotta in tutte le lingue del mondo. Lei è immobile, lo sguardo assente, fissa un punto preciso nello spazio senza limite, occhi ingigantiti a dismisura, occhi che parlano. Sembra non voglia più alzarsi, andare via. Le siedi accanto e come lei stringi forte le mani ai bordi della panchina.

Accenni un sorriso e ti scatto questa fotografia.

Mentre ti guardo ripenso a quella canzone: “perché sono le sfumature a dare vita ai colori/ e a farci tornare in mente le cose più pure dei giorni migliori”.

“La platea dell’Umanità” Luciana Satta alla Biennale di Venezia, 2001

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Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e l’autorizzazione dell’autrice. Non copiare, cita la fonte!

ALIGI SASSU

Figlio della Sardegna, sardo e isolano nella fantasia

di Luciana Satta

Figlio della Sardegna, sardo e isolano nella fantasia, con una pittura che accostava allegria a drammaticità, sacro a profano. Colori forti, che Aligi Sassu utilizzava per descrivere il sole del Mediterraneo, gli uomini e le donne, i mari e, immancabili, i cavalli “meravigliosi, furiosi, teneri e soavi”, tema costante della sua opera. Sassu non dimenticò mai l’Isola. Nato a Milano nel 1912, a nove anni si trasferì a Thiesi. Un ritorno alle origini, dopo la parentesi milanese, periodo durante il quale ancora molto piccolo si accostò al Futurismo. E nel decennale dalla sua scomparsa, nel 2010, l’Isola ha reso omaggio al Maestro. Thiesi, paese natale del padre Antonio, lo ha ricordato e dedicato un Museo. Presenti all’inaugurazione, il 23 maggio del 2010, la moglie Helenita Olivares Sassu, il figlio Vicente Sassu Urbina e Antonio Serra, amico e parente dell’artista.

Una collezione permanente a cura di Alfredo Paglione e Silvia Pegoraro (con la collaborazione di Elsa Betti), costituita da centoventi opere grafiche e pittoriche, con una selezione di lavori realizzati fra il 1929 e il 1995. Diverse le tecniche utilizzate per le opere grafiche (1929-1995): dalla litografia alla puntasecca, dall’acquaforte all’acquatinta. Nucleo centrale del Museo le due opere murali “I moti Angioini” e “La Vita e la Natura”, risalenti agli anni Sessanta. Il legame forte con la letteratura si evince dalle venti litografie, acqueforti e acquetinte della cartella “I cavalli innamorati” (edita nel 1973), accompagnate dai versi del poeta Raffaele Carrieri, suo amico. Presenti nell’esposizione di Thiesi anche cinque grandi litografie (“Omaggio alla Sardegna”), con le poesie di Sebastiano Satta. I rossi esprimono l’energia dei cavalli in “Come l’acqua nel fuggire” (1973) e ne “L’apparizione della Fenice” (1987).

E ancora, altre splendide opere di Sassu che si possono ammirare nel Museo thiesino sono “La grande battaglia” del 1987, “Più della luna pesa la criniera” (1973) e “Le puledre dell’isola bianca” (1987). Illustrano infine l’Apocalisse sette opere grafiche. Scrive Simona Campus, curatrice del catalogo della mostra: “Aligi Sassu è il colore. Della Sardegna, del mondo, dell’anima. È il rosso. È il giallo della canicola bruciante sui fichi d’India nel Sulcis e della luce confusa tra i corpi dei partigiani morti ammazzati. È il verde sulla bandiera dei Saraceni conquistatori e di un cavallo immaginato. È il bianco della schiuma del mare e degli abiti femminili nei caffè parigini. È il nero dentro le miniere e della notte sopra Chicago. Sassu ha viaggiato entusiasta, fino in Cina e in Venezuela e in Messico e a Cuba e negli Stati Uniti d’America. Ha scelto Milano per crescere, Maiorca per vivere e per amare. Ma torna sempre in Sardegna. Perché è la terra di suo padre. Perché qui è il fondamento della sua coscienza civile. Perché da qui si spiega il suo istinto per la libertà”.

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***Articolo pubblicato per la prima volta nella versione cartacea de “Il Messaggero sardo, i giornali dei sardi nel mondo”, direttore Gianni De Candia, nel 2010, in occasione dell’inaugurazione del Museo Aligi Sassu. Non tutte le opere raffigurate nelle immagini sono presenti nell’esposizione di Thiesi.

Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e l’autorizzazione dell’autrice.

PIERANDREA CARTA L’arte della filigrana

Le mani d’oro di tre generazioni di orafi

il maestro orafo Pierandrea Carta

di Luciana Satta

«Ho sempre seguito mio padre. Da ragazzino studiavo e poi venivo in laboratorio a osservarlo mentre lavorava la filigrana. Era uno di quei maestri di altri tempi: dovevi imparare attraverso l’osservazione. Lo guardavo, lo osservavo all’opera e “rubavo i gesti”».  Sguardo attento, quello del maestro orafo cagliaritano Pierandrea Carta, mani laboriose di chi si è accostato ai segreti di quest’arte millenaria da bambino, un’arte che non è solo una passione ma un’eredità da conservare e tramandare con cura e amore. Una tradizione di famiglia. «Mi sono sempre piaciute l’arte della filigrana e la vita di laboratorio, inoltre vivevo il vantaggio di avere a casa uno dei massimi esponenti di questa disciplina. Per mio padre il lavoro doveva raggiungere la perfezione tecnica. Mi ha appassionato sempre la ricerca di un’esecuzione che presentasse le caratteristiche degne della filigrana: leggerezza, pulizia dell’esecuzione, rendere le saldature non visibili. Realizziamo il saldante in laboratorio, non compriamo quelli già pronti, proprio perché anni e anni di esperienza ci hanno portati a cercare di raggiungere uno standard elevato di produzione. Io ho imparato così. Papà poi non era una persona facile, quando un lavoro non lo soddisfava te lo diceva anche a muso duro. Ma ho continuato e trasformato la passione in una professione».

Video di Confartigianato Imprese Bergamo

La gioielleria Carta è stata fondata nel 1920 da Francesco Carta, tuo nonno. Qual è la storia della vostra famiglia, come nasce questa passione?

Mio nonno ha iniziato da ragazzino in una bottega di argentieri nel rione vecchio di Cagliari, il quartiere di Castello, e poi ha aperto un laboratorio, in cui hanno iniziato a lavorare degli apprendisti. Mio nonno era un abilissimo incisore, ha realizzato tantissimi stemmi nobiliari di Castello. Tutti i nobili di Cagliari si rivolgevano a lui, anche perché agli inizi del secolo scorso la città era un centro piccolo e mio nonno era diventato punto di riferimento del settore. Mio padre era ragazzino quando ha iniziato a lavorare come apprendista e, dopo la guerra, si è appassionato ancora di più alla filigrana portandola ai massimi vertici. Così anche lui si è affermato per stile e precisione.

