Ad occhi chiusi per sentire il suono dell’ANIMA

NICOLA AGUS

di Luciana Satta

ph. Nicola Castangia

Era un giorno di fine estate del 2019 quando il suo “Viaggio intorno al mondo in ottanta strumenti”, spettacolo di musica e immagini da lui ideato, è arrivato alla trentaseiesima edizione di Voci d’Europa, a Porto Torres, uno dei festival più longevi di musiche polifoniche della Sardegna. Lì ho conosciuto l’energia di Nicola Agus, il suo mondo straordinario di compositore e di polistrumentista e quell’universo affascinante di suoni e di strumenti musicali, che aprono un varco nell’immaginazione e dal Mediterraneo ti fanno volare nelle aree nordiche e celtiche, dalla Spagna alla Scozia e ancora dall’America giungere fino in Cina. Chiudi gli occhi e ti ritrovi in un’altra dimensione. In spazi sconfinati. È un percorso in cui le sonorità della Sardegna “svestono gli abiti della tradizione ed entrano in un mondo di suoni moderni e contemporanei, in cui lo strumento è valorizzato in ogni suo aspetto tecnico e sonoro”. È vento che soffia, o mare in tempesta, è il respiro dell’infinito. Il suono dell’Anima. Dall’Occidente all’Oriente. Dalla Gaita de Cuerno, strumento spagnolo dell’Andalucia all’UDU, lo strumento a percussione delle donne nigeriane, dal Shakuhachi Flute, al Koto, l’arpa giapponese, dall’Hichiriki ad ancia doppia, all’Eram, lo strumento inventato quattro anni fa da Nicola Agus con le canne portate da una mareggiata improvvisa fino al Poetto di Cagliari… «A me interessa – spiega – che la mia musica conduca in punti lontani dell’anima, la devi sentire sulla pelle. Ti devi lasciare trasportare, voglio che sia un’esperienza, altrimenti non avrebbe senso. La posso suonare ovunque, anche chiuso in una stanza, ma la gente la percepisce, viaggia… poi quando a fine concerto qualcuno si avvicina e mi dice: “Ah, mi hai portato lontano…” io sono felice. Il significato è questo: con me bisogna lasciare fluire, farsi trasportare. E poi, siccome viaggiare costa (ride, n.d.r.), almeno con la mia musica sognano di essere in un luogo lontano nell’immaginario, sentono una cornamusa e attraverso quel suono magari immaginano di trovarsi in Irlanda, o in Scozia».

ph. Nicola Castangia

Il tuo percorso nella musica ha origine molto tempo fa, quando eri piccolo. Cosa ricordi di quando eri bambino e cosa ti ha affascinato del mondo dei suoni?

«Da bambino ero attratto dai suoni, ero curioso, avevo voglia di capire. Ero irrequieto, non stavo mai fermo, mai tranquillo. Ho messo alla prova i nervi dei miei genitori! Ma ho manifestato e capito da subito che la musica era la mia vita. Giocavo… con le costruzioni non creavo case, ma strumenti musicali, come i flauti, avevo già questa propensione. A casa c’erano gli strumenti classici, perché gli zii si dilettavano a suonarli, a mio padre piaceva la chitarra, non era eccelso, ma gli piaceva canticchiare a modo suo, credeva di essere bravo. Ma la mia passione non è nata dall’osservazione. Per me è qualcosa di innato, sei affascinato da un suono e lo sviluppi. In realtà tutti noi già quando siamo nel ventre materno percepiamo i suoni che provengono dall’esterno. Appartengono alla nostra memoria. La voce della madre poi tranquillizza il bambino e riesce a farlo addormentare. Non è la ninnananna in sé che lo calma, ma è la voce che è abituato a sentire. Assorbiamo tutti i suoni, è una curiosità che ci appartiene da sempre. La musica ha un ruolo importante. Poi, logicamente, un conto è essere curiosi, un conto è cercare di riprodurre quei suoni e farne una professione. Quello arriva con il tempo e con lo studio e l’approfondimento. Per me la musica è linguaggio, è la mia seconda lingua. È una grande forma di comunicazione, un modo per lanciare un messaggio. Il mio obiettivo è di farti trovare in un’altra dimensione e “staccare” la mente da tutto. Già nelle tribù africane era una forma di comunicazione molto potente, perché la voce non poteva essere percepita a grandi distanze, mentre il suono dei tamburi raggiungeva chilometri di distanza. La musica nasce dove l’uomo non può arrivare».

ph. Nicola Castangia

I tuoi strumenti provengono da tutto il mondo, ma molti sono da te costruiti. Dove li hai acquistati o come li recuperi?

Questa degli strumenti musicali è una “malattia”. Viviamo il mondo come se fosse a nostra immagine e somiglianza, ma all’interno del nostro sistema non siamo soli, arrivano tante influenze da parte di diverse culture. La sardità che diventa “egocentrismo” non mi appartiene e non mi interessa, non mi sento in un ombelico del mondo da cui tutto ha origine, dove tutto nasce e si sviluppa. Io guardo oltre il mare. Prendere strumenti da ogni parte del mondo deriva da una mia ricerca musicale, ma anche dalla domanda: “Se fossi nato lì come avrei utilizzato questo strumento?”. Tutto nasce dalla mia curiosità, mi piace vedere come in parti diverse del mondo esistano strumenti anche molto simili tra loro. Nella Via della Seta, ad esempio, ci sono tanti strumenti affini, dal mondo arabo sino all’Oriente. Si presentano in forme diverse ma la timbrica è la stessa e lo stesso è il principio. Non mi fermo solo a questo tipo di ricerca, mi piace crearne anche di nuovi, strumenti che non esistono, con forme differenti, ma anche apparentemente banali: dal suono che posso ricavare da una bottiglia d’acqua o da quella sonorità che posso creare dal nulla. Tutto viene naturale, ma bisogna anche studiare. La ricerca va in una determinata direzione se c’è dietro uno studio. Altrimenti stai creando ponti che non hanno un significato».

Sei entrato in contatto con qualcuno che ti ha insegnato qualcosa per quanto riguarda anche la costruzione degli strumenti?

«No, perché ognuno ha un suo pensiero. Mi hanno sempre appassionato la fisica e la chimica, che sono importanti per la musica. La fisicità dello strumento ne determina anche la timbrica, la chimica e il tipo di sostanze che possono entrare e possono danneggiare gli strumenti, come gli agenti atmosferici. Oppure se, ad esempio, se utilizzo la plastica in una certa modo, posso ottenere lo stesso suono prodotto da una chitarra in legno. Sono modi differenti di vedere le cose».

Come nasce la tua musica, da quali evocazioni?

«Innanzitutto il mio è un filone “New Age Spiritual Colossal”, rientra nel mondo della Cinematografia e appartiene al mondo Contemporaneo, olistico documentaristico. “Olistico”, perché è una musica che induce al rilassamento, da non confondere con la “musica rilassante per massaggi”, perché la mia non è lineare, cambia, accelera, rallenta. Tende a riportare l’uomo alle sue origini naturali, affinché risvegli in lui una forma di spiritualità e non sia concentrato solo sul progresso e sul denaro».

ph. Nicola Castangia

Tu sei stato fuori, hai viaggiato… come mai poi hai scelto di ritornare in Sardegna?

In realtà non ho scelto di rientrare in Sardegna. Si sono combinate alcune situazioni per cui mi sono arrivate delle proposte dalla Regione… ma penso che le mie idee fossero troppo innovative, io non sono un suonatore di launeddas tradizionale, sono un musicista che utilizza le launeddas in maniera diversa. La mia è una ricerca innovativa, dove lo strumento prende forma come se fosse una chitarra elettrica, o una cornamusa, o un sax, o un’armonica a bocca. Questo a volte fa storcere il naso ai tradizionalisti. Ma non è che io rifiuti la Sardegna… noi nasciamo liberi, in una terra chiamata “mondo”. A me interessa stare nel mondo. La Sardegna ce l’hai già dentro, ma io sono nato nell’ottantadue e ho avuto la possibilità di sperimentare e di capire perché la musica si è evoluta in una determinata maniera.

Arte, musica e riciclo. Tra i tanti strumenti che hai ideato, con le canne del Poetto tempo fa hai creato uno strumento che hai chiamato “Eram”…

Nel 2019 in seguito ad una mareggiata la spiaggia del Poetto fu completamente invasa dalle canne. È stato un forte momento di aggregazione, i bambini giocavano con le canne come se non le avessero mai viste. Ero rimasto molto colpito, perché era la prima volta che non ero stato io a cercarle per costruire i miei strumenti, ma loro erano giunte fino a me. Avevo voluto rendere omaggio a quel momento particolare, pensando anche al fenomeno dell’immigrazione, perché le canne spiaggiate ricordavano anche i corpi delle vittime portate dal mare, che oggi purtroppo è un cimitero a cielo aperto. Allora ho pensato di creare l’unico strumento che potesse parlare di quello che sta vivendo il mare, una sorta di strumento a corda… la corda può simulare le onde del mare, perché quando la fai vibrare produce un’onda e il suono viene propagato. Ho deciso di sperimentare e di creare uno strumento a corda utilizzando la canna e come tastiera un rostro, la spada del pesce spada e ho realizzato così uno strumento del mare… in seguito ne ho creato tantissimi.

Mi piace anche far cantare la voce dell’acqua utilizzando una semplice bottiglietta di acqua

naturale.

Sei anche autore delle musiche de “I venerdì della storia – Le bugie” dell’attore e autore Gianluca Medas, voce narrante dello spettacolo. In questo caso come nascono le tue composizioni per questo appuntamento alla manifattura Tabacchi di Cagliari?

Lì è un altro lavoro sull’improvvisazione diretta, in simbiosi con l’artista. Non ci sono prove. È fatto tutto sul momento e a me piace perché spazio e posso giocarmela sempre in maniera diversa. Misteri irrisolti e strumenti diversi, e ogni volta musiche e sensazioni nuove.

Ph. Nicola Castangia

Licia Colò ti ha chiamato diverse volte nelle sue trasmissioni. Sei stato invitato a portare la tua musica nello studio di “Il mondo insieme”, proprio per quella tua capacità di riuscire a fare suonare qualsiasi oggetto della quotidianità e ovviamente per i tuoi strumenti musicali dedicati ai vari paesi del mondo. Come è stata questa esperienza?

Inizialmente mi hanno invitato in trasmissione per suonare la carta e altri oggetti semplici e comuni. È stata una bella esperienza, sono stati gentilissimi, ma prevalentemente cercavano qualcosa che potesse stupire… suonare un pezzo di carta, o il vetro o un uovo magari è una forma spettacolare che colpisce maggiormente in tv. Poi, lei (Licia Colò) era rimasta colpita dall’Eram, perché unisce alla ricerca sonora una riflessione più profonda sull’emigrazione. Quando ho avuto la possibilità di suonare l’Eram ho potuto dare un senso più profondo e strutturato a ciò che voglio esprimere. È stata una pubblicità positiva e poi è una strada tutto da costruire. Io credo che non bisogna restare statici, ma perseverare e migliorare, sempre con umiltà. Io non suono esclusivamente per esibirmi in concerto, suono perché amo la musica. La vivo con umiltà e spensieratezza. Se il pubblico viene, bene, altrimenti suono lo stesso.

***Questo testo e gli scatti non possono essere riprodotti, senza l’autorizzazione dell’autrice e del fotografo, che ne detengono i diritti. Il testo e il materiale fotografico sono apparsi sulla rivista Iod (numero di settembre 2023).

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138 ANNI: Tanti auguri STINTINO!

Reportage di Luciana Satta

***Articolo di approfondimento finora inedito, scritto nel 2009 per la bella rivista cartacea “Sardegna Fairway” e per il direttore e amico Lucio Piga. Lo pubblico oggi, per la prima volta, in occasione dei 138 anni di un luogo che amo da sempre: Stintino.

ph. Luciana Satta 2023

Il paese, racchiuso tra due insenature a forma di budello (in dialetto “isthintu”), si adagia con i suoi due porti, il “porto Nuovo”, detto anche “portu Mannu”, e il “porto Vecchio”, “portu Minori”, e ha il sapore di tempi antichi. Eppure il piccolo borgo marinaro ha origini abbastanza recenti. Fu fondato nel 1885, quando quarantacinque famiglie dovettero loro malgrado abbandonare l’isola dell’Asinara, che fu trasformata in stazione sanitaria di quarantena e in colonia penale. Queste famiglie, di agricoltori sardi e pescatori genovesi, furono alloggiate nelle strutture della Tonnara delle Saline. La raggiunsero con le loro barche, scoprendo così un punto strategico per la loro attività di pesca. Un mare, quello della zona, ricco di pesci e di aragoste. E, naturalmente, come è noto, di tonni.

La Tonnara delle Saline (le cui prime notizie risalgono al 1604, quando ne fu concessionario Giovanni Antonio Martino) divenne indispensabile allo sviluppo della tradizione della piccola pesca. Intere generazioni di stintinesi divennero maestri della pesca del tonno, come si può capire visitando il Museo della Tonnara, un tempo al porto Nuovo, attualmente in via Lepanto, alla fine della strada panoramica che conduce al borgo e si affaccia sul porto vecchio. Un passaggio significativo per capire il ruolo fondamentale della pesca nella vita degli abitanti di Stintino. Da sempre.