Era il 1963 quando ha aperto l’attività, in via Garibaldi, dove siamo presenti ancora oggi. Ha realizzato tante opere, come il noto Rosario esposto nella sala matrimoni del Comune di Cagliari. Invece nel Cinquantasei, nel vecchio laboratorio di via Castello, è stata realizzata l’aureola di Sant’Efisio. L’Arciconfraternita di Sant’Efisio aveva incaricato mio padre di realizzare un’aureola d’oro e lui fu entusiasta di questa proposta. Il 30 aprile del 1956 consegnò l’aureola di Sant’Efisio. Qualche anno dopo gli chiesero di realizzare anche la Palma d’oro che il santo tiene in mano durante la sfilata. Realizzò anche quell’opera.

Ma come mai secondo te la commissionarono proprio a lui, che cosa aveva in più, quali erano le sue qualità?

Il laboratorio di nonno e di papà era molto conosciuto per la precisione stilistica, per la pulizia delle esecuzioni. Oltre ad essere un grandissimo incisore, nonno aveva appreso tanto dagli argentieri e aveva frequentato una scuola di gioielleria. Per questi motivi aveva un tocco più leggero, dal punto di vista tecnico e pratico. L’aureola di sant’Efisio presenta infatti una serie di incastonature molto rifinite.

Pierandrea Carta e l’Aureola di Sant’Efisio

Hai seguito tanti progetti in giro per il mondo, Quali ti sono rimasti impressi, quali ti hanno colpito di più?

L’esperienza giapponese resterà indelebile nella memoria. Andare dall’altra parte del mondo e affrontare quel tipo di mercato è stata un’esperienza forte, entusiasmante. Ma anche l’esperienza a Barcellona, con l’Istituto orafo, e le mostre a Vienna. È importante confrontarsi con un pubblico che non è il tuo, vedere come riesci ad affascinarlo, a spiegare questa tradizione e la tecnica sarda. Sicuramente lo scambio con il Giappone è stato il più forte.

Come si svolgevano questi eventi? Mostravi l’arte orafa?

In Giappone siamo stati ospiti della Fiera Internazionale di Tokio e lì, all’interno dello stand organizzato da una società di import export di filigrana sard,a facevamo delle dimostrazioni dal vivo. Avevamo un banco orafo e mostravamo quali fossero i processi costruttivi della filigrana. Questa è stata un’idea mia che proviene dall’esperienza con Nicola Castangia delle varie dimostrazioni dal vivo perché ho pensato “In un mercato e in un paese così lontano, molto tecnologico, dove l’artigianato è ridotto veramente all’osso, dobbiamo far capire che tutto quello che viene realizzato, è fatto a mano. Questa è stata, soprattutto nelle prime due Fiere, una mossa vincente perché ha attirato moltissimi visitatori e ha prodotto anche interesse notevole. Difficilmente si sa che cosa succeda dentro un laboratorio orafo, soprattutto per quanto riguarda l’arte della filigrana Questa è sempre una mossa vincente per divulgare qualcosa: mostrarla dal vivo, spiegare come si realizza.

ph. Nicola Castangia

Che cosa hanno apprezzato della Sardegna? Cosa ha colpito particolarmente il pubblico internazionale? Quali tipologie di gioielli?

I giapponesi hanno apprezzato soprattutto la Storia della Sardegna. L’accostamento della storia dell’oggetto alla simbologia che cela. Per esempio abbiamo spiegato che Su Dominu è il gioiello che la mamma dello sposo regala alla nuora nel momento in cui viene accolta in casa. È un passaggio di consegne. Oppure che la Spilla Piccione è la spilla degli innamorati. Spieghiamo sempre che un gioiello sardo ha un valore sociale. Questo li ha affascinati moltissimo e siamo stati lieti di portare l’immagine della Sardegna oltremare. È un prodotto che va raccontato, devi saper spiegare quanta passione c’è, quanta tecnica.

Particolari bicolore

I primi due anni in Giappone ho collaborato anche con un professore di oreficeria dell’Istituto orafo di Tokio, prof. Kavasaki, e ovviamente ci siamo scambiati delle opinioni. Il professore era molto colpito da quest’arte antica, ma così precisa. Quando incontro persone del settore ci tengo molto a scambiare idee su questi gioielli, perché il senso di divulgazione è fondamentale. È un’arte bellissima, che dovrebbe essere tutelata per evitare che si perda, perché ormai c’è la prepotenza della fusione, dei semilavorati e del semi industriale che stanno prendendo piede. È un peccato. Come tutte le professioni artigianali è necessario un apprendistato molto lungo, a volte i riconoscimenti economici non arrivano subito e le spese sono tante.

Ci sono dei giovani che hanno ancora la voglia di imparare e che fanno anche dei sacrifici per apprendere quest’arte così come l’hai appresa tu?

Secondo me siamo arrivati a un punto significativo nella storia della filigrana, a una sorta di spartiacque. Sto ricevendo molte richieste di persone che hanno voglia di imparare. Tempo fa avevo un’allieva, che ora ha aperto il suo laboratorio ad Arbus ed espone in varie parti d’Italia, in fiera a Milano, e sono molto contento. È difficile fare l’apprendistato, ci vorrebbe proprio una scuola, infatti stiamo cercando di portare avanti un progetto per crearne una seria, una vera scuola di filigrana. Il punto è questo: siamo talmente pochi artigiani a realizzare la filigrana a mano che sarebbe indispensabile rigenerare il settore. Quindi ho sposato con grande entusiasmo il progetto della Fondazione Colgni, quando mi ha contattato e mi ha chiesto se volessi fare un apprendistato per una ragazza o un ragazzo sardo. Ho accettato subito volentieri, perché sono necessarie leve nuove e chi ha la passione ha il diritto di continuare. I costi non possono essere un problema, perché questo artigianato è talmente importante dal punto di vista socioculturale che poi alla fine cosa ci rimane? Solo le spiagge della Sardegna? Invece abbiamo delle arti bellissime da tramandare che possono produrre reddito: l’oreficeria, la ceramica, il legno, la tessitura. Ci devono credere le Istituzioni! Facendo sistema, struttura, si risolverebbero tanti problemi della nostra Isola.

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***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e l’autorizzazione dell’autrice. Le foto mi sono state gentilmente concesse da Pierandrea Carta e sono di sua proprietà.