Nel 1904 fu fondata la “Società mutua cooperativa fra i pescatori di Stintino”, che in seguito divenne la “Cooperativa pescatori di Stintino” costituita da 68 soci. Già dai primi anni del Novecento, quindi, Stintino sarebbe diventato il luogo delle vacanze della borghesia della città di Sassari e degli altri centri vicini, come Porto Torres. E proprio da Porto Torres, passando davanti alla vecchia Tonnara (ricordata soprattutto per la pesca miracolosa del 1968, quando nella “camera della morte” finirono più di duemila tonni), si arriva a Stintino.

Già frazione del comune di Sassari, il 10 agosto del 1988 Stintino è diventata comune autonomo. Nel marzo dell’anno successivo si tennero le elezioni per la nomina del consiglio comunale.

Se la si esplora meglio, poi, la costa non è l’unica attrattiva di Stintino. Lo sono anche i nuraghi e gli stagni salmastri dove i fenicotteri rosa hanno ripreso a nidificare, dopo una pausa di anni. Uno degli stagni si trova lungo la spiaggia delle Saline, dominata da una delle più antiche torri di avvistamento della Sardegna e vicino alle antiche saline che fino al XIII secolo venivano sfruttate  dai monaci di Santa Maria di Tergu. E non è raro che i maestosi fenicotteri rosa, a branchi, attraversino nel periodo estivo il cielo di questo territorio incantevole, sopra gli occhi di turisti curiosi.

Dalla spiaggia delle Saline si arriva agli altri splendidi arenili. Dalle Tonnare, superato il paese, si passa a  Cala Lupo, che sorge nell’omonima baia tra Stintino e Capo Falcone, in posizione dominante sul mare e, con le sue piccole spiaggette di sabbia a grana grossa e scogli, amata dagli appassionati delle escursioni subacquee.

Il forte contrasto tra due mari, il cosiddetto “Mare di fuori” (a occidente, dove si trovano le calette con le spiagge di “Coscia di Donna” e di Punta su Torrione”) e il “Mare di dentro” (la regione interna) domina il territorio stintinese.

Pochi minuti dal paese e si può ammirare un altro luogo scelto dagli appassionati delle immersioni. È la spiaggia di Punta Negra. Delimitata da brune scogliere, con la sua sabbia candida e fine, la spiaggia di Punta Negra è circondata dalla tipica macchia mediterranea con i suoi alberi vicino alla riva e offre un’incantevole vista sul golfo. E ancora, non si possono dimenticare luoghi come i Tamerici, l’Ancora, il Gabbiano. Dispongono di piccoli villaggi attrezzati, di centri di ristoro, mete ideali per gli sportivi amanti del windsurf, della vela e della canoa. 

Ma è più avanti che si apre la più nota spiaggia di Stintino, tappa obbligatoria per chi vi arriva per la prima volta. Suoi punti di forza sono, certamente, l’intensa sfumatura colore turchese del mare, il fondale basso e la sabbia bianchissima che la rendono unica. È la Pelosa.

Giunti in spiaggia non si può non rimanere colpiti alla vista del paesaggio, un quadro di straordinaria bellezza su cui si staglia l’isolotto e la caratteristica torre aragonese. Quest’ultima fu costruita nel 1578, a difesa del litorale, mentre un tempo l’isolotto era raggiungibile a piedi dalla spiaggia, seguendo un passaggio naturale. Poco più in là lo sguardo si rivolge all’isola Piana. Nel passato era pascolo per il bestiame il quale, data la vicinanza alla costa, veniva portato a nuoto, trainato sui barconi. Ed ecco, oltre l’isola Piana, il profilo delle rocce dell’isola dell’Asinara, un tempo carcere di massima sicurezza e, dal 1997, Parco Nazionale, mentre alla sinistra della Pelosa si stagliano, imponenti, le scogliere di Punta Capo Falcone.

Non mancano le attività che valorizzano al meglio le splendide acque di Stintino. Protagonista incontrastata ormai da ventisette anni è la “Regata della Vela Latina”, che coinvolge imbarcazioni provenienti da diversi Paesi del Mediterraneo. Nata nel 1983, su iniziativa dei fratelli Paolo e Piero Ajello, nel 1987 e nel 1991 è stata poi insignita dall’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, del “Trofeo Challenge Presidente della Repubblica” e nel 1998, dalle rispettive cariche istituzionali, dei Trofei “Challenge Presidente del Senato” e “Ministro della Pubblica Istruzione”. Fino a quando nel 2004 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, ha voluto rinnovare il Trofeo presidente della Repubblica, conferendo alla manifestazione un riconoscimento d’argento. È un evento importantissimo per Stintino. È un appuntamento a livello internazionale, che attira da sempre un folto pubblico. Ma la Vela Latina è solo uno degli appuntamenti stintinesi. Non si può non menzionare, infatti, il “Raduno dei 45”, nella prima settimana di agosto, regata con cui viene celebrata la nascita del paese, o ancora, il “Viaggio del postale”, nella seconda metà di luglio, rievocazione dell’antico servizio di trasporto postale tra Stintino e Porto Torres ad opera di Clemente Bonifacino, a bordo della barca a vela “Buona Difesa”.

Tre mesi di appuntamenti con la tradizione, inaugurati ogni anno dalla “Sagra del tonno”, il primo sabato di giugno. Cuochi provetti offrono piatti a base di tonno accompagnati da un ottimo vino.

Negli anni Stintino non sembra sia stata toccata dai contraccolpi della crisi. Alla vacanza non si rinuncia. E se la meta è Stintino non è difficile capire il perché.   

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***Articolo di approfondimento finora inedito, scritto nel 2009 per la bella rivista cartacea “Sardegna Fairway” e per il direttore e amico Lucio Piga. Lo pubblico oggi, per la prima volta, in occasione dei 138 anni di un luogo che amo da sempre: Stintino.

Essere “Figli d’Arte”

In libreria “L’Arte di essere Figli”

Scrivere questo libro è stato come salire su un treno. Intraprendere un viaggio. Dove ho atteso che ad ogni stazione i miei compagni di avventura, voi, figlie e figli d’arte, saliste a bordo. A volte mi sono fermata e vi ho aspettati. Qualcuno di voi non è arrivato. Qualcuno si è seduto subito accanto a me e siamo partiti. Di alcune delle vostre storie a volte ho preferito custodire i segreti più intimi, scegliendo di non pubblicarli. Le altre sono scritte in questo mio libro. Tutte mi hanno aiutato a capire il significato del più difficile dei mestieri: “L’arte di essere Figli”.

(Luciana Satta)

https://www.carlodelfinoeditore.it/scheda-titolo.aspx?isbn=9788893613040

L’Arte di essere Figli è la storia dei figli e delle figlie di personaggi celebri nel mondo dell’arte, del cinema, della musica, della cultura. Figli di artisti che hanno respirato l’arte in famiglia, con gli occhi di bambine e di bambini, per poi spiccare il volo e correre verso il sogno sulle loro gambe per afferrarlo con le loro mani.

Francesco Venditti, figlio di Antonello Venditti e di Simona Izzo, Cristiana Ciacci, figlia di Little Tony, Liliana De Curtis, figlia di Totò, raccontata dalla nipote del Principe, Elena Alessandra Anticoli De Curtis, Cristiano De André, figlio di Fabrizio de Andre’, Paola Gassman, figlia di Vittorio Gassman, Simona Izzo, figlia di Renato Izzo, Chiara Tortorella, figlia di Cino Tortorella, Maria Elvira Ciusa, figlia di Mario Ciusa Romagna, Rosanna Banfi, figlia di Lino Banfi, Luca Parodi, figlio di Andrea Parodi, Carlotta Bolognini, figlia di Manolo Bolognini.

Attraverso documenti, interviste, testimonianze e scatti preziosi, l’autrice offre un racconto inedito sul loro rapporto con il genitore, madre o padre, o entrambi, artisti di successo. Ogni capitolo dell’opera è introdotto da una pagina fotografica: uno scatto che immortala il figlio o la figlia, bambino o bambina, o adolescente, in compagnia del padre o della madre celebre, o di entrambi i genitori celebri. Ogni storia prende il suo titolo semplicemente dal nome proprio del figlio o della figlia. Francesco, Rosanna, Cristiano, Gianluca e tanti altri. In chiusura, lo scatto recente del protagonista del capitolo, da adulto. 

Una narrazione costruita con taglio giornalistico e svelata con delicatezza dall’autrice, attraverso una introduzione, alla quale segue l’intervista al personaggio. Un libro avvincente e prezioso sia per la ricchezza del materiale fotografico, sia per l’eleganza della grafica.

Ascolta l’intervista: https://www.radiolina.it/articolo/podcast-la-strambata/2023/07/19/luciana-satta-presenta-l-arte-di-essere-figli-un-libro-dedicato-a-106-1184627.html

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La platea dell’Umanità

Quel giorno a Venezia

(***Clicca sul video, la musica ti accompagnerà nella lettura) 
Video di Rene Caovilla – Diretto da Oliver Astrologo

Silenzio intorno a te. Gli archi intrecciati e i loggiati dei palazzi si riflettono splendenti e vibranti nelle acque della Laguna, nelle pieghe dei calli e nel reticolo dei canali. Davanti a te la Serenissima, l’innamorata segreta di chi la sa corteggiare e quell’impressione sia lì solo per noi. Ti fermi in ascolto.

di Luciana Satta

L’obiettivo di mille fotografi non riuscirà mai a cogliere quello che stiamo vedendo, le parole dei poeti non possono rendere quel momento, quell’attimo, quel raggio di bellezza che ci è riservato e che attendeva solo noi per essere raccolto.

Venezia, incerta fra cielo e terra è lì e, come uno specchio, lascia scoperta la tua anima, ti invita a entrare nel gioco dell’infanzia eterna. Vuoi tuffarti in questo universo di immagini e di colori, dove passato e presente non hanno più confine e si confondono in una danza di chiaroscuri. Il tempo è uno spazio aperto e impalpabile.

Ti prende per mano, ti porta con sé.

Venezia 2001 - ph. Luciana Satta
Venezia 2001 – ph. Luciana Satta

Ma il tuo sguardo è già lontano, spazia oltre i giardini. Una fila di tartarughe d’oro ti porta ancora più lontano, fino al grande letto. Ti sembra impossibile che quei corpi nascano dalla pietra, ma sei a Venezia, dove tutto è vita e morte al tempo stesso. I loro volti, inesistenti, ti guardano e ti parlano di poesia.

Un uomo è sdraiato accanto a una donna e avvolge il braccio intorno alle sue spalle.

Biennale Venezia 2001 – ph. Luciana Satta

Vorresti fermarti, ma non vuoi che il gioco finisca. I tuoi occhi ti hanno già portata all’interno di una grande sala, dove un uomo su una scala dipinge accuratamente le pareti di nero, mentre nella stessa sala una donna riprende il lavoro da capo e le ridipinge di bianco. Nero e bianco si rincorrono incessantemente: non esiste dolore senza gioia.

Tu cammini e canti, mentre sei già nella stanza accanto.

Scarpe gialle, rosse, blu liberano la tua immaginazione. Vorresti indossarle per sentirti leggera.

Vai alla finestra, guardi fuori, di nuovo verso il giardino. Su una panchina di legno siede quella ragazza. Alle sue spalle un enorme pannello bianco riporta una scritta: “La platea dell’Umanità”. Il suo viso è come un vetro attraverso il quale leggi la scritta: “La platea dell’Umanità”, tradotta in tutte le lingue del mondo. Lei è immobile, lo sguardo assente, fissa un punto preciso nello spazio senza limite, occhi ingigantiti a dismisura, occhi che parlano. Sembra non voglia più alzarsi, andare via. Le siedi accanto e come lei stringi forte le mani ai bordi della panchina.

Accenni un sorriso e ti scatto questa fotografia.

Mentre ti guardo ripenso a quella canzone: “perché sono le sfumature a dare vita ai colori/ e a farci tornare in mente le cose più pure dei giorni migliori”.

“La platea dell’Umanità” Luciana Satta alla Biennale di Venezia, 2001

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ALIGI SASSU

Figlio della Sardegna, sardo e isolano nella fantasia

di Luciana Satta

Figlio della Sardegna, sardo e isolano nella fantasia, con una pittura che accostava allegria a drammaticità, sacro a profano. Colori forti, che Aligi Sassu utilizzava per descrivere il sole del Mediterraneo, gli uomini e le donne, i mari e, immancabili, i cavalli “meravigliosi, furiosi, teneri e soavi”, tema costante della sua opera. Sassu non dimenticò mai l’Isola. Nato a Milano nel 1912, a nove anni si trasferì a Thiesi. Un ritorno alle origini, dopo la parentesi milanese, periodo durante il quale ancora molto piccolo si accostò al Futurismo. E nel decennale dalla sua scomparsa, nel 2010, l’Isola ha reso omaggio al Maestro. Thiesi, paese natale del padre Antonio, lo ha ricordato e dedicato un Museo. Presenti all’inaugurazione, il 23 maggio del 2010, la moglie Helenita Olivares Sassu, il figlio Vicente Sassu Urbina e Antonio Serra, amico e parente dell’artista.

Una collezione permanente a cura di Alfredo Paglione e Silvia Pegoraro (con la collaborazione di Elsa Betti), costituita da centoventi opere grafiche e pittoriche, con una selezione di lavori realizzati fra il 1929 e il 1995. Diverse le tecniche utilizzate per le opere grafiche (1929-1995): dalla litografia alla puntasecca, dall’acquaforte all’acquatinta. Nucleo centrale del Museo le due opere murali “I moti Angioini” e “La Vita e la Natura”, risalenti agli anni Sessanta. Il legame forte con la letteratura si evince dalle venti litografie, acqueforti e acquetinte della cartella “I cavalli innamorati” (edita nel 1973), accompagnate dai versi del poeta Raffaele Carrieri, suo amico. Presenti nell’esposizione di Thiesi anche cinque grandi litografie (“Omaggio alla Sardegna”), con le poesie di Sebastiano Satta. I rossi esprimono l’energia dei cavalli in “Come l’acqua nel fuggire” (1973) e ne “L’apparizione della Fenice” (1987).

E ancora, altre splendide opere di Sassu che si possono ammirare nel Museo thiesino sono “La grande battaglia” del 1987, “Più della luna pesa la criniera” (1973) e “Le puledre dell’isola bianca” (1987). Illustrano infine l’Apocalisse sette opere grafiche. Scrive Simona Campus, curatrice del catalogo della mostra: “Aligi Sassu è il colore. Della Sardegna, del mondo, dell’anima. È il rosso. È il giallo della canicola bruciante sui fichi d’India nel Sulcis e della luce confusa tra i corpi dei partigiani morti ammazzati. È il verde sulla bandiera dei Saraceni conquistatori e di un cavallo immaginato. È il bianco della schiuma del mare e degli abiti femminili nei caffè parigini. È il nero dentro le miniere e della notte sopra Chicago. Sassu ha viaggiato entusiasta, fino in Cina e in Venezuela e in Messico e a Cuba e negli Stati Uniti d’America. Ha scelto Milano per crescere, Maiorca per vivere e per amare. Ma torna sempre in Sardegna. Perché è la terra di suo padre. Perché qui è il fondamento della sua coscienza civile. Perché da qui si spiega il suo istinto per la libertà”.

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***Articolo pubblicato per la prima volta nella versione cartacea de “Il Messaggero sardo, i giornali dei sardi nel mondo”, direttore Gianni De Candia, nel 2010, in occasione dell’inaugurazione del Museo Aligi Sassu. Non tutte le opere raffigurate nelle immagini sono presenti nell’esposizione di Thiesi.

Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e l’autorizzazione dell’autrice.

PIERANDREA CARTA L’arte della filigrana

Le mani d’oro di tre generazioni di orafi

il maestro orafo Pierandrea Carta

di Luciana Satta

«Ho sempre seguito mio padre. Da ragazzino studiavo e poi venivo in laboratorio a osservarlo mentre lavorava la filigrana. Era uno di quei maestri di altri tempi: dovevi imparare attraverso l’osservazione. Lo guardavo, lo osservavo all’opera e “rubavo i gesti”».  Sguardo attento, quello del maestro orafo cagliaritano Pierandrea Carta, mani laboriose di chi si è accostato ai segreti di quest’arte millenaria da bambino, un’arte che non è solo una passione ma un’eredità da conservare e tramandare con cura e amore. Una tradizione di famiglia. «Mi sono sempre piaciute l’arte della filigrana e la vita di laboratorio, inoltre vivevo il vantaggio di avere a casa uno dei massimi esponenti di questa disciplina. Per mio padre il lavoro doveva raggiungere la perfezione tecnica. Mi ha appassionato sempre la ricerca di un’esecuzione che presentasse le caratteristiche degne della filigrana: leggerezza, pulizia dell’esecuzione, rendere le saldature non visibili. Realizziamo il saldante in laboratorio, non compriamo quelli già pronti, proprio perché anni e anni di esperienza ci hanno portati a cercare di raggiungere uno standard elevato di produzione. Io ho imparato così. Papà poi non era una persona facile, quando un lavoro non lo soddisfava te lo diceva anche a muso duro. Ma ho continuato e trasformato la passione in una professione».

Video di Confartigianato Imprese Bergamo

La gioielleria Carta è stata fondata nel 1920 da Francesco Carta, tuo nonno. Qual è la storia della vostra famiglia, come nasce questa passione?

Mio nonno ha iniziato da ragazzino in una bottega di argentieri nel rione vecchio di Cagliari, il quartiere di Castello, e poi ha aperto un laboratorio, in cui hanno iniziato a lavorare degli apprendisti. Mio nonno era un abilissimo incisore, ha realizzato tantissimi stemmi nobiliari di Castello. Tutti i nobili di Cagliari si rivolgevano a lui, anche perché agli inizi del secolo scorso la città era un centro piccolo e mio nonno era diventato punto di riferimento del settore. Mio padre era ragazzino quando ha iniziato a lavorare come apprendista e, dopo la guerra, si è appassionato ancora di più alla filigrana portandola ai massimi vertici. Così anche lui si è affermato per stile e precisione.

Era il 1963 quando ha aperto l’attività, in via Garibaldi, dove siamo presenti ancora oggi. Ha realizzato tante opere, come il noto Rosario esposto nella sala matrimoni del Comune di Cagliari. Invece nel Cinquantasei, nel vecchio laboratorio di via Castello, è stata realizzata l’aureola di Sant’Efisio. L’Arciconfraternita di Sant’Efisio aveva incaricato mio padre di realizzare un’aureola d’oro e lui fu entusiasta di questa proposta. Il 30 aprile del 1956 consegnò l’aureola di Sant’Efisio. Qualche anno dopo gli chiesero di realizzare anche la Palma d’oro che il santo tiene in mano durante la sfilata. Realizzò anche quell’opera.

Ma come mai secondo te la commissionarono proprio a lui, che cosa aveva in più, quali erano le sue qualità?

Il laboratorio di nonno e di papà era molto conosciuto per la precisione stilistica, per la pulizia delle esecuzioni. Oltre ad essere un grandissimo incisore, nonno aveva appreso tanto dagli argentieri e aveva frequentato una scuola di gioielleria. Per questi motivi aveva un tocco più leggero, dal punto di vista tecnico e pratico. L’aureola di sant’Efisio presenta infatti una serie di incastonature molto rifinite.

Pierandrea Carta e l’Aureola di Sant’Efisio

Hai seguito tanti progetti in giro per il mondo, Quali ti sono rimasti impressi, quali ti hanno colpito di più?

L’esperienza giapponese resterà indelebile nella memoria. Andare dall’altra parte del mondo e affrontare quel tipo di mercato è stata un’esperienza forte, entusiasmante. Ma anche l’esperienza a Barcellona, con l’Istituto orafo, e le mostre a Vienna. È importante confrontarsi con un pubblico che non è il tuo, vedere come riesci ad affascinarlo, a spiegare questa tradizione e la tecnica sarda. Sicuramente lo scambio con il Giappone è stato il più forte.

Come si svolgevano questi eventi? Mostravi l’arte orafa?

In Giappone siamo stati ospiti della Fiera Internazionale di Tokio e lì, all’interno dello stand organizzato da una società di import export di filigrana sard,a facevamo delle dimostrazioni dal vivo. Avevamo un banco orafo e mostravamo quali fossero i processi costruttivi della filigrana. Questa è stata un’idea mia che proviene dall’esperienza con Nicola Castangia delle varie dimostrazioni dal vivo perché ho pensato “In un mercato e in un paese così lontano, molto tecnologico, dove l’artigianato è ridotto veramente all’osso, dobbiamo far capire che tutto quello che viene realizzato, è fatto a mano. Questa è stata, soprattutto nelle prime due Fiere, una mossa vincente perché ha attirato moltissimi visitatori e ha prodotto anche interesse notevole. Difficilmente si sa che cosa succeda dentro un laboratorio orafo, soprattutto per quanto riguarda l’arte della filigrana Questa è sempre una mossa vincente per divulgare qualcosa: mostrarla dal vivo, spiegare come si realizza.

ph. Nicola Castangia

Che cosa hanno apprezzato della Sardegna? Cosa ha colpito particolarmente il pubblico internazionale? Quali tipologie di gioielli?

I giapponesi hanno apprezzato soprattutto la Storia della Sardegna. L’accostamento della storia dell’oggetto alla simbologia che cela. Per esempio abbiamo spiegato che Su Dominu è il gioiello che la mamma dello sposo regala alla nuora nel momento in cui viene accolta in casa. È un passaggio di consegne. Oppure che la Spilla Piccione è la spilla degli innamorati. Spieghiamo sempre che un gioiello sardo ha un valore sociale. Questo li ha affascinati moltissimo e siamo stati lieti di portare l’immagine della Sardegna oltremare. È un prodotto che va raccontato, devi saper spiegare quanta passione c’è, quanta tecnica.

Particolari bicolore

I primi due anni in Giappone ho collaborato anche con un professore di oreficeria dell’Istituto orafo di Tokio, prof. Kavasaki, e ovviamente ci siamo scambiati delle opinioni. Il professore era molto colpito da quest’arte antica, ma così precisa. Quando incontro persone del settore ci tengo molto a scambiare idee su questi gioielli, perché il senso di divulgazione è fondamentale. È un’arte bellissima, che dovrebbe essere tutelata per evitare che si perda, perché ormai c’è la prepotenza della fusione, dei semilavorati e del semi industriale che stanno prendendo piede. È un peccato. Come tutte le professioni artigianali è necessario un apprendistato molto lungo, a volte i riconoscimenti economici non arrivano subito e le spese sono tante.

Ci sono dei giovani che hanno ancora la voglia di imparare e che fanno anche dei sacrifici per apprendere quest’arte così come l’hai appresa tu?

Secondo me siamo arrivati a un punto significativo nella storia della filigrana, a una sorta di spartiacque. Sto ricevendo molte richieste di persone che hanno voglia di imparare. Tempo fa avevo un’allieva, che ora ha aperto il suo laboratorio ad Arbus ed espone in varie parti d’Italia, in fiera a Milano, e sono molto contento. È difficile fare l’apprendistato, ci vorrebbe proprio una scuola, infatti stiamo cercando di portare avanti un progetto per crearne una seria, una vera scuola di filigrana. Il punto è questo: siamo talmente pochi artigiani a realizzare la filigrana a mano che sarebbe indispensabile rigenerare il settore. Quindi ho sposato con grande entusiasmo il progetto della Fondazione Colgni, quando mi ha contattato e mi ha chiesto se volessi fare un apprendistato per una ragazza o un ragazzo sardo. Ho accettato subito volentieri, perché sono necessarie leve nuove e chi ha la passione ha il diritto di continuare. I costi non possono essere un problema, perché questo artigianato è talmente importante dal punto di vista socioculturale che poi alla fine cosa ci rimane? Solo le spiagge della Sardegna? Invece abbiamo delle arti bellissime da tramandare che possono produrre reddito: l’oreficeria, la ceramica, il legno, la tessitura. Ci devono credere le Istituzioni! Facendo sistema, struttura, si risolverebbero tanti problemi della nostra Isola.

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***Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e l’autorizzazione dell’autrice. Le foto mi sono state gentilmente concesse da Pierandrea Carta e sono di sua proprietà.

TONI SERVILLO L’incanto della Notte dei poeti

A Nora Toni Servillo legge Grazia Deledda

Un viaggio tra le righe e i versi della scrittrice Premio Nobel per la Letteratura

Toni Servillo legge Grazia Deledda (ph. Luciana Satta)

Sarà quello scenario così unico in Sardegna, con la sua torre che dalla cima del promontorio domina l’antica città di Nora e il mare intorno è una cornice impressionista. Sarà il vento salino che ti accarezza la pelle e la luce del tramonto che ti illumina gli occhi. Sarà l’incanto del Teatro romano, che si apre alla vista tra le rovine dell’antica civiltà fenicio punica, e poi romana. Sarà che La Notte dei poeti del CEDAC festeggia quarant’anni e che stasera uno dei più grandi attori italiani legge Grazia Deledda. Sarà, ma questa è una serata imperdibile. Qui oggi si respira arte. Qui, dove il tempo è sospeso. Silenzio, parlano i poeti.

“Il filosofo ammonisce: se tuo figlio scrive versi correggilo e mandalo per la strada dei monti.
Se lo trovi nella poesia la seconda volta, puniscilo ancora.
Se va per la terza volta, lascialo in pace perché è un poeta”.

(Toni Servillo legge grazia deledda al teatro romano di nora)
Toni Servillo legge Grazia Deledda (Videoclip di Luciana Satta)
La XL edizione de “La Notte dei poeti del CEDAC (ph. Luciana Satta)
(ph. Anna Brotzu)
(ph. Luciana Satta)

Vi segnalo i prossimi appuntamenti:

Il cartellone

Il XL Festival “La Notte dei Poeti” è organizzato dal CeDAC / Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo dal Vivo in Sardegna con il patrocinio e il sostegno del MiC / Ministero della Cultura, dell’Assessorato della Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport della Regione Autonoma della Sardegna e del Comune di Pula con il contributo della Fondazione di Sardegna e il prezioso apporto di Sardinia Ferries, che ospita artisti e compagnie sulle sue navi.

***un ringraziamento particolare alla cara collega Anna Brotzu, sempre preziosa.

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Nel giardino sonoro di PINUCCIO SCIOLA

La voce del polistrumentista Gavino Murgia e il fuoco tra i monoliti

“Dietro ogni angolo, dietro ogni pietra di questo meraviglioso giardino c’era una sorpresa, una storia da raccontare e aveva una pietra da farmi sentire e una sonorità diversa, una modalità diversa nell’accarezzarla, nel percuoterla, nel suonarla. Abbiamo fatto tante cose insieme, in giro per la Sardegna, per l’Italia, per l’Europa e quindi abbiamo condiviso tanti momenti meravigliosi. Io ho imparato tantissimo da lui. Pinuccio è espressione diretta della pietra. Lui era, è un artista straordinario, senza tempo e ha lasciato un’impronta straordinaria, incredibile. Una modalità primordiale, usare la pietra come un litofono. Forse nella preistoria il primo strumento utilizzato dall’uomo a parte la voce, è stata la pietra”. 