TONI SERVILLO L’incanto della Notte dei poeti

A Nora Toni Servillo legge Grazia Deledda

Un viaggio tra le righe e i versi della scrittrice Premio Nobel per la Letteratura

Toni Servillo legge Grazia Deledda (ph. Luciana Satta)

Sarà quello scenario così unico in Sardegna, con la sua torre che dalla cima del promontorio domina l’antica città di Nora e il mare intorno è una cornice impressionista. Sarà il vento salino che ti accarezza la pelle e la luce del tramonto che ti illumina gli occhi. Sarà l’incanto del Teatro romano, che si apre alla vista tra le rovine dell’antica civiltà fenicio punica, e poi romana. Sarà che La Notte dei poeti del CEDAC festeggia quarant’anni e che stasera uno dei più grandi attori italiani legge Grazia Deledda. Sarà, ma questa è una serata imperdibile. Qui oggi si respira arte. Qui, dove il tempo è sospeso. Silenzio, parlano i poeti.

“Il filosofo ammonisce: se tuo figlio scrive versi correggilo e mandalo per la strada dei monti.
Se lo trovi nella poesia la seconda volta, puniscilo ancora.
Se va per la terza volta, lascialo in pace perché è un poeta”.

(Toni Servillo legge grazia deledda al teatro romano di nora)
Toni Servillo legge Grazia Deledda (Videoclip di Luciana Satta)
La XL edizione de “La Notte dei poeti del CEDAC (ph. Luciana Satta)
(ph. Anna Brotzu)
(ph. Luciana Satta)

Vi segnalo i prossimi appuntamenti:

Il cartellone

Il XL Festival “La Notte dei Poeti” è organizzato dal CeDAC / Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo dal Vivo in Sardegna con il patrocinio e il sostegno del MiC / Ministero della Cultura, dell’Assessorato della Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport della Regione Autonoma della Sardegna e del Comune di Pula con il contributo della Fondazione di Sardegna e il prezioso apporto di Sardinia Ferries, che ospita artisti e compagnie sulle sue navi.

***un ringraziamento particolare alla cara collega Anna Brotzu, sempre preziosa.

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Nel giardino sonoro di PINUCCIO SCIOLA

La voce del polistrumentista Gavino Murgia e il fuoco tra i monoliti

“Dietro ogni angolo, dietro ogni pietra di questo meraviglioso giardino c’era una sorpresa, una storia da raccontare e aveva una pietra da farmi sentire e una sonorità diversa, una modalità diversa nell’accarezzarla, nel percuoterla, nel suonarla. Abbiamo fatto tante cose insieme, in giro per la Sardegna, per l’Italia, per l’Europa e quindi abbiamo condiviso tanti momenti meravigliosi. Io ho imparato tantissimo da lui. Pinuccio è espressione diretta della pietra. Lui era, è un artista straordinario, senza tempo e ha lasciato un’impronta straordinaria, incredibile. Una modalità primordiale, usare la pietra come un litofono. Forse nella preistoria il primo strumento utilizzato dall’uomo a parte la voce, è stata la pietra”. 

(Gavino Murgia ricorda l’amico Pinuccio Sciola, il maestro delle pietre sonore, 29 maggio 2022 Festival Sant’Arte, San Sperate)

Le sculture del Giardino Sonoro di Pinuccio Sciola, a San Sperate (Sardegna)
(Gavino Murgia ricorda l’amico Pinuccio Sciola, 29 Maggio 2022 – Ascolta l’audio)

 

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La fontana di Rosello simbolo di Sassari

Gli antichi mestieri della città

di Luciana Satta

È il simbolo della città e dell’identità popolare sassarese. Un luogo da preservare che racconta un passato che esiste solo nella memoria. Dalla lunga rampa di scale settecentesca che fiancheggia la Chiesa della Santissima Trinità le donne scendevano in gruppo, intonando i canti popolari. Poi raggiungevano il Lavatoio, adiacente alla storica Fontana del Rosello, per raccogliere l’acqua con le brocche e per lavare i panni. Quello delle lavandaie (“labadóri”) non era un semplice e faticoso mestiere femminile, svolto dalle madri e dalle figlie, o dalle professioniste, spesso nubili o vedove, che venivano retribuite dai signori per fare il bucato. E la valle del Rosello era l’essenza dell’identità popolare. Era un luogo dove si instauravano relazioni sociali e dove, per tutto il Medioevo e i primi anni del Novecento, gli acquaioli, i trasportatori di acqua (“carraióri”) si ritrovavano per attingere l’acqua per poi trasportarla nelle case servendosi degli asini e di appositi contenitori detti “mizini”.

Veduta dal ponte di Rosello. Ph. Luciana Satta

Il Lavatoio è il simbolo della città di Sassari, insieme alla Fontana del Rosello. Si trovavano fuori dall’antica cerchia muraria della città. Oltre a rispondere alle esigenze di vita quotidiana, furono e restano opere monumentali di inestimabile valore e fascino.

Video Turismo Sassari

Della Fontana si ha testimonianza già nel 1295: negli Statuti sassaresi veniva chiamata Gurusele o Gurusello. È un monumento unico in Sardegna, costruito secondo lo stile tardo-rinascimentale, opera delle maestranze genovesi che lo realizzarono tra il 1603 e il 1606. L’acqua sgorga copiosa dalle dodici bocche (“cantaros”), otto maschere leonine e quattro teste di delfino, e dalle statue che rappresentano le quattro stagioni, collocate ai quattro angoli. Ercole con la pelle del leone, l’autunno, il vecchio che dorme, l’inverno, la fanciulla con una ghirlanda fiorita, la primavera, la donna con un fascio di spighe, l’estate. Insieme all’acqua erano l’espressione allegorica dello scorrere del tempo. In alto le torrette e i due arconi incrociati sulla Fontana sostengono la statua del martire turritano San Gavino a cavallo, copia dell’originale.

San Gavino a cavallo. Fontana di Rosello. ph. Luciana Satta

L’esistenza dell’antico Lavatoio è invece documentata in un’incisione del 1849. Si sviluppa in lunghezza ed è caratterizzato dalle due lunghe vasche con due canali ai lati, che fanno defluire l’acqua in un condotto scavato nella roccia. In passato la  copertura a capriate di legno non esisteva. Fu costruita nel 1905, per riparare le lavandaie dalle intemperie. Loro portavano i panni nelle ceste e, giunte al Lavatoio, passavano sui tessuti il detergente che un tempo veniva utilizzato per sgrassarli e disinfettarli, la lisciva, ricavato dalla cenere del camino. Altre volte, utilizzando grasso animale o vegetale, realizzavano il sapone.

Quindi strofinavano i panni e li battevano sulla pietra, li strizzavano aiutandosi a vicenda e li mettevano ad asciugare. Attraverso “li ciarameddi”(i pettegolezzi), le donne si raccontavano gli avvenimenti che coinvolgevano la comunità ma, soprattutto, trascorrevano il tempo in compagnia, alleviando così le fatiche di un lavoro molto duro.