(Gavino Murgia ricorda l’amico Pinuccio Sciola, il maestro delle pietre sonore, 29 maggio 2022 Festival Sant’Arte, San Sperate)

Le sculture del Giardino Sonoro di Pinuccio Sciola, a San Sperate (Sardegna)
(Gavino Murgia ricorda l’amico Pinuccio Sciola, 29 Maggio 2022 – Ascolta l’audio)

 

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La fontana di Rosello simbolo di Sassari

Gli antichi mestieri della città

di Luciana Satta

È il simbolo della città e dell’identità popolare sassarese. Un luogo da preservare che racconta un passato che esiste solo nella memoria. Dalla lunga rampa di scale settecentesca che fiancheggia la Chiesa della Santissima Trinità le donne scendevano in gruppo, intonando i canti popolari. Poi raggiungevano il Lavatoio, adiacente alla storica Fontana del Rosello, per raccogliere l’acqua con le brocche e per lavare i panni. Quello delle lavandaie (“labadóri”) non era un semplice e faticoso mestiere femminile, svolto dalle madri e dalle figlie, o dalle professioniste, spesso nubili o vedove, che venivano retribuite dai signori per fare il bucato. E la valle del Rosello era l’essenza dell’identità popolare. Era un luogo dove si instauravano relazioni sociali e dove, per tutto il Medioevo e i primi anni del Novecento, gli acquaioli, i trasportatori di acqua (“carraióri”) si ritrovavano per attingere l’acqua per poi trasportarla nelle case servendosi degli asini e di appositi contenitori detti “mizini”.

Veduta dal ponte di Rosello. Ph. Luciana Satta

Il Lavatoio è il simbolo della città di Sassari, insieme alla Fontana del Rosello. Si trovavano fuori dall’antica cerchia muraria della città. Oltre a rispondere alle esigenze di vita quotidiana, furono e restano opere monumentali di inestimabile valore e fascino.

Video Turismo Sassari

Della Fontana si ha testimonianza già nel 1295: negli Statuti sassaresi veniva chiamata Gurusele o Gurusello. È un monumento unico in Sardegna, costruito secondo lo stile tardo-rinascimentale, opera delle maestranze genovesi che lo realizzarono tra il 1603 e il 1606. L’acqua sgorga copiosa dalle dodici bocche (“cantaros”), otto maschere leonine e quattro teste di delfino, e dalle statue che rappresentano le quattro stagioni, collocate ai quattro angoli. Ercole con la pelle del leone, l’autunno, il vecchio che dorme, l’inverno, la fanciulla con una ghirlanda fiorita, la primavera, la donna con un fascio di spighe, l’estate. Insieme all’acqua erano l’espressione allegorica dello scorrere del tempo. In alto le torrette e i due arconi incrociati sulla Fontana sostengono la statua del martire turritano San Gavino a cavallo, copia dell’originale.

San Gavino a cavallo. Fontana di Rosello. ph. Luciana Satta

L’esistenza dell’antico Lavatoio è invece documentata in un’incisione del 1849. Si sviluppa in lunghezza ed è caratterizzato dalle due lunghe vasche con due canali ai lati, che fanno defluire l’acqua in un condotto scavato nella roccia. In passato la  copertura a capriate di legno non esisteva. Fu costruita nel 1905, per riparare le lavandaie dalle intemperie. Loro portavano i panni nelle ceste e, giunte al Lavatoio, passavano sui tessuti il detergente che un tempo veniva utilizzato per sgrassarli e disinfettarli, la lisciva, ricavato dalla cenere del camino. Altre volte, utilizzando grasso animale o vegetale, realizzavano il sapone.

Quindi strofinavano i panni e li battevano sulla pietra, li strizzavano aiutandosi a vicenda e li mettevano ad asciugare. Attraverso “li ciarameddi”(i pettegolezzi), le donne si raccontavano gli avvenimenti che coinvolgevano la comunità ma, soprattutto, trascorrevano il tempo in compagnia, alleviando così le fatiche di un lavoro molto duro.

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Una chiacchierata con… i BERTAS!

Nati per la musica  

   di Luciana Satta

    

“Fino a quando avrai canzoni da cantare
la voce non si stanchi,
la voce non ti manchi mai”

Casa Dau, a Sassari, è un edificio dei primi anni del Novecento. In questo palazzo antico si respira la storia della città, sin dalla rampa di scale dai gradini alti che percorriamo per arrivare allo studio di registrazione dei Bertas. Mi accompagna l’amico Salvatore, che della più longeva band sarda è grande fan. Ciò che da subito mi colpisce è il collage di fotografie, tantissime, attaccate al pannello esposto sulla parete. Il passato dei Bertas è lì, in quei visi di ragazzi, nei capelli e negli abiti degli anni Settanta e ora, oggi, in tutti quelle esperienze impresse sui loro volti. In tutti quegli aneddoti racchiusi in quegli scatti. Quante storie, quante vite. 

Siamo nati nel 1965, facciamo musica, e non sappiamo se mettano più paura gli anni alle spalle o l’idea di non averne altrettanti”… che significato ha per voi questo pensiero?  

ENZO PABA: «È una frase che per noi dice tutto.  Se non avessimo avuto questa idea del futuro e del passato, avremmo smesso già trent’anni fa. Nella nostra lunga storia ci sono stati molti momenti in cui ci siamo guardati in faccia, alla fine di ogni stagione, e ci siamo detti “Che facciamo, continuiamo?” Ci abbiamo pensato due, tre volte. In realtà poi abbiamo capito che non aveva nessun senso smettere, perché il fatto di continuare a fare musica insieme ce l’abbiamo dentro. Continua a essere impensabile lasciare. Certo, la paura che il futuro non sia molto lungo, data l’età, in realtà c’è… ma non ci pensiamo, guardiamo sempre oltre, alle cose che dobbiamo fare. Questo forse ci ha aiutati nel corso di quasi sei decenni di attività musicale».

Nello studio dei bertas (ph. Luciana Satta)

FRANCO CASTIA: «Quando ho scritto questo pensiero, ho espresso forse quello che ci disturba. Capita ci venga chiesto: “Ma non siete stanchi, non avete voglia di smettere, non vi sentite vecchi?” A noi non succede. Ciò che ci succede è di valutare le esperienze che abbiamo fatto con il dispiacere di renderci conto che non potremo farne altrettante per lungo tempo… perché, avendo tutti sui sessant’anni, è così! Premetto che loro sono i Bertas, ma io mi sento parte della famiglia. Gli anni alle spalle hanno un’importanza e un peso, nel senso che dobbiamo onorarli, quelli davanti non potranno essere altrettanti e ci dispiace, perché la voglia di fare musica è la stessa. Cerchiamo di evitare l’inerzia, l’idea di dire “riposiamoci un po’”. Forse in questi ultimi anni abbiamo fatto di più, rispetto a quando avevamo maggiore freschezza fisica, proprio perché l’idea di voler vincere la “vecchiezza” (non la “vecchiaia”) è più forte. Poi, come diceva Enzo, ci spinge l’amore per quello che facciamo».

Tanti gruppi si sciolgono, a volte perché i componenti non vanno più d’accordo, nascono incomprensioni, litigano… qual è stato il vostro segreto per andare d’accordo, per mantenere vivo questo “collante” tra voi? Suppongo abbiate vissuto anche periodi di crisi: come avete fatto a superarli e ad andare avanti?

MARIO CHESSA: «Tutti noi abbiamo saputo anche vivere alcuni “compromessi”, nel senso che ovviamente se sappiamo che a Enzo dà fastidio qualcosa, o a Marco altro, cerchiamo comunque di andare avanti.

Bisticciamo spesso, ma alla fine la pizza ci sta sempre!».

Su cosa bisticciate di più?

MARIO: «Sulla musica soprattutto! Però sono litigi costruttivi, necessari (ride, n.d.r). È così da tanti anni…

MARCO PIRAS: In realtà chi entra a suonare in un gruppo, nel gruppo deve sapere vivere. L’ho capito sin da ragazzino: per poter andar avanti bisognava saper “cedere”, a volte, lasciare il passo anche agli altri, concordare cose che non sono sempre “sposabili” personalmente. Il segreto è dare spazio a tutti, come in una squadra di basket, per fare un esempio: un po’ per tutti e siamo andati avanti sempre tutti insieme. Abbiamo un obiettivo, un compito, che è quello della squadra: così abbiamo sempre cercato di reggere e di proseguire con questo spirito… sempre…».

Nello studio dei Bertas (ph. Luciana Satta)

Ad Antonio Costa e alla sua caparbietà risale la nascita dei Bertas. Andiamo indietro nel tempo, negli anni: come nasce la storia dei Bertas, come vi incontrate? 

MARIO: «Noi seguivamo già i Bertas quando ancora non ne facevamo parte, nel senso che eravamo più piccoli di loro. Io sono anche cugino di Carlo e di Antonio Costa. Seguivo i Bertas per motivi anche “familiari”. Antonio ha fondato i Bertas andando via da un altro gruppo sassarese, i Baronetti. Dopo sei anni sono subentrato io, poi è arrivato Marco, che allora aveva 17 anni, infine si è aggiunto come paroliere Franco e così tutti gli altri… è stata una specie di staffetta… a un certo punto, Antonio ha mollato per seguire la Canepa e l’Ente lirico De Carolis. Lui componeva. Una volta andato via lui, siamo stati costretti a continuare a comporre per proseguire l’attività. E così siamo arrivati ad oggi».

“Fino a quando avrai canzoni da cantare la voce non si stanchi, la voce non ti manchi mai”: che cosa rappresenta la musica per i Bertas?

ENZO: «Credo che in questa frase ci sia l’essenza di quello che facciamo. La voce per noi ha la supremazia sullo strumento. Io ricordo che quando si entrava a far parte dei Bertas (molti hanno fatto parte dei Bertas in questi anni – in tutto 26 persone –). Chi entrava nel gruppo, più che saper suonare uno strumento, doveva saper cantare, doveva avere una voce che fosse compatibile con quelle degli altri componenti, perché la cifra dei Bertas sono i cori, lo è sempre stata. Quando c’era Carlo, quando c’era Giuseppe Fiori, il nostro compianto Giuseppe, in realtà eravamo quattro voci soliste, veramente complementari. Ognuno aveva le sue caratteristiche: c’era quello che aveva la voce più “graffiante”, o quello più melodico… queste quattro voci si incastravano molto bene nei cori e, soprattutto, nella scelta dei pezzi da eseguire. Era ed è la voce quello che caratterizzava i Bertas. Gli strumenti devono essere ovviamente suonati bene, col loro giusto impatto, con il giusto fraseggio, ma la vocalità e la coralità sono sempre state le nostre caratteristiche principali. Tant’è vero che poi abbiamo aggiunto dei coristi che ci supportassero in questo campo. Questo è appunto il senso della frase: la voce non si stanchi, la voce non ti manchi mai…».

MARCO: «Dopo l’esperienza della messa in sardo, dove avevamo sperimentato il doppio coro, abbiamo avuto l’esperienza del tributo a Brian Wilson e alla musica dei Beach Boys… anche lì entravano dodici voci, non simultanee, ma diversi cori che si sovrapponevano. Oggi ci stiamo sperimentando nel doppio coro, riusciamo a fare due cori all’interno dei nostri ultimi brani che sono in produzione adesso… per cui la responsabilità vocale è aumentata ancora di più. Ci aspettiamo che la voce regga, perché tutti i nostri progetti sono ad alto livello vocale».

FRANCO: «La frase nasce con una canzone del ’93, con “Amistade”, che era un album di rifondazione, perché per la prima volta i Bertas hanno fatto una scelta di campo, cioè hanno deciso di presentarsi con un repertorio personale, originale. Quell’album ha rappresentato una svolta. Al centro è sempre la voglia di cantare, continuare ad avere quella passione, quella spinta verso la musica. Inizi a pensare che ci sono tante componenti dovute all’età che non puoi governare con la buona volontà… Quando dovrai salire sul palco a 85 anni… vanno bene, Enzo? (si rivolge a Enzo Paba, ride n.d.r.)… ».

ENZO: «Ci son sempre le ambulanze! (ridono n.d.r.)».

Non si vive una volta sola: avevate scelto gennaio 2021 per presentare questo album, col chiaro intento di lasciare indietro la passata stagione. Come è stato l’anno appena trascorso per i Bertas? 

MARIO: «Abbiamo approfittato di questo periodo. Abbiamo sperimentato nuove forme di collaborazione perché, essendo con il lockdown costretti a stare a casa (e gran parte dei musicisti è organizzato e dotato di mezzi per poter registrare per conto proprio a casa), abbiamo progettato così: abbiamo mandato una base, Francesco Piu ha fatto delle sovrapposizioni al nostro brano, registrando la sua parte a casa sua… poi ci sono state anche altre collaborazioni importanti. Abbiamo dunque sfruttato il periodo nel modo migliore possibile».

ENZO PABA: «Forse ti riferivi al fatto che i musicisti hanno pagato un prezzo molto alto perché c’è il problema che tanta gente vive di musica, non soltanto i musicisti ma i tecnici, gli stessi nostri coristi… il musicista in sé ha utilizzato quel tempo per studiare, per provare nuove sonorità… da quel punto di vista questo ha fatto bene ai musicisti, tutto il resto è da dimenticare!».