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Una chiacchierata con… i BERTAS!

Nati per la musica  

   di Luciana Satta

    

“Fino a quando avrai canzoni da cantare
la voce non si stanchi,
la voce non ti manchi mai”

Casa Dau, a Sassari, è un edificio dei primi anni del Novecento. In questo palazzo antico si respira la storia della città, sin dalla rampa di scale dai gradini alti che percorriamo per arrivare allo studio di registrazione dei Bertas. Mi accompagna l’amico Salvatore, che della più longeva band sarda è grande fan. Ciò che da subito mi colpisce è il collage di fotografie, tantissime, attaccate al pannello esposto sulla parete. Il passato dei Bertas è lì, in quei visi di ragazzi, nei capelli e negli abiti degli anni Settanta e ora, oggi, in tutti quelle esperienze impresse sui loro volti. In tutti quegli aneddoti racchiusi in quegli scatti. Quante storie, quante vite. 

Siamo nati nel 1965, facciamo musica, e non sappiamo se mettano più paura gli anni alle spalle o l’idea di non averne altrettanti”… che significato ha per voi questo pensiero?  

ENZO PABA: «È una frase che per noi dice tutto.  Se non avessimo avuto questa idea del futuro e del passato, avremmo smesso già trent’anni fa. Nella nostra lunga storia ci sono stati molti momenti in cui ci siamo guardati in faccia, alla fine di ogni stagione, e ci siamo detti “Che facciamo, continuiamo?” Ci abbiamo pensato due, tre volte. In realtà poi abbiamo capito che non aveva nessun senso smettere, perché il fatto di continuare a fare musica insieme ce l’abbiamo dentro. Continua a essere impensabile lasciare. Certo, la paura che il futuro non sia molto lungo, data l’età, in realtà c’è… ma non ci pensiamo, guardiamo sempre oltre, alle cose che dobbiamo fare. Questo forse ci ha aiutati nel corso di quasi sei decenni di attività musicale».

Nello studio dei bertas (ph. Luciana Satta)

FRANCO CASTIA: «Quando ho scritto questo pensiero, ho espresso forse quello che ci disturba. Capita ci venga chiesto: “Ma non siete stanchi, non avete voglia di smettere, non vi sentite vecchi?” A noi non succede. Ciò che ci succede è di valutare le esperienze che abbiamo fatto con il dispiacere di renderci conto che non potremo farne altrettante per lungo tempo… perché, avendo tutti sui sessant’anni, è così! Premetto che loro sono i Bertas, ma io mi sento parte della famiglia. Gli anni alle spalle hanno un’importanza e un peso, nel senso che dobbiamo onorarli, quelli davanti non potranno essere altrettanti e ci dispiace, perché la voglia di fare musica è la stessa. Cerchiamo di evitare l’inerzia, l’idea di dire “riposiamoci un po’”. Forse in questi ultimi anni abbiamo fatto di più, rispetto a quando avevamo maggiore freschezza fisica, proprio perché l’idea di voler vincere la “vecchiezza” (non la “vecchiaia”) è più forte. Poi, come diceva Enzo, ci spinge l’amore per quello che facciamo».

Tanti gruppi si sciolgono, a volte perché i componenti non vanno più d’accordo, nascono incomprensioni, litigano… qual è stato il vostro segreto per andare d’accordo, per mantenere vivo questo “collante” tra voi? Suppongo abbiate vissuto anche periodi di crisi: come avete fatto a superarli e ad andare avanti?

MARIO CHESSA: «Tutti noi abbiamo saputo anche vivere alcuni “compromessi”, nel senso che ovviamente se sappiamo che a Enzo dà fastidio qualcosa, o a Marco altro, cerchiamo comunque di andare avanti.

Bisticciamo spesso, ma alla fine la pizza ci sta sempre!».

Su cosa bisticciate di più?

MARIO: «Sulla musica soprattutto! Però sono litigi costruttivi, necessari (ride, n.d.r). È così da tanti anni…

MARCO PIRAS: In realtà chi entra a suonare in un gruppo, nel gruppo deve sapere vivere. L’ho capito sin da ragazzino: per poter andar avanti bisognava saper “cedere”, a volte, lasciare il passo anche agli altri, concordare cose che non sono sempre “sposabili” personalmente. Il segreto è dare spazio a tutti, come in una squadra di basket, per fare un esempio: un po’ per tutti e siamo andati avanti sempre tutti insieme. Abbiamo un obiettivo, un compito, che è quello della squadra: così abbiamo sempre cercato di reggere e di proseguire con questo spirito… sempre…».

Nello studio dei Bertas (ph. Luciana Satta)

Ad Antonio Costa e alla sua caparbietà risale la nascita dei Bertas. Andiamo indietro nel tempo, negli anni: come nasce la storia dei Bertas, come vi incontrate? 

MARIO: «Noi seguivamo già i Bertas quando ancora non ne facevamo parte, nel senso che eravamo più piccoli di loro. Io sono anche cugino di Carlo e di Antonio Costa. Seguivo i Bertas per motivi anche “familiari”. Antonio ha fondato i Bertas andando via da un altro gruppo sassarese, i Baronetti. Dopo sei anni sono subentrato io, poi è arrivato Marco, che allora aveva 17 anni, infine si è aggiunto come paroliere Franco e così tutti gli altri… è stata una specie di staffetta… a un certo punto, Antonio ha mollato per seguire la Canepa e l’Ente lirico De Carolis. Lui componeva. Una volta andato via lui, siamo stati costretti a continuare a comporre per proseguire l’attività. E così siamo arrivati ad oggi».

“Fino a quando avrai canzoni da cantare la voce non si stanchi, la voce non ti manchi mai”: che cosa rappresenta la musica per i Bertas?

ENZO: «Credo che in questa frase ci sia l’essenza di quello che facciamo. La voce per noi ha la supremazia sullo strumento. Io ricordo che quando si entrava a far parte dei Bertas (molti hanno fatto parte dei Bertas in questi anni – in tutto 26 persone –). Chi entrava nel gruppo, più che saper suonare uno strumento, doveva saper cantare, doveva avere una voce che fosse compatibile con quelle degli altri componenti, perché la cifra dei Bertas sono i cori, lo è sempre stata. Quando c’era Carlo, quando c’era Giuseppe Fiori, il nostro compianto Giuseppe, in realtà eravamo quattro voci soliste, veramente complementari. Ognuno aveva le sue caratteristiche: c’era quello che aveva la voce più “graffiante”, o quello più melodico… queste quattro voci si incastravano molto bene nei cori e, soprattutto, nella scelta dei pezzi da eseguire. Era ed è la voce quello che caratterizzava i Bertas. Gli strumenti devono essere ovviamente suonati bene, col loro giusto impatto, con il giusto fraseggio, ma la vocalità e la coralità sono sempre state le nostre caratteristiche principali. Tant’è vero che poi abbiamo aggiunto dei coristi che ci supportassero in questo campo. Questo è appunto il senso della frase: la voce non si stanchi, la voce non ti manchi mai…».

MARCO: «Dopo l’esperienza della messa in sardo, dove avevamo sperimentato il doppio coro, abbiamo avuto l’esperienza del tributo a Brian Wilson e alla musica dei Beach Boys… anche lì entravano dodici voci, non simultanee, ma diversi cori che si sovrapponevano. Oggi ci stiamo sperimentando nel doppio coro, riusciamo a fare due cori all’interno dei nostri ultimi brani che sono in produzione adesso… per cui la responsabilità vocale è aumentata ancora di più. Ci aspettiamo che la voce regga, perché tutti i nostri progetti sono ad alto livello vocale».

FRANCO: «La frase nasce con una canzone del ’93, con “Amistade”, che era un album di rifondazione, perché per la prima volta i Bertas hanno fatto una scelta di campo, cioè hanno deciso di presentarsi con un repertorio personale, originale. Quell’album ha rappresentato una svolta. Al centro è sempre la voglia di cantare, continuare ad avere quella passione, quella spinta verso la musica. Inizi a pensare che ci sono tante componenti dovute all’età che non puoi governare con la buona volontà… Quando dovrai salire sul palco a 85 anni… vanno bene, Enzo? (si rivolge a Enzo Paba, ride n.d.r.)… ».

ENZO: «Ci son sempre le ambulanze! (ridono n.d.r.)».

Non si vive una volta sola: avevate scelto gennaio 2021 per presentare questo album, col chiaro intento di lasciare indietro la passata stagione. Come è stato l’anno appena trascorso per i Bertas? 

MARIO: «Abbiamo approfittato di questo periodo. Abbiamo sperimentato nuove forme di collaborazione perché, essendo con il lockdown costretti a stare a casa (e gran parte dei musicisti è organizzato e dotato di mezzi per poter registrare per conto proprio a casa), abbiamo progettato così: abbiamo mandato una base, Francesco Piu ha fatto delle sovrapposizioni al nostro brano, registrando la sua parte a casa sua… poi ci sono state anche altre collaborazioni importanti. Abbiamo dunque sfruttato il periodo nel modo migliore possibile».

ENZO PABA: «Forse ti riferivi al fatto che i musicisti hanno pagato un prezzo molto alto perché c’è il problema che tanta gente vive di musica, non soltanto i musicisti ma i tecnici, gli stessi nostri coristi… il musicista in sé ha utilizzato quel tempo per studiare, per provare nuove sonorità… da quel punto di vista questo ha fatto bene ai musicisti, tutto il resto è da dimenticare!».

Giuseppe Fiori (ha militato con i Bertas fino al 1979 per dodici anni, cantando e suonando la batteria, n.d.r.) è mancato di recente. Gli avete dedicato un pensiero molto bello nel vostro album e anche sulla vostra pagina ufficiale di Facebook: “I Bertas sono nati nel 1965, ma i Bertas sardi sono nati con Badde Lontana e Badde Lontana è nata con la voce di Giuseppe Fiori”.

Cosa ha rappresentato per voi? 

ENZO: «Il primo incontro con la musica sarda è nato con Giuseppe Fiori. Quando Antonio ci ha proposto Badde Lontana ci siamo accorti che sembrava molto strano che noi potessimo cantare in sardo. Giuseppe era l’unico che forse poteva essere più adatto di noi a cantare in sardo. Ancora adesso il cantare in sardo ci condiziona un po’, perché secondo noi si sente che non siamo di madrelingua sarda… un po’ come nel caso di Andrea Parodi o dei Tazenda, insomma. Giuseppe aveva una capacità di interpretazione con una passione che forse noi non avevamo, avevamo altre caratteristiche… è stato giusto che la cantasse lui. Era il ‘73 quando loro (senza di me) la presentavano nelle piazze, poi io sono entrato nel gruppo nel dicembre del ‘74 e nella primavera del ’75 abbiamo registrato Badde Lontana».

“Ieri, quando nessuno cantava in limba, l’abbiamo sostenuta a dispetto di qualche naso storto, perché credevamo nella sua bellezza e musicalità, prima ancora che per assecondare una nascente spinta identitaria; oggi, in tempi in cui il sardo, in tutte le varianti possibili, dilaga nel mondo sardista della canzone, spesso per conformismo più che per scelta, ci stiamo riappropriando di una parte di noi, una parte che reputiamo significativa e importante.

Quella che ci permette di essere qui a parlare con tutti, dalla nostra terra; o meglio: dalle nostre terre”.  (Bertas, dalla pagina web ufficiale: https://www.bertas.it/noi-siamo-i-bertas)

Avete portato la vostra musica nelle carceri, nelle comunità di recupero, avete suonato nel carcere di Alghero, nel locale della biblioteca intitolata a “Fabrizio De André”, a San Sebastiano, al centro Maria Madre dei Poveri (La Crucca). Avete detto “Tutte le volte, immancabilmente, alla fine della giornata, il disagio maggiore l’avevamo provato noi, nell’allontanarci da quelle sofferenze per tornare alle nostre fortune…”

ENZO: «Abbiamo suonato nelle carceri… ma l’esperienza nella Comunità di recupero La Crucca è stata un’esperienza ancora più forte… lì ho conosciuto una realtà che mi ha arricchito, ma è stato come un pugno allo stomaco».

Nel 2015 avete festeggiato in musica al teatro Comunale di Sassari il vostro 50° anno di attività. Che ricordo vi resta di quella giornata?

MARCO: Non avremmo mai immaginato tanta stima da parte di colleghi musicisti con i quali non ci vediamo mai o comunque in rare occasioni. Ci hanno onorati con l’esecuzione dei nostri brani… è stata una soddisfazione pazzesca, perché sentire i nostri brani riarrangiati in maniera sopraffina, e così sentita, è stata una soddisfazione grande e non finiremo mai di ringraziarli per questo sforzo nei nostri confronti. Tra l’altro ci siamo resi conto di quanta bravura ci sia in Sardegna, anche se in realtà abbiamo sempre saputo che rispetto al numero di abitanti l’Isola offre un panorama artistico notevole. Ma vederli così, tutti insieme, preparati, è stato davvero emozionante. 