Giuseppe Fiori (ha militato con i Bertas fino al 1979 per dodici anni, cantando e suonando la batteria, n.d.r.) è mancato di recente. Gli avete dedicato un pensiero molto bello nel vostro album e anche sulla vostra pagina ufficiale di Facebook: “I Bertas sono nati nel 1965, ma i Bertas sardi sono nati con Badde Lontana e Badde Lontana è nata con la voce di Giuseppe Fiori”.

Cosa ha rappresentato per voi? 

ENZO: «Il primo incontro con la musica sarda è nato con Giuseppe Fiori. Quando Antonio ci ha proposto Badde Lontana ci siamo accorti che sembrava molto strano che noi potessimo cantare in sardo. Giuseppe era l’unico che forse poteva essere più adatto di noi a cantare in sardo. Ancora adesso il cantare in sardo ci condiziona un po’, perché secondo noi si sente che non siamo di madrelingua sarda… un po’ come nel caso di Andrea Parodi o dei Tazenda, insomma. Giuseppe aveva una capacità di interpretazione con una passione che forse noi non avevamo, avevamo altre caratteristiche… è stato giusto che la cantasse lui. Era il ‘73 quando loro (senza di me) la presentavano nelle piazze, poi io sono entrato nel gruppo nel dicembre del ‘74 e nella primavera del ’75 abbiamo registrato Badde Lontana».

“Ieri, quando nessuno cantava in limba, l’abbiamo sostenuta a dispetto di qualche naso storto, perché credevamo nella sua bellezza e musicalità, prima ancora che per assecondare una nascente spinta identitaria; oggi, in tempi in cui il sardo, in tutte le varianti possibili, dilaga nel mondo sardista della canzone, spesso per conformismo più che per scelta, ci stiamo riappropriando di una parte di noi, una parte che reputiamo significativa e importante.

Quella che ci permette di essere qui a parlare con tutti, dalla nostra terra; o meglio: dalle nostre terre”.  (Bertas, dalla pagina web ufficiale: https://www.bertas.it/noi-siamo-i-bertas)

Avete portato la vostra musica nelle carceri, nelle comunità di recupero, avete suonato nel carcere di Alghero, nel locale della biblioteca intitolata a “Fabrizio De André”, a San Sebastiano, al centro Maria Madre dei Poveri (La Crucca). Avete detto “Tutte le volte, immancabilmente, alla fine della giornata, il disagio maggiore l’avevamo provato noi, nell’allontanarci da quelle sofferenze per tornare alle nostre fortune…”

ENZO: «Abbiamo suonato nelle carceri… ma l’esperienza nella Comunità di recupero La Crucca è stata un’esperienza ancora più forte… lì ho conosciuto una realtà che mi ha arricchito, ma è stato come un pugno allo stomaco».

Nel 2015 avete festeggiato in musica al teatro Comunale di Sassari il vostro 50° anno di attività. Che ricordo vi resta di quella giornata?

MARCO: Non avremmo mai immaginato tanta stima da parte di colleghi musicisti con i quali non ci vediamo mai o comunque in rare occasioni. Ci hanno onorati con l’esecuzione dei nostri brani… è stata una soddisfazione pazzesca, perché sentire i nostri brani riarrangiati in maniera sopraffina, e così sentita, è stata una soddisfazione grande e non finiremo mai di ringraziarli per questo sforzo nei nostri confronti. Tra l’altro ci siamo resi conto di quanta bravura ci sia in Sardegna, anche se in realtà abbiamo sempre saputo che rispetto al numero di abitanti l’Isola offre un panorama artistico notevole. Ma vederli così, tutti insieme, preparati, è stato davvero emozionante. 

ENZO: All’inizio avevamo pensato di coinvolgere tutti coloro che avevano fatto parte dei Bertas… questa era l’idea iniziale, però era molto complicato organizzarla, invece poi si è scelta questa strada. 

MARIO: Adesso vediamo cosa riusciamo a fare per i 60 anni! 

“Como cheria è una canzone che ha attraversato le generazioni della nostra Sardegna sfuggendo al controllo di chi l’ha scritta. E, maturando un percorso autonomo, brillando di luce propria, ha fatto sì che chi la conosceva conoscesse i Bertas, e viceversa.

È dunque la canzone alla quale dobbiamo una seconda giovinezza, questo è certo”. (Bertas)

“Como cheria” ha compiuto ventotto anni. È un brano che vi ha segnati, è la vostra canzone più popolare, dopo “Badde Lontana”.

Come è nata e perché dopo tanti anni resiste al tempo e alle generazioni?

ENZO: «Quando abbiamo registrato l’album “Amistade” dovevamo scegliere un brano che aprisse il disco, che poi è di solito quello che viene trasmesso in radio… seguendo un consiglio, avevamo scelto “Noranta”… ma alla fine è il pubblico che decide! Ci accorgevamo che “Como Cheria”  era il brano che andava di più, quello che eseguivano maggiormente durante le serate, nei piano bar, nei gruppi, nelle piazze… gran parte dei musicisti sardi lo usavano nel loro repertorio… così sono passati 28 anni e c’è stato sempre un crescendo, dal 1993. 

Como cheria s’oriente

E s’occidente cheria

Su minoreddu sezzidu in palas Pro nunziare sas alas

Arvures de menduleddas

Casu durche e salidas olias Como cheria

Andarisende umpare

Furfere e astore a su niu

Chi donzi Cristu lasset sa rughe Chi s’adduret s’istiu

Tancas de antunnas e binzas

Pane biancu e una ‘ucca sidida Como cheria

Fin’a siccare su mare e su riu

A los intendere colare intr’a mie

E una ‘oghe chi cantet lontanu

Como cheria

E una manu chi istringhet sa manu Como cheria.

(1993 – “Como Cheria”, di Franco Castia e Mario Chessa)

Secondo voi perché la gente è attirata da questo pezzo, che cosa ha in più rispetto ad altri vostri brani?

ENZO: Se lo sapessimo ne avremmo scritti altri venti! (ride n.d.r). Quando abbiamo suonato all’Anfiteatro romano di Cagliari per Emanuela Loi, avevamo fatto due o tre pezzi e questo era piaciuto tantissimo… lo ricordo particolarmente».

Raccontare la vostra storia è come “scavare in un pozzo senza fondo” e allora chiedo direttamente a voi di scegliere un aneddoto curioso o divertente della vostra lunga carriera che ricordate in particolare…

MARIO: «C’era la premiazione di una corsa di cavalli e a quel tempo i palchi non erano come quelli di adesso, ma c’erano i tavoloni che arrivavano dalla base fino al palco con dei gradini… a un certo punto chiamano il vincitore del primo premio e questo sale sul palco col cavallo! Era completamente sbronzo e non riuscivano a tenere il cavallo… farlo scendere dal palco insieme al cavallo è stato molto difficile!».

MARCO: «Un’altra volta ci siamo trovati in mezzo a due fazioni che si lanciavano delle arance… abbiamo continuato a suonare con queste arance che passavano da una parte all’altra del palco! 

MARIO CHESSA: Non erano per noi… ma insieme alle arance lanciavano anche le pietre! (ridono n.d.r.)». 

ENZO: «Ricordo che i nostri concerti (parliamo degli anni Settanta) duravano tre ore… erano tante, eseguivamo un repertorio vastissimo, a volte facevamo anche qualche pezzo in più… i comitati ci dicevano ogni volta che avremmo dovuto continuare a suonare. Ci dicevano: “No! Dovete continuare a suonare! Ci sono stati i Nomadi una settimana fa e loro hanno suonato cinque ore!” Noi pensavamo che non fosse vero… invece era proprio vero, che i Nomadi suonavano davvero per cinque ore, non li fermava nessuno! 

MARIO CHESSA: «Ricordo una delle prima serate che ho fatto sempre negli anni Settanta, in un paese vicino a Sassari… avevano esposto il vecchio manifesto, con la foto dei quattro componenti dei Bertas (precedenti al mio ingresso nel gruppo). A fianco, per un effetto grafico, come in uno specchio erano riflessi sempre gli stessi quattro componenti del gruppo. Alla fine del concerto non ci volevano pagare, perché i componenti erano quattro e invece nel manifesto eravamo in otto! Abbiamo dovuto insistere parecchio per far capire agli organizzatori che si trattava di un equivoco dovuto a un effetto grafico e che nel gruppo eravamo davvero in quattro! (ridono n.d.r.)».

Come vi siete avvicinati alla musica da bambini?

MARIO: «Quando avevo sei sette anni facevo degli spettacolini per altri bambini, cantavo… dai dodici anni in poi mi è nata questa passione. Non facevo altro che sfogliare un catalogo di una nota rivista di acquisti dell’epoca nella quale vendevano la fisarmonica… costava mille lire al mese e mamma non poteva comprarmi la fisarmonica. Dunque sono sempre stato fissato con la musica, però non avevo gli strumenti. Ho iniziato a suonare quando sono andato a lavorare con mio zio, che era il padre di Antonio Costa. Lì c’era la chitarra. Antonio Costa mi ha insegnato i primi accordi con la chitarra e io suonavo nelle pause… quando si è trattato di entrare nei Bertas, Antonio mi ha insegnato a suonare la tastiera».

ENZO: «Ricordo che a casa c’era un androne delle scale strepitoso… quindi io passavo le ore sulle scale cantando, perché impazzivo per l’eco… mia madre mi ascoltava e capiva che avevo una passione per la musica. Devo dire che ho avuto dei genitori fantastici, ma una cosa gli ho sempre rimproverato: mi hanno mandato a lezione di piano privatamente, io facevo le elementari e ho fatto lezioni di piano per tre anni, perché avevano capito che mi piaceva la musica. L’ho studiata dai cinque agli otto anni e ricordo ancora, a distanza di cinquant’anni, l’odore di quei pianoforti. Ogni tanto vado all’orfanotrofio e sento il profumo del pianoforte. Però secondo loro non stavo andando benissimo a scuola e quindi hanno smesso di farmi frequentare le lezioni di piano e questa cosa è stata devastante per me, perché avrei potuto e voluto continuare… e poi a quattordici anni in spiaggia ho iniziato a suonare la chitarra, osservando gli altri». 

MARCO: «Mia madre era amica del maestro Fiori, era un musicista noto, con Dino Puglia… era amica d’infanzia e mi parlava sempre di Fiori. Un giorno mi ha portato a vedere i BAT 66 e ho avuto la mia folgorazione: ho visto la chitarra elettrica azzurra metallizzata… avevo dieci anni. Già ascoltavo I Beatles e il loro pezzo Girl… cercavo di eseguire la melodia con una tavola e una lenza costruita da me. Alla fine mia madre, disperata, mi chiese cosa desiderassi per la quinta elementare. Ho chiesto una chitarra. Mia madre mi ha portato dal maestro Alberto Fiori che suonava la chitarra molto bene e finalmente ho potuto imparare… dagli inizi si capisce. Io ero il chitarrista del mio quartiere, tutti cantavano e io accompagnavo. Questo mi ha stimolato molto. C’è sempre un momento illuminante. Nel ’66 avere una chitarra elettrica era impensabile… ci ho messo tanto prima di averne una. 

FRANCO: «Loro hanno vissuto il beat e il pop, io sono un pochino più giovane. I miei zii compravano a Cagliari e a Sassari i dischi… quindi sono cresciuto ascoltando i Beatles. Poi, la mia vera folgorazione nella musica è stata ascoltare Fabrizio De André… poi ho conosciuto i Bertas… e certo non è stato un incontro come un altro».

“Cambia il mondo intorno a noi

Cambia il mondo

Cambia me

Cambia il mondo intorno a noi”

(2018 – “Cambia il mondo” di Franco Castia e Marco Piras)

Se vi fa piacere, potete leggere il mio articolo qui: https://www.bertas.it/category/press/

Articolo pubblicato il giorno 14 febbraio 2022 per la rivista Iod. È il frutto di una bella chiacchierata che ho avuto il piacere di avere con i Bertas nel gennaio 2022. Un lungo racconto per aneddoti, un’altra storia scritta che ho fissato nella mia agenda e nel mio recorder ma, soprattutto, nella memoria.

Questo testo non può essere riprodotto, in tutto o in parte, senza la citazione della fonte e l’autorizzazione dell’autrice.

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ENNIO C’era una volta la nostra colonna sonora

“Ennio: The Maestro” di Giuseppe Tornatore

Quella musica che ti costringe a guardare dentro te stesso

di Luciana Satta

Un tuffo nella memoria. Quello che siamo stati, quello che siamo e chi saremo poi…

È “C’era una volta in America”, il film diretto da Sergio Leone e interpretato da Robert De Niro, Elizabeth McGovern e James Woods. È il 1984. Scorrono le scene di David “Noodles” Aaronson, i suoi amici e le loro vicissitudini tra Manhattan e e New York. Non esiste al mondo qualcosa di simile a quella nostalgia. Perché quella musica evoca immagini.

Non importa se ancora non sei venuto al mondo, se tu sei del 1975 e quel film storico diretto da Sergio Leone è del 1964: quel fischio inconfondibile ti resterà addosso, sotto pelle. Basterà solo un accenno alla colonna sonora e “Per un pugno di dollari” entrerà prepotentemente nella tua testa, ti verrà a cercare, da lì al resto dei tuoi giorni non ti lascerà più. “Perché – diceva lui – La musica esige che prima si guardi dentro se stessi, poi che si esprima quanto elaborato nella partitura e nell’esecuzione”.