ENZO: All’inizio avevamo pensato di coinvolgere tutti coloro che avevano fatto parte dei Bertas… questa era l’idea iniziale, però era molto complicato organizzarla, invece poi si è scelta questa strada. 

MARIO: Adesso vediamo cosa riusciamo a fare per i 60 anni! 

“Como cheria è una canzone che ha attraversato le generazioni della nostra Sardegna sfuggendo al controllo di chi l’ha scritta. E, maturando un percorso autonomo, brillando di luce propria, ha fatto sì che chi la conosceva conoscesse i Bertas, e viceversa.

È dunque la canzone alla quale dobbiamo una seconda giovinezza, questo è certo”. (Bertas)

“Como cheria” ha compiuto ventotto anni. È un brano che vi ha segnati, è la vostra canzone più popolare, dopo “Badde Lontana”.

Come è nata e perché dopo tanti anni resiste al tempo e alle generazioni?

ENZO: «Quando abbiamo registrato l’album “Amistade” dovevamo scegliere un brano che aprisse il disco, che poi è di solito quello che viene trasmesso in radio… seguendo un consiglio, avevamo scelto “Noranta”… ma alla fine è il pubblico che decide! Ci accorgevamo che “Como Cheria”  era il brano che andava di più, quello che eseguivano maggiormente durante le serate, nei piano bar, nei gruppi, nelle piazze… gran parte dei musicisti sardi lo usavano nel loro repertorio… così sono passati 28 anni e c’è stato sempre un crescendo, dal 1993. 

Como cheria s’oriente

E s’occidente cheria

Su minoreddu sezzidu in palas Pro nunziare sas alas

Arvures de menduleddas

Casu durche e salidas olias Como cheria

Andarisende umpare

Furfere e astore a su niu

Chi donzi Cristu lasset sa rughe Chi s’adduret s’istiu

Tancas de antunnas e binzas

Pane biancu e una ‘ucca sidida Como cheria

Fin’a siccare su mare e su riu

A los intendere colare intr’a mie

E una ‘oghe chi cantet lontanu

Como cheria

E una manu chi istringhet sa manu Como cheria.

(1993 – “Como Cheria”, di Franco Castia e Mario Chessa)

Secondo voi perché la gente è attirata da questo pezzo, che cosa ha in più rispetto ad altri vostri brani?

ENZO: Se lo sapessimo ne avremmo scritti altri venti! (ride n.d.r). Quando abbiamo suonato all’Anfiteatro romano di Cagliari per Emanuela Loi, avevamo fatto due o tre pezzi e questo era piaciuto tantissimo… lo ricordo particolarmente».

Raccontare la vostra storia è come “scavare in un pozzo senza fondo” e allora chiedo direttamente a voi di scegliere un aneddoto curioso o divertente della vostra lunga carriera che ricordate in particolare…

MARIO: «C’era la premiazione di una corsa di cavalli e a quel tempo i palchi non erano come quelli di adesso, ma c’erano i tavoloni che arrivavano dalla base fino al palco con dei gradini… a un certo punto chiamano il vincitore del primo premio e questo sale sul palco col cavallo! Era completamente sbronzo e non riuscivano a tenere il cavallo… farlo scendere dal palco insieme al cavallo è stato molto difficile!».

MARCO: «Un’altra volta ci siamo trovati in mezzo a due fazioni che si lanciavano delle arance… abbiamo continuato a suonare con queste arance che passavano da una parte all’altra del palco! 

MARIO CHESSA: Non erano per noi… ma insieme alle arance lanciavano anche le pietre! (ridono n.d.r.)». 

ENZO: «Ricordo che i nostri concerti (parliamo degli anni Settanta) duravano tre ore… erano tante, eseguivamo un repertorio vastissimo, a volte facevamo anche qualche pezzo in più… i comitati ci dicevano ogni volta che avremmo dovuto continuare a suonare. Ci dicevano: “No! Dovete continuare a suonare! Ci sono stati i Nomadi una settimana fa e loro hanno suonato cinque ore!” Noi pensavamo che non fosse vero… invece era proprio vero, che i Nomadi suonavano davvero per cinque ore, non li fermava nessuno! 

MARIO CHESSA: «Ricordo una delle prima serate che ho fatto sempre negli anni Settanta, in un paese vicino a Sassari… avevano esposto il vecchio manifesto, con la foto dei quattro componenti dei Bertas (precedenti al mio ingresso nel gruppo). A fianco, per un effetto grafico, come in uno specchio erano riflessi sempre gli stessi quattro componenti del gruppo. Alla fine del concerto non ci volevano pagare, perché i componenti erano quattro e invece nel manifesto eravamo in otto! Abbiamo dovuto insistere parecchio per far capire agli organizzatori che si trattava di un equivoco dovuto a un effetto grafico e che nel gruppo eravamo davvero in quattro! (ridono n.d.r.)».

Come vi siete avvicinati alla musica da bambini?

MARIO: «Quando avevo sei sette anni facevo degli spettacolini per altri bambini, cantavo… dai dodici anni in poi mi è nata questa passione. Non facevo altro che sfogliare un catalogo di una nota rivista di acquisti dell’epoca nella quale vendevano la fisarmonica… costava mille lire al mese e mamma non poteva comprarmi la fisarmonica. Dunque sono sempre stato fissato con la musica, però non avevo gli strumenti. Ho iniziato a suonare quando sono andato a lavorare con mio zio, che era il padre di Antonio Costa. Lì c’era la chitarra. Antonio Costa mi ha insegnato i primi accordi con la chitarra e io suonavo nelle pause… quando si è trattato di entrare nei Bertas, Antonio mi ha insegnato a suonare la tastiera».

ENZO: «Ricordo che a casa c’era un androne delle scale strepitoso… quindi io passavo le ore sulle scale cantando, perché impazzivo per l’eco… mia madre mi ascoltava e capiva che avevo una passione per la musica. Devo dire che ho avuto dei genitori fantastici, ma una cosa gli ho sempre rimproverato: mi hanno mandato a lezione di piano privatamente, io facevo le elementari e ho fatto lezioni di piano per tre anni, perché avevano capito che mi piaceva la musica. L’ho studiata dai cinque agli otto anni e ricordo ancora, a distanza di cinquant’anni, l’odore di quei pianoforti. Ogni tanto vado all’orfanotrofio e sento il profumo del pianoforte. Però secondo loro non stavo andando benissimo a scuola e quindi hanno smesso di farmi frequentare le lezioni di piano e questa cosa è stata devastante per me, perché avrei potuto e voluto continuare… e poi a quattordici anni in spiaggia ho iniziato a suonare la chitarra, osservando gli altri». 

MARCO: «Mia madre era amica del maestro Fiori, era un musicista noto, con Dino Puglia… era amica d’infanzia e mi parlava sempre di Fiori. Un giorno mi ha portato a vedere i BAT 66 e ho avuto la mia folgorazione: ho visto la chitarra elettrica azzurra metallizzata… avevo dieci anni. Già ascoltavo I Beatles e il loro pezzo Girl… cercavo di eseguire la melodia con una tavola e una lenza costruita da me. Alla fine mia madre, disperata, mi chiese cosa desiderassi per la quinta elementare. Ho chiesto una chitarra. Mia madre mi ha portato dal maestro Alberto Fiori che suonava la chitarra molto bene e finalmente ho potuto imparare… dagli inizi si capisce. Io ero il chitarrista del mio quartiere, tutti cantavano e io accompagnavo. Questo mi ha stimolato molto. C’è sempre un momento illuminante. Nel ’66 avere una chitarra elettrica era impensabile… ci ho messo tanto prima di averne una. 

FRANCO: «Loro hanno vissuto il beat e il pop, io sono un pochino più giovane. I miei zii compravano a Cagliari e a Sassari i dischi… quindi sono cresciuto ascoltando i Beatles. Poi, la mia vera folgorazione nella musica è stata ascoltare Fabrizio De André… poi ho conosciuto i Bertas… e certo non è stato un incontro come un altro».

“Cambia il mondo intorno a noi

Cambia il mondo

Cambia me

Cambia il mondo intorno a noi”

(2018 – “Cambia il mondo” di Franco Castia e Marco Piras)

Se vi fa piacere, potete leggere il mio articolo qui: https://www.bertas.it/category/press/

Articolo pubblicato il giorno 14 febbraio 2022 per la rivista Iod. È il frutto di una bella chiacchierata che ho avuto il piacere di avere con i Bertas nel gennaio 2022. Un lungo racconto per aneddoti, un’altra storia scritta che ho fissato nella mia agenda e nel mio recorder ma, soprattutto, nella memoria.

Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e l’autorizzazione dell’autrice.

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ENNIO C’era una volta la nostra colonna sonora

“Ennio: The Maestro” di Giuseppe Tornatore

Quella musica che ti costringe a guardare dentro te stesso

di Luciana Satta

Un tuffo nella memoria. Quello che siamo stati, quello che siamo e chi saremo poi…

È “C’era una volta in America”, il film diretto da Sergio Leone e interpretato da Robert De Niro, Elizabeth McGovern e James Woods. È il 1984. Scorrono le scene di David “Noodles” Aaronson, i suoi amici e le loro vicissitudini tra Manhattan e e New York. Non esiste al mondo qualcosa di simile a quella nostalgia. Perché quella musica evoca immagini.

Non importa se ancora non sei venuto al mondo, se tu sei del 1975 e quel film storico diretto da Sergio Leone è del 1964: quel fischio inconfondibile ti resterà addosso, sotto pelle. Basterà solo un accenno alla colonna sonora e “Per un pugno di dollari” entrerà prepotentemente nella tua testa, ti verrà a cercare, da lì al resto dei tuoi giorni non ti lascerà più. “Perché – diceva lui – La musica esige che prima si guardi dentro se stessi, poi che si esprima quanto elaborato nella partitura e nell’esecuzione”.

Morricone ti costringe a guardare dentro te stesso e il film di Tornatore ti scava dentro. Quando i titoli di coda scorrono davanti ai tuoi occhi, li vedi lì tutti insieme tutti i suoi figli: “Il buono, il brutto e il cattivo“, “Uccellacci e Uccellini” , “C’era una volta il West“, “Novecento“, “Gli Intoccabili“, “Nuovo Cinema Paradiso“… “Nuovo Cinema Paradiso“… “Love Theme,” il tema d’amore, la mente vaga. Ogni musica, ogni nota, ti riporta a un profumo, a un’estate, a un paesaggio sconfinato bruciato dal sole, all’eclissi di luna. È la magia del cinema, quando nel buio della sala quella commistione indissolubile di immagini e suoni ti rapisce e ti porta lontano.

Così Ennio Morricone entra nella tua vita e non la lascia più. Da Gianni Morandi a Bruce Springsteen, da Clint Eastwood a Carlo Verdone, a Quentin Tarantino. Tutti concordi nel riconoscere che Morricone sia stato un precursore, “l’inventore di una nuova forma espressiva”. Nessuno più di lui ha sfidato le convenzioni per conquistare a pieno la sua indipendenza artistica e umana. Non si è arreso di fronte a quel bivio che lo pose di fronte a quella che all’inizio era sembrata una scelta necessaria tra la purezza musicale, quella che il suo maestro Goffredo Petrassi ricercava negli allievi, e quella prepotente forza creativa così fuori dagli schemi per quell’epoca e vissuta quasi come un senso di colpa da Ennio. Ma non si possono voltare le spalle alla libertà. E il vero artista è libero.

Eppure l’America non fu generosa con lui, fino a quando nel 2007 è costretta finalmente a inchinarsi di fronte al genio. Così Ennio Morricone stringe forte finalmente ciò che tante volte aveva appena sfiorato ma che da tempo ormai lontano gli spettava. Arriva l’Oscar alla carriera.

Difficile che qualcuno non conosca la sua storia. Per questo bisogna andare al cinema a vedere “Ennio: The Maestro”. di Giuseppe Tornatore. Non è solo la biografia di una leggenda, del compositore, direttore d’orchestra e arrangiatore, di uno dei più grandi compositori per il cinema di tutti i tempi. È un po’ come la Divina Commedia di Dante. Ennio ha raccontato in musica la storia di tutti noi.

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PINA MONNE muralista

L’amore per la Sardegna attraverso l’arte dei murales

Le sue figure femminili esprimono tanta dolcezza, ma altrettanta fierezza.

Il murales di Pina Monne dedicato a Maria Carta

di Luciana Satta

«Ho sempre messo al primo posto il mio sogno: raccontare l’amore per la Sardegna attraverso l’arte. Ed è quello che faccio tuttora. Ho ricevuto tantissime proposte per potermi trasferire definitivamente all’estero, ma ho sempre rifiutato. Senza la mia Sardegna non sarei Pina Monne muralista». Per lei, che dal 1996 ha realizzato centinaia di murales in oltre novanta paesi dell’Isola, da bambina dipingere e colorare significava tutto. «Ho trascorso la mia infanzia a Irgoli – ricorda –,  paese nel quale sono nata. Alla scuola materna la maestra portava me e altri quattro bambini in una sala dove c’era il laboratorio di arte. Lì si dipingevano i cartelloni. Alle elementari la maestra mi fece scrivere un tema, il titolo era: “Cosa vuoi fare da grande?”. Io avevo già chiare le idee, volevo fare l’artista, volevo essere pittrice». 