Morricone ti costringe a guardare dentro te stesso e il film di Tornatore ti scava dentro. Quando i titoli di coda scorrono davanti ai tuoi occhi, li vedi lì tutti insieme tutti i suoi figli: “Il buono, il brutto e il cattivo“, “Uccellacci e Uccellini” , “C’era una volta il West“, “Novecento“, “Gli Intoccabili“, “Nuovo Cinema Paradiso“… “Nuovo Cinema Paradiso“… “Love Theme,” il tema d’amore, la mente vaga. Ogni musica, ogni nota, ti riporta a un profumo, a un’estate, a un paesaggio sconfinato bruciato dal sole, all’eclissi di luna. È la magia del cinema, quando nel buio della sala quella commistione indissolubile di immagini e suoni ti rapisce e ti porta lontano.

Così Ennio Morricone entra nella tua vita e non la lascia più. Da Gianni Morandi a Bruce Springsteen, da Clint Eastwood a Carlo Verdone, a Quentin Tarantino. Tutti concordi nel riconoscere che Morricone sia stato un precursore, “l’inventore di una nuova forma espressiva”. Nessuno più di lui ha sfidato le convenzioni per conquistare a pieno la sua indipendenza artistica e umana. Non si è arreso di fronte a quel bivio che lo pose di fronte a quella che all’inizio era sembrata una scelta necessaria tra la purezza musicale, quella che il suo maestro Goffredo Petrassi ricercava negli allievi, e quella prepotente forza creativa così fuori dagli schemi per quell’epoca e vissuta quasi come un senso di colpa da Ennio. Ma non si possono voltare le spalle alla libertà. E il vero artista è libero.

Eppure l’America non fu generosa con lui, fino a quando nel 2007 è costretta finalmente a inchinarsi di fronte al genio. Così Ennio Morricone stringe forte finalmente ciò che tante volte aveva appena sfiorato ma che da tempo ormai lontano gli spettava. Arriva l’Oscar alla carriera.

Difficile che qualcuno non conosca la sua storia. Per questo bisogna andare al cinema a vedere “Ennio: The Maestro”. di Giuseppe Tornatore. Non è solo la biografia di una leggenda, del compositore, direttore d’orchestra e arrangiatore, di uno dei più grandi compositori per il cinema di tutti i tempi. È un po’ come la Divina Commedia di Dante. Ennio ha raccontato in musica la storia di tutti noi.

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LELLA COSTA

Parole che parlano di donne

L’attrice Lella Costa

di Luciana Satta

Non dimentica mai le ragioni per vivere, il tema dell’identità e della memoria, la solidarietà verso gli altri popoli e lo dimostra con il suo costante impegno civile a favore, soprattutto, di Emergency. Ma Lella Costa, una delle attrici più caratteristiche della scena teatrale italiana, amata dalla critica e dal pubblico per la sua intelligenza e ironia, non dimentica mai, soprattutto, i diritti delle donne, sia sul palcoscenico sia nella vita. «Io sono la mia storia, la mia formazione – spiega – e sono arrivata tardi a fare questo mestiere, perché prima ho fatto il liceo, l’università, la politica. Questo è il mio bagaglio, il mio vissuto, che mi porto addosso e a cui non rinuncerei mai».

Ma ha avuto difficoltà all’inizio della sua carriera?

Come tutti… io ho avuto la grande fortuna di capire che volevo fare il teatro e lo spettacolo dal vivo, tra l’altro facendo l’autrice, quindi non mi sono messa nella competizione schiacciante, divorante dei provini, non ho mai cercato scritture televisive e nemmeno cinematografiche. Per una donna è comunque più faticoso. Io lavoro dall’inizio della mia carriera con una piccola agenzia che è anche la mia casa di produzione, che è di donne, oltretutto, e abbiamo cominciato con un piccolo spettacolo e piano piano siamo andate avanti.

Questo penso sia molto femminile: la capacità di unire concretezza e positività.

Quindi lei pensa che esista la solidarietà tra donne?

La misoginia è una delle armi preferite della cultura occidentale, non vedo perché noi dobbiamo praticarla. È vero che siamo comunque in una situazione di inferiorità, perché dobbiamo conquistarci maggiore credibilità, è ovvio… sono le cosiddette guerre tra poveri… tra noi donne viene incitata la competizione, che spesso sfocia in rivalità, in aggressività. È chiaro che non ritengo che l’appartenenza al genere femminile in sé sia un valore assoluto, però io tendo comunque a privilegiare le donne come interlocutrici e, soprattutto, a trovare le attenuanti, perché credo che per le donne sia comunque più difficile…

In uno dei suoi spettacoli, “Alice una meraviglia di Paese”, ci racconta di una bambina che si sente a disagio, che ha la sensazione di essere sempre o troppo grande, o troppo piccola, o troppo grassa, o troppo magra… sensazioni e timori che ogni ragazza, ogni donna, ha provato nella propria vita.

“O troppo alta, o troppo bassa,
le dici magra, si sente grassa,
son tutte bionde, lei è corvina,
vanno le brune, diventa albina.
Troppo educata! piaccion volgari!
Troppo scosciata per le comari!
Sei troppo colta e preparata,
intelligente e qualificata,
il maschio è fragile, non lo umiliare,
se sei più brava non lo ostentare!
Sei solo bella ma non sai far niente,
guarda che oggi l’uomo è esigente,
l’aspetto fisico più non gli basta,
cita Alberoni e butta la pasta.
Troppi labbroni, non vanno più!
Troppo quel seno, buttalo giù!
Sbianca la pelle, che sia di luna
Se non ti abbronzi, non sei nessuna!
L’estate prossima, con il cotone
tornan di moda i fianchi a pallone,
ma per l’inverno, la moda detta,
ci voglion forme da scolaretta.
Piedi piccini, occhi cangianti,
seni minuscoli, anzi, giganti!
Alice assaggia, pilucca, tracanna,
prima è due metri poi è una spanna
Alice pensa, poi si arrabatta,
niente da fare, è sempre inadatta
Alice morde, rosicchia, divora,
ma non si arrende, ci prova ancora.
Alice piange, trangugia, digiuna,
è tutte noi,
è se stessa, è nessuna”.

(Tratto dal monologo “Alice una meraviglia di Paese”)

Secondo lei perché le donne vivono questo senso di inadeguatezza?

Lella Costa in “Alice una meraviglia di Paese”

Io penso che si sia marciato su questa ruolizzazione di genere così pesante, proprio per mantenere la stabilità dell’ordine sociale. Le donne vengono costrette a un ruolo che prevede un adeguamento a determinati canoni. Mi vengono in mente, ad esempio, le pubblicità dei detersivi, in cui viene data un’immagine della donna agghiacciante. Sembrano delle pazze, con le croste sui fornelli che bisogna pulire e i bucati che devono essere sempre più bianchi e, ancora, mi ricordo che un po’ di anni fa c’era un uomo che invitava la signora di turno a fare, addirittura, una gita dentro le tovaglie… noi donne dobbiamo liberarci di tutto questo, credo che l’ironia e l’autoironia siano armi indispensabili, però se la competizione deve essere fatta sul bucato più bianco, su come cucini, su come sei fisicamente, è chiaro che ti senti perennemente inadeguata. Però c’è qualcuno che su nostre potenziali insicurezze ci marcia…

Per quanto riguarda la politica… qual è la sua posizione in merito alle quote rosa?

Le quote rosa non mi piacciono pazzamente, però ho anche visto e verificato che se le quote rosa non ci sono le donne spariscono dalle liste elettorali, per cui non bastano, non garantiscono, ma se non altro sono un inizio. Credo anche che una delle cose gravi della politica sia quella di usare le donne come schermo, cioè c’è l’obbligo delle quote rosa, allora noi le mettiamo in lista ma poi non vengono sostenute e, oltretutto, facendo ricadere ancora una volta la colpa su di noi dicendo che le donne non votano le donne. Non puoi per secoli essere trattata come una minusapiens, che sa fare niente, che deve chiedere la delega maschile, perché gli uomini sanno, e poi pretendere che le donne abbiano fiducia nelle altre donne sebbene siano regolarmente sminuite, prese in giro e ridicolizzate.

 “Alice” è anche il nome di tante giovani donne che sono «nate quando i loro genitori pensavano che il mondo si potesse cambiare»… lei pensa che ci sia stato un cambiamento riguardo alla parità uomo-donna, o pensa che il cambiamento sia solo apparente?

No, il cambiamento non è apparente, ci sono in corso provvedimenti legislativi importanti. Sicuramente, però, la parità non è stata conquistata del tutto e, soprattutto, non la vedo garantita. Credo che ci siano sempre in atto nei momenti di crisi economica, in questo caso planetaria, dei tentativi di rimandare, di rinchiudere in casa le donne. I segnali sono tanti: c’è meno occupazione? Si mandano a casa le donne, indipendentemente dalle competenze. È spaventoso. Queste sono emergenze fondamentali per la società intera.  Sono assolutamente convinta che maggiori diritti e maggiori tutele per le donne siano maggiori diritti e maggiori tutele per tutti. Chi lavora in Paesi più svantaggiati, per esempio in tante zone dell’Africa, dice: “mandare a scuola un bambino significa educare un bambino, educare una bambina significa educare una comunità”… questa è una forza delle donne innegabile. Penso quindi che la parità non sia stata raggiunta, che ci sia un percorso in atto e che mai come in questo momento si debba vigilare perché venga proseguito.

(***Ho visto tante volte Lella Costa a teatro e mi ha sempre affascinato la sua abilità nell’arte della parola. Questa intervista mi fu da lei rilasciata nel 2008. La ripubblico perché le sue parole sono di un’attualità sconcertante e ogni sua risposta è un insegnamento. La scrissi per il giornale on-line donnenews e resta un bellissimo ricordo per me di un’esperienza giornalistica che mi ha dato tanto, soprattutto per tutto ciò che mi ha trasmesso l’allora direttrice della rivista, Rosanna Romano, amica e professionista che considero mia maestra. Le foto sono tratte dal web, purtroppo dopo tanti anni ho perso le mie, n.d.r.).

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La Comunità Mondo X di PADRE MORITTU

Una giornata a S’Aspru (Siligo).

di Luciana Satta

Dammi ragioni per vivere”: è la disperazione e la sfida che sale dal mondo delle dipendenze. Mondo X, l’associazione fondata da Padre Salvatore Morittu, nasce come iniziativa dei Frati Minori Francescani di Sardegna e accoglie in Comunità tossicodipendenti e malati di AIDS.

«Mi sono laureato in teologia a Firenze nel 1970 – racconta –  e poi i frati mi hanno mandato a studiare al Pontificio Istituto Biblico di Gerusalemme. Rientrato in Italia, mi sono laureato in Psicologia all’Università statale La Sapienza di Roma. Dopo questa esperienza, nel 1978, sono ritornato in Sardegna e ho insegnato Psicologia all’Istituto Magistrale. Proprio in quell’anno il mio confratello francescano padre Eligio Gelmini, il fondatore di Mondo X, aveva incontrato tutti i responsabili nazionali dei frati per illustrare loro la nuova situazione. Disse: “Noi siamo di fronte alla più grande rivoluzione che possa essere mai avvenuta, quella della droga”. Non voleva che i frati perdessero il treno della storia, loro che vivono per i poveri, per gli emarginati, per coloro che fanno fatica a vivere. Ha sollecitato tutti responsabili nazionali a realizzare in ogni loro regione una Comunità con uno o due frati con la vocazione verso questo settore. Paradossalmente la prima che ha risposto è stata la Sardegna». Padre Morittu racconta così l’inizio della sua lunga storia, un percorso di formazione all’inizio travagliato, ma molto significativo. «C’era un responsabile illuminato, padre Dario Pili, il quale mi ha coinvolto. Io trovavo il percorso interessante, ma riconoscevo anche la mia inadeguatezza a lavorare in questo settore, per me del tutto nuovo. Padre Dario mi ha mandato prima in visita e poi a vivere per due mesi in una delle Comunità di padre Eligio, vicino a Milano. Lui è stato molto bravo, perché mi ha messo dentro la struttura come se fossi tossicodipendente, non mi ha fatto sconti rispetto al modo di vivere in Comunità. Dopodiché insieme al responsabile ritennero che ci fossero le condizioni per avviare anche una Comunità in Sardegna. Così è successo, il 26 gennaio 1980».

Il video dell’incontro con padre Morittu e Fra Stefano

«Hanno messo a disposizione – prosegue padre Morittu – il convento di San Mauro, a Cagliari, dotato di un grande orto anche se si trovava in città. Mi aiutavano due ex tossicodipendenti che padre Eligio aveva mandato dalla Lombardia e una suora, con esperienza in una Comunità in Lombardia. Poi sono arrivati i volontari. L’arrivo dei tossicodipendenti, che allora erano soprattutto eroinomani, avvenne subito dopo l’inaugurazione. Nessuno pensava – continua – che per uscire fuori dall’eroina bisognasse fare una vita quasi “monastica”, tra formazione e lavoro, regole e disciplina. All’inizio venivano e andavano via. Poi tutto ha iniziato a funzionare e si è formato un gruppo. Dopo due anni non ci stavamo più. Ho chiesto al vescovo di Sassari una grande casa abbandonata in campagna con dodici ettari di terreno e lui me l’ha data in uso, a Siligo, vicino a Sassari, in località S’Aspru. All’inizio la convivenza era difficile. Dopo un rodaggio di cinque mesi, tutto è andato molto bene. Lì, in quel contesto agropastorale, che io desideravo per la capacità terapeutica, la Comunità si è allargata. Siamo andati avanti affinando sempre più il nostro metodo». «Sono partito – spiega ancora – con il metodo di Mondo X di padre Eligio applicato nella Penisola ma, dopo un paio di anni, ho iniziato con una modalità di interagire tipica di noi sardi, che abbiamo maggiore sensibilità per gli aspetti affettivi, piuttosto che per quelli disciplinari.

Ma c’è una storia particolare di salvezza che Padre Morittu ricorda con affetto: «Un giudice mi aveva particolarmente sollecitato a prendere un minorenne tossicodipendente. Ho accondisceso alla proposta e mi sono fatto carico di questo minore nella comunità di Cagliari. Allora i giovani venivano spesso in Comunità in crisi di astinenza, dunque la prima settimana era la più difficile e io dormivo con loro in una camera a due letti. Questo ragazzo era, appunto, in crisi di astinenza, per cui la notte ho dormito in stanza con lui, ma poi mi sono addormentato. Mi sono svegliato e lui era andato via. Sono uscito a cercarlo ma non l’ho trovato. Le  volontarie sono riuscite invece a riportarlo nella struttura. Quando l’ho visto di fronte a me gli ho dato uno schiaffo. Ho alzato il dito e ho detto: “Ricordati che io sono tuo padre”. Questo ragazzo ha avuto un cedimento, come se fosse venuta meno quasi tutta la sua energia. In quel momento ho realizzato: mi sono ricordato che lui era orfano. Questo è stato proprio il mio battesimo nella paternità. Questo ragazzo poi ha continuato il suo percorso, ha superato la crisi di astinenza. Poi è diventato anche un bravo artigiano della pelle». 

Per quanto riguarda la diffusione della droga, secondo padre Morittu il fenomeno è  peggiorato negli ultimi anni, tra silenzio e indifferenza. «Ci sono famiglie che vivono dagli introiti della droga – dice –.  Inoltre si registra un peggioramento anche dal punto di vista delle sostanze, con una grande presenza di eroina, in aumento, il picco della cocaina, le droghe di sintesi come l’Ecstasy. Per non dimenticare la piaga dell’alcolismo giovanile e femminile e delle dipendenze senza sostanza, come la ludopatia. In Sardegna ad aggravare questo quadro – aggiunge – abbiamo le doppie diagnosi, ovvero la concomitanza tra dipendenza dalle sostanze o dipendenze comportamentali e i disturbi della personalità. Inoltre abbiamo il grave problema dei minori che non sanno ciò che consumano, non sanno ciò che spacciano e inoltre vogliono attribuirsi la riscossione dei soldi».

Su un altro tema importante, la diffusione dell’HIV, padre Morittu è chiaro: «Il fatto che esista la cura e che di questa malattia si muoia sempre meno, riduce la percezione di questo grave problema. Un elemento di rischio sono i rapporti sessuali precoci tra adolescenti. Molti di loro, solo se un giorno faranno l’esame all’HIV scopriranno di essere siero positivi. Questo è il rischio che si corre. Siamo veramente preoccupati di questa coltre di silenzio che c’è intorno all’AIDS». 

(n.d.r. *Articolo pubblicato nel 2019 sul settimanale “Libertà”, direttore Antonio Meloni.

Le foto e il video risalgono invece alla recente e intensa visita nella Comunità Mondo X, a S’Aspru (Siligo), il 10 dicembre 2021, esperienza che in qualità di docente di Lettere ho avuto l’onore e il piacere di fare con la mia classe 3 V dell’Istituto Agrario Pellegrini di Sassari.

Grazie di cuore a padre Salvatore Morittu, a Fra Stefano, ai loro ragazzi per l’accoglienza speciale e per avere condiviso le loro esperienze di vita, trasmettendo ai “miei ragazzi” tutto quello che non si può insegnare neanche attraverso mille lezioni!

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PAOLO ISONI

L’eleganza è “l’essenza di ogni donna che rimane eterna”

di Luciana Satta

Per lui non è importante l’abito ma la personalità della donna che lo indossa. Perché “senza l’unicità della donna l’abito sarebbe solo un pezzo di stoffa”.

Il granito, il mare, il cielo, la natura selvaggia delle Isole, la Sardegna e la Sicilia. I sogni, “che ti permettono di vivere la vita in maniera più divertente e anche più leggera, ma che hanno bisogno di un nutrimento quotidiano e di tanta disciplina”. Questo esprimono gli abiti di Paolo Isoni. Come la sua ultima collezione Isoni: Ên bateaû.

Un amore per lo stile che lo ha portato dal suo paese d’origine, Monti, prima a  Londra, poi a Porto Rotondo e a Milano, a vestire le dive del jet set internazionale.

Paolo Isoni (intervista di Luciana Satta, anno 2017)

Tu dici: “L’eleganza, a differenza della moda, è eterna”. Non fai vestiti alla moda ma vuoi vestire le donne. Cosa significa?
L’eleganza è qualcosa che non muore, è l’essenza di ogni donna che rimane eterna. Mi vengono in mente donne che per la loro eleganza e il loro glamour sono rimaste immortali, come Jackie Kennedy o Grace Kelly. Non hanno mai seguito la moda, ma la moda l’hanno fatta. La loro eleganza ha prevalso sull’abito. Sono immortali ed eterne, esempi di grande classe.

L’attrice Lunetta Savino indossa Paolo Isoni (foto gentilmente concessa dallo stilista)

La Sardegna è la tua grande ispirazione. Le tue stampe, i tuoi colori, la raccontano. In che modo il carattere della donna sarda vive nelle tue collezioni? 
Sicuramente per la forza. Quello che mi piace trasporre nella mia moda, nei miei vestiti, è proprio il carattere e la forza della Sardegna e di queste donne che hanno sempre realizzato grandi cose, basti pensare a Grazia Deledda. Donne che hanno scelto di fare ciò che era la loro passione, i loro sogni, e di portarli a conoscenza nel mondo.

Una di queste donne che esprimeva forza era una tua grandissima amica, Marta Marzotto… 
Avevo quattordici anni e vivevo a Monti. Un giorno, sfogliando un giornale, ho visto l’immagine di questa donna meravigliosa con i suoi caftani, coloratissimi. Quando a diciassette anni sono arrivato a Porto Rotondo e si è creata l’occasione, l’ho conosciuta e da quel momento non ci siamo mai lasciati, lei non mi ha mai lasciato. Mi ha insegnato tantissime cose. Lei rappresenta il mio ideale di donna, perché era una donna libera, una donna intelligente e una donna che per le sue passioni ha anche perso molto nella vita, ma ha vissuto esattamente come lei desiderava. Era una che, ad esempio, a 85 anni aveva la curiosità di un bambino. Ogni qual volta scopriva qualcosa di nuovo traeva una vitalità incredibile.

Un’altra donna che frequenta il tuo atelier, un’altra tua amica, è l’attrice Chiara Francini. Come l’hai conosciuta?
Ci siamo conosciuti due anni fa. Da quel momento ho iniziato a vestirla in vari eventi: l’inverno scorso, quando ha fatto da madrina al festival di Torino e a Tavolara, dove lei era madrina. È anche lei una donna indipendente, intelligentissima, molto ironica e una grande lavoratrice.

Chiara Francini nell’ultimo film vestita da Paolo Isoni (foto gentilmente concesse dallo stilista)

L’ironia è una caratteristica fondamentale della donna Isoni?
Sono chi è molto intelligente è anche molto ironico. Marta lo è stata e credo lo sarà per sempre. Marta è una donna che rappresenta un ideale che non muore con la sua assenza fisica.

L’atelier di Isoni a Porto Rotondo (Sardegna) ph. Luciana Satta
(In vetrina una delle collezioni del passato)
Io con Paolo Isoni, in atelier, in occasione dell’inaugurazione della collezione primavera estate (anno 2017)

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Le note di ROBERTO PIANA

Alla conquista del mondo

Roberto Piana. Le mani e il pianoforte. Ph. Giulio Bottini

di Luciana Satta

Sarà inaugurato a breve un imponente ciclo di pubblicazioni sulle maggiori piattaforme digitali del mondo con tutte le registrazioni inedite del pianista e compositore Roberto Piana. Si tratta “Piano Rarities”, una vasta raccolta (oltre cinque ore di musica) di rarità pianistiche e prime assolute del repertorio musicale, che va dal Barocco ai giorni nostri, alcune delle quali in prima registrazione mondiale. Il contenuto, proveniente dal personale archivio di Piana, è di notevole importanza e prevede numerose perle del musicista. Il progetto sarà curato dal Centro Studi Saser – Centro Studi Cultura Sarda, di cui Roberto Piana è direttore artistico. Intanto è stata rinviata (per via della pandemia e in data da definire) la prima americana della suite “Ritratti di Sardegna” del pianista, performance che si sarebbe dovuta tenere il primo ottobre nel celebre Teatro Carnegie Hall di New-York.

Roberto Piana. Ph. Andrea Angeli

Piana, autore di musica pianistica, vocale, da camera, corale e sinfonica, è comunque reduce da un lungo periodo di concerti di successo e di riconoscimenti prestigiosi, come la pubblicazione, a settembre, del cd “Trio for Tango” (casa discografica Luna Rossa Classic), che contiene la trascrizione di Roberto Piana del celebre “Oblivion” di Astor Piazzolla.

Interprete di questo lavoro il Parsifal Piano Trio. Di Piana anche le note di copertina. Ancora, nel mese di settembre è stata pubblicata dalla celebre casa discografica major olandese Brilliant Classics la suite “Ritratti di Sardegna”, interpretata dal chitarrista Cristiano Porqueddu, e la suite Contos de foghile, con Francesca Apeddu al flauto e Maria Luciani alla chitarra. Al 76th Duszniki International Chopin Piano Festival, a Duszniki-Zdrój (in Polonia), si è tenuta la prima esecuzione mondiale degli “Sguardi sulla Divina Commedia” di Roberto Piana, eseguita dal pianista Antonio Pompa-Baldi, mentre a Sofia (in Bulgaria) nella sede dell’Ambasciata Italiana si è svolto a giugno il concerto per i festeggiamenti della festa della Repubblica Italiana. Per l’occasione sono stati eseguiti i “Preludi pittorici” di Piana, che hanno visto l’interpretazione del pianista Alessandro Vena.

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COSTANTINO NIVOLA

Storia di un artista Oltreoceano

Dall’America a Orani, andata e ritorno

Museo Nivola, Orani ph. Luciana Satta

di Luciana Satta

“Scultore-costruttore, erede dei suoi lontani progenitori costruttori di nuraghi, e fedele alla vocazione trasmessagli dal padre-muratore”. Quando si parla di Costantino Nivola (Orani, 1911 – Long Island, 1988), l’immagine che viene subito in mente è quella delle straordinarie sculture e dei monumenti pubblici da lui realizzati. Ma, sebbene l’artista oranese non amasse identificarsi nel ruolo di illustratore, non si può dimenticare la sua imponente attività grafica. A questo aspetto è stata anche dedicata la mostra “Seguo la traccia nera e sottile – I disegni di Costantino Nivola”, allestita al Palazzo della Frumentaria di Sassari nel 2011 e curata da Giuliana Altea. Un allestimento che ha messo in luce questo aspetto inedito della produzione di Nivola. Un percorso tra le sue opere meno note, un itinerario attraverso 115 lavori grafici compresi tra il 1941 e il 1980, a partire dagli autoritratti (Autoritratto della solitudine, tempera su carta, 1944, e Autoritratto “Ritz”, 1944-45, tempera su carta incollata su cartone).

Nivola, arrivato dunque in America come esule antifascista, si dedica al lavoro di illustratore e grafico, a cui affianca il disegno. Resta traccia del frutto del suo lavoro di illustratore nelle riviste “Interiors”, “You”, “The New Pencil Points”, “Harper’s Bazaar”, “Forune” e “American Cookery”.

In America Nivola entra in contatto con tanti artisti e architetti europei emigrati anch’essi per sfuggire al Nazismo. E così inizia a mettere in dubbio il proprio valore creativo. Ma l’incontro con Le Corbusier è determinante e il dubbio lascia il posto alle certezze.

Del suo viaggio in Italia – in cui torna nel 1947 con l’intento di trasferirsi a Milano – ma la situazione del Paese appena uscito dalla guerra lo convince a tornare negli Stati Uniti – resta la serie di disegni pubblicati da “Interiors” (1947) e Harper’s Bazaar (1948). La nostalgia di Nivola per la Sardegna emerge invece nella serie di disegni che illustrano il progetto del Paese-pergolato, pensato per il suo paese natale, Orani.

Come dimenticare poi gli splendidi arazzi di lana, realizzati nei centri di arte tessile di Sarule e di Samugheo. Figure geometriche e tecniche della tradizione sarda si incontrano.

Gli arazzi e le sculture. Museo Nivola, Orani
ph. Luciana Satta

Il Museo Nivola, a Orani, è un percorso bellissimo attraverso oltre duecento opere, tra sculture e dipinti. È conserva la più imponente collezione al mondo delle opere di Costantino Nivola. Ruth Guggenheim, vedova dell’artista, ha scelto prevalentemente l’opera scultorea e statuaria, caratteristica della fase finale – con la serie delle Madri e delle Vedove.

Nel 1954 Nivola inaugura la sua carriera di scultore per l’architettura: è chiamato alla decorazione dello showroom Olivetti, aperto al centro di New York, nella Fifth Avenue. Dal 1936 al 1938 l’artista lavora a Milano come grafico pubblicitario all’Olivetti

Campagna pubblicitaria per Olivetti. Museo Nivola, Orani.
ph. Luciana Satta

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ELIO PULLI

C’è un luogo magico a Tramariglio: la casa del maestro Elio Pulli

di Luciana Satta

Tramariglio è un luogo magico immerso nella macchia mediterranea, a pochi chilometri da Alghero, nel cuore della baia di Porto Conte. Un giorno ho chiuso gli occhi e ho intrapreso un viaggio in un altrove bellissimo. Ho scoperto che dalla mimosa nasce il giallo, dalle foglie il verde, dalla melagrana il rosso. Un viaggio affascinante tra i colori della terra che il maestro Elio Pulli sa trasformare in opere d’arte. Ho aperto gli occhi ed era tutto vero e mi è sembrata incredibile quella cura per il particolare, quell’attenzione per il dettaglio.

Sculture, dipinti, vasi e grandi piatti, dai “colori fastosi e bagliori di lustri, iridescenze di metalli preziosi. Oggetti originati dall’incontro di alto artigianato e fervore creativo, virtuosismo tecnico e poetica dello stupore”. Così Simona Campus, storica dell’arte, ha saputo descrivere quelle meraviglie.

Lo spazio espositivo di Elio Pulli, a Tramariglio
ph. Luciana Satta

Al centro dell’ispirazione di Elio Pulli, la Sardegna e il Mediterraneo, con i loro cromatismi accesi e caldi, i colori della terra, i rossi e gli ori lucenti, i bianchi della spuma del mare e delle rocce calcaree. Sono lavori frutto di una complessa tecnica detta “a terzo fuoco”, basata su una cottura delle opere che rende i toni più intensi. La Mantide, il Cinghiale, il Falco, il Folle, il Cavaliere, la splendida serie di “Teste di donna”, sono tutte terraglie dipinte sottovernice e lustro a terzo fuoco, creature plasmate in quello che è il rifugio creativo di Pulli, la sua abitazione a Tramariglio, nella baia di Porto Conte, spazio in parte atelier e in parte laboratorio circondato dalla bellezza della natura, luogo da cui il maestro trae ispirazione. Nel laboratorio d’arte del Maestro tanti incontri, come quello avvenuto nel 2015 con Miyayama Hiroaki, uno dei più grandi artisti giapponesi contemporanei.

L’arte: una compagna inseparabile per il Maestro. Un amore per la cultura ereditato certamente da suo nonno Giuseppe, maestro elementare, poeta appassionato di arte, di musica, di letteratura. Una passione trasmessa sicuramente dal padre Giovanni, artista e allievo dello scultore Guacci, da cui ricevette un incarico che lo portò a trasferirsi da Roma a Sassari, dove aprì la sua bottega.

Così Elio, che quell’amore per l’arte lo aveva respirato in famiglia, a soli diciotto anni conquista il Premio Michetti a Francavilla a Mare. Da qui al successo il passo è breve: arriva Premio Marzotto e, nel 1959, il Premio Cinisello Balsamo. Nel 1955 a Roma, nella galleria del critico d’arte Giuseppe Sciortino, un dipinto di Elio Pulli viene esposta insieme ai lavori di Guttuso e De Chirico.

L’Isola è una costante, presente nelle ceramiche, dai vasi ai piatti, ma anche nelle tele, dalla famosissima “Barca da pesca all’ormeggio di Porto Torres” (2010), alle varie “Nature morte”, fino alla rappresentazione della città di “Periferia di Sassari dopo la nevicata”. Opere che si sono affermate nel panorama dell’arte isolana, nazionale e internazionale, per l’assoluta originalità che le contraddistingue. Opere che sono state esposte anche al Vittoriano di Roma. Un riconoscimento importante, nato dal successo straordinario della mostra “Elio Pulli, ceramica” al Palazzo della Frumentaria di Sassari, nel 2011.

Oggi, 15 novembre 2021, in occasione dell’inaugurazione del 460esimo Anno Accademico dell’Università degli Studi di Sassari, Elio Pulli è stato insignito della Laurea honoris causa, alla presenza del Magnifico Rettore, Gavino Mariotti, della presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, del presidente della Regione Sardegna, Christian Solinas. Pulli ha tenuto una lectio doctoralis dal titolo: “L’arte e le difficoltà nel tempo”. A seguire la laudatio del critico d’arte Vittorio Sgarbi.

Anno 2008, con il Maestro Elio Pulli nello spazio espositivo di Tramariglio.
Il mio articolo per Il Messaggero Sardo sulla Mostra alla Frumentaria, a Sassari. Anno 2011.

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C’era una volta…

La via della seta nel quartiere Castello

(Francesca Sanna Sulis e Sorelle Piredda)

Un celebre abito firmato da Sorelle Piredda e indossato negli anni Novanta dall’attrice Caterina Murino

di Luciana Satta

Quartiere Castello, Via Lamarmora 61. Siamo a Cagliari. “Qui visse donna Francesca Sanna Sulis, imprenditrice, stilista, educatrice”, si legge sulla targa a lei dedicata. È il 2010. L’occasione è il bicentenario dalla morte della “signora dei gelsi” (1761-1810). Antesignana dell’imprenditoria femminile sarda, seppe portare in alto il Made in Italy. Vestì dame e principesse di casa Savoia. Tante nobildonne europee furono sue clienti affezionate. Tra loro spicca il nome di Caterina di Russia. Proprio a due passi dall’insegna in memoria di donna Francesca, nello storico palazzo Fois di fronte alla torre dell’Elefante, le Sorelle Piredda hanno trasferito nel 2009 la loro casa di moda. Il passato e il presente hanno convissuto per tanti anni nel cuore della città, testimoni della passione per l’arte, per i tessuti preziosi, dell’amore per la Sardegna.

Lo scialle, uno dei capi distintivi “Sorelle Piredda”

Due mondi paralleli che hanno dato lustro alla nostra cultura nel mondo, tra tradizione e innovazione. Il ricordo di donna Francesca non si spegne. Resta vivo nelle pagine della monografia del giornalista Lucio Spiga, al quale va il merito di avere avviato un percorso di documentazione e di riscoperta di questa donna straordinaria. Resta vivo a Muravera, suo paese natale, a Settimo San Pietro, a Quartucciu, a Quartu Sant’Elena, in Lombardia e, naturalmente, a Cagliari. Fu lei a creare una scuola che formò centinaia di giovani tessitrici sarde e fece della qualità la sua bandiera, tanto che i commercianti comaschi e lombardi richiedevano la sua seta. Ma negli anni sono stati tanti anche gli attestati di stima che hanno fatto delle “Sorelle Piredda” un marchio riconosciuto in tutto il mondo. Un’azienda, quella delle Piredda, nata trent’anni fa e che ha saputo rinnovarsi nel tempo. Dagli esordi degli anni Settanta, il passo verso il successo è breve.

Dalla famosa kermesse che dal 1996 al 2004 ha avuto come scenario la scalinata barocca di Bonaria, a Cagliari, al premio “Golden Curl” alla carriera (consegnato loro nel 2006 dall’associazione degli italiani in Canada). Tra gli estimatori illustri spicca il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. E ancora, “per aver saputo interpretare con stile e passione l’arte dell’abito e dell’eleganza partendo dai linguaggi della sartoria artigianale sarda” arriva nel 2009 la cittadinanza onoraria del comune di Sorradile, mentre nel 2011, le Piredda realizzano un simbolico abito tricolore per la Celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, che viene esposto per mesi a Cagliari, nel “Palazzo di Città”. Indimenticabile la rassegna “Oltre il Mediterraneo” a Vienna, dove lo splendido scenario del castello di Schönbrunn, un tempo la residenza estiva della principessa Sissi, si trasforma in passerella e le Piredda portano in Austria «tutta l’energia, la tradizione e la creatività della nostra Isola». Dagli scialli di seta ricamati, da sempre loro tratto distintivo, apprezzati persino dalla duchessa di Kent e dall’imperatrice del Giappone, hanno introdotto di recente tra le loro nuove creazioni gli accessori di sughero finemente lavorato. E poi, parte preziosa delle collezioni sono gli abiti.

L’esterno dell’Atelier delle Sorelle Piredda. Un tempo nel quartiere Castello, a Cagliari

Da donna e da uomo, creati su misura, elegantissimi, ricamati con fili d’argento e d’oro. Il velista Andrea Mura ha scelto di indossarne uno per la Route du Rhum, regata velica transatlantica in solitario che si svolge ogni quattro anni. I prossimi 10 e l’11 maggio l’atelier a Palazzo Fois sarà aperto al pubblico per Monumenti aperti. «Le nostre madri uscivano poco da casa dove erano le padrone assolute le “mater familias”. Loro avevano cielo e monti, mare e sogni, noi mani e fili, con i quali ricordiamo antichi racconti e disegniamo nuovi sogni». Così il giornalista sardo Puccio Lai descriveva queste donne di Sardegna, il loro orgoglio, la nostra storia.

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Dany&Dany

Fumettiste internazionali con l’Isola nel cuore

di Luciana Satta

Si sono conosciute alla fine degli anni Novanta, ma la passione per il fumetto le accompagna da sempre. Daniela Serri e Daniela Orrù, in arte Dany&Dany, sono due autrici e disegnatrici cagliaritane. Con la loro saga a fumetti Dàimones, urban fantasy a tema vampirico con atmosfere gotiche (pubblicato in digitale e a breve in cartaceo nel primo volume della serie), si sono fatte conoscere oltre i confini nazionali, in Europa e negli Stati Uniti. Ma le origini sarde sono ben presenti nei loro lavori…

«Delle nostre radici non potremmo liberarci neanche se volessimo, a partire dalla testardaggine, che per tradizione contraddistingue il popolo sardo. Se non fossimo state così caparbie nell’inseguire il nostro sogno ci saremmo arrese molti anni fa alle prime delusioni. Ma è con il nostro progetto, la serie a fumetti Dàimones, che abbiamo scelto di inserire nella trama piccoli rimandi alle suggestioni più arcaiche della storia della Sardegna riferibili al Neolitico e al Nuragico. Spicca su tutti il culto della Dea madre, che abbiamo immaginato fosse adorata dai nostri vampiri. Per quanto riguarda l’aspetto iconografico, abbiamo scelto le raffigurazioni più affascinanti della Dea madre, quindi quella di Porto Ferro e di Senorbì».

Come rappresentate le eroine dei vostri fumetti?

«In Dàimones abbiamo delineato i personaggi femminili che più amiamo. Le vampire Iulia, che attraverso gli esperimenti sugli esseri umani crea la progenie dei Dàimones, Sophia, a capo di un movimento di studiosi, Elsa, partner del protagonista, esprimono un carattere forte, sono indipendenti e giocano un ruolo chiave nelle vicende. Di sicuro gli esempi femminili che abbiamo avuto nella nostra famiglia ci hanno segnate. C’è inoltre una volontà di riscatto nell’idea di creare un personaggio femminile solido, che contrasti lo stereotipo letterario e cinematografico della donna che ha bisogno di essere difesa, anche se c’è già una controtendenza, nella quale ci ritroviamo perfettamente.

I luoghi di una Sardegna preistorico nuragica fanno da sfondo a Iskìda della terra di Nurak, saga fantasy scritta dall’autore Andrea Atzori e da voi illustrata…

Nel romanzo la storia attraversa tutti i luoghi della Sardegna. È  una terra fantasy e non si parla esplicitamente dell’Isola, ma se sei sardo quei luoghi li riconosci. Per quanto riguarda invece le nostre tavole di illustrazione, si riconosce vagamente la natura mediterranea. Crediamo che l’armonia con i romanzi e con l’autore si rifletta anche nelle tavole.

In che modo collaborate?

Nel nostro caso non c’è una divisione di ruoli ma una compartecipazione, abbiamo creato un “incastro” sui generis nel mondo del fumetto. Anche la nostra firma d’autore Dany&Dany riflette questa scelta. Oltre a condividere lo stesso nome, scriviamo insieme la storia, la sceneggiatura e disegniamo le tavole… nessuna di noi si priva del progetto creativo. Anche il nostro logo (due “D” maiuscole che formano la metà di un cuore) è una scelta grafica che sottintende che quando scriviamo siamo un’unica entità. È necessario un grande feeling. Lavorando insieme ci siamo anche armonizzate ulteriormente, ormai siamo una squadra».

Sono passati quasi cinque anni dal mio incontro con le fumettiste Dany&Dany. I loro meravigliosi disegni continuano a farci sognare e a trasportarci in un mondo fantastico. Ora ci attendono con nuovi progetti e la nuova illustrazione per la novella “Give me wings to fly“, di Laura Costantini. In uscita prima di Natale. Ecco a voi un’anteprima!

KL, frontman dei KLandtheVictorians di Dany&Dany,
protagonista della novella “Give me to fly” di Laura Costantini

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“Il Club dei centenari”

E I SEGRETI DI LUNGA VITA DELL’OGLIASTRA

di Luciana Satta

I volti segnati dalla vita si alternano alle immagini della natura, mentre il novantunenne di Baunei Pietro Cabras canta Sa canthone de is bagadias (“La canzone delle nubili”). Poi la voce si disperde nell’eco e diventa vento che soffia forte. È il ritmo dei protagonisti del documentario “Il Club dei centenari”, che racconta le vite dei centenari ogliastrini. Ci sono anche le donne sarde, portatrici di un’eleganza e di valori che ormai si sono persi.

«È  un mondo rarefatto  – spiega il regista Pietro Mereu, autore del docufilm “Il Club dei centenari”, prodotto da Ilex production grazie al comune di Lanusei, alla provincia dell’Ogliastra e alla Regione Sardegna. Ho voluto raccontare la bellezza della testimonianza