Pina Monne ph. Rosy Brau

Una strada che, inizialmente, non fu compresa dalla famiglia. «Dovevo iscrivermi alle superiori e a casa mia arrivò l’insegnante di educazione artistica per parlare con i miei genitori. Volevo che mi permettessero di studiare l’istituto d’arte, ma loro non vollero sentire ragioni. Mi dissero che dovevo frequentare le magistrali per poter avere un’opportunità di lavoro. Io allora rinunciai a quel sogno e con grande fatica mi diplomai alle magistrali. La vivevo come una costrizione». Ma la passione di Pina Monne per l’arte resta forte, anche quando inizia a lavorare come insegnante in un asilo nido. Cinque anni lunghissimi, trascorsi comunque senza mai abbandonare i pennelli e le tele, fino a quando capisce che la sua strada è un’altra. «Ho detto a me stessa: “Non è quello che io amo fare!”. Poi, nella vita di questa artista straordinaria, arriva la svolta.  «Ho scelto di seguire ciò che da sempre desideravo. Ho partecipato a un concorso di murales a Tinnura, l’ho vinto. Da quel momento non mi sono mai fermata, è stato come un decollo e ora mi trovo a volare ad alta quota da tantissimi anni…». Sono trascorsi diciassette anni da allora. Pina Monne, artista eclettica, ceramista, pittrice, di strada ne ha fatta tanta. Un percorso che l’ha portata al muralismo, a raccontare le nostre tradizioni attraverso il ritratto, perché, dice:  «Mi piace cogliere l’anima attraverso i visi dei vecchi bruciati dal sole. Basta osservarli. Se li scruti con attenzione riescono a raccontarti tutto quello che vuoi sapere della loro vita, della fatica, del sacrificio. Arrivano alla fine della loro esistenza con una serenità d’animo che oggi molti di noi non hanno ancora raggiunto. In noi c’è una profonda insoddisfazione, mancano i punti di riferimento. Questi anziani riescono, invece, a infonderti ancora sicurezza, certezza». I volti degli anziani e i volti della donna sarda. Le sue figure femminili  esprimono tanta dolcezza, ma altrettanta fierezza. Come nell’opera La ragazza di Fonni, olio su tela scelto dalla curatrice d’arte Marta Losignore per la Galleria multimediale Mad di Milano, dove resterà in esposizione per un anno. 

«Credo che la donna sarda, soprattutto nella provincia di Nuoro da dove io provengo, abbia veramente grandi doti manageriali. Io ammiro tantissimo questa  capacità e cerco sempre di rappresentarle in quella maniera. Grazia Deledda è il simbolo. Era quasi fuori tempo, era molto avanti rispetto alle donne di quel periodo, lei era già oltre… ». Ma il riassunto di tutto ciò che per l’artista di Irgoli rappresenta la donna sarda è la Donna di Oniferi ritratta a cavallo. «Sono legata a tutte le mie opere – afferma –. Se uno le osserva dall’inizio sino alla fine, riesce a capire la mia crescita artistica nel tempo. Ma, se devo essere sincera, mi piace tantissimo il murale che ho fatto a Oniferi… ha una storia importante. Il sindaco voleva che rappresentassi una persona a cavallo e si era partiti dal presupposto che dovesse essere un uomo. Tutti i ragazzi del paese volevano essere scelti. Io, alla fine dipinsi una donna. Aveva perso il marito. Esprimeva una forza interiore che mi colpì tantissimo, era una persona straordinaria, con un animo grande. Un esempio di donna sarda coraggiosa che è diventata insieme padre e madre per i suoi figli. L’ho portata in campagna e abbiamo fatto degli scatti in abito tradizionale. Poi, ho selezionato accuratamente la foto che preferivo per realizzare il murale. I suoi occhi parlavano, raccontavano chi era e cosa aveva dentro». 

Pina Monne è anche l’autrice del murale di Maria Carta, a Siligo. «Stavo lavorando a Bessude, ma mi serviva un rullo e non trovai un negozio di ferramenta in paese. Dunque andai nella vicina Siligo, ma trovai il negozio chiuso. Così decisi di fare una passeggiata e giunsi nella piazza. Lì, in un angolo, c’era la piccola statua in bronzo dedicata alla cantante. Poi mi voltai e vidi una parete. Pensai a Maria Carta, alla sua voce, a lei che ha rappresentato la musica sarda all’estero, a lei che amava tantissimo la Sardegna. Mi avvicinai in Comune, chiesi di poter parlare col sindaco, ma non lo trovai. Mi chiamò in seguito e dissi che mi sarebbe piaciuto regalare una grande opera alla memoria di Maria Carta, perché la meritava. Mi portò a casa del fratello della cantante, il quale mi mostrò le foto dell’artista. Tra queste abbiamo scelto insieme quel bellissimo scatto. Ho notato subito quello sguardo. Il sindaco mi ha detto che sarebbe stato bellissimo se fossi riuscita a realizzare il murale dopo tre giorni, in occasione dell’inaugurazione della piazza. Allora lavorai giorno e notte, con i fari puntati sulla parete. Il giorno dell’inaugurazione il murale era pronto». 

Ma per Pina Monne il muralismo non è fondamentale solo perché le permette di esprimere  attraverso i colori e le figure quello che sente per la sua terra, ma perché «è il momento in cui qualsiasi spettatore si ferma e mi pone delle domande e diventa curioso, si interessa a quello che sto realizzando. Per me quell’attimo è importante: quando c’è il dialogo con quella persona che senti vicina, che non ti conosce. Infatti per me il mio lavoro non è mai motivo di noia, ma di scoperta, di ricerca. Al primo posto c’è passione, il motore che mi spinge tutti i giorni a salire sull’impalcatura e che mi spinge ad affrontare lunghi viaggi». È la grande superficie ad affascinare Pina Monne, quella che all’età di vent’anni l’ha portata a conoscere i muralisti più famosi:  Angelo Pilloni, Archimede Scarpa, Luciano Lixi, Pinuccio Sciola, Ferdinando Medda. Da lì è iniziata la sua carriera di autodidatta e anche l’amicizia con i due grandi muralisti Angelo Pilloni e Archimede Scarpa. «Utilizziamo il murale allo stesso modo, non come simbolo di protesta, ma come arredo urbano, per rivalutare le zone deturpate dei paesi». Così le loro opere diventano delle scenografie all’aperto che raccontano in maniera chiara quella che è stata la tradizione del posto. «Così è nato il mio grande amore, che è rimasto latente in me per qualche anno ma poi, all’età di trentatré anni è sbocciato, esploso, con il concorso di murales a Tinnura, da dove sono partita e dove ancora adesso mi ritrovo».

(*Anno 2017)

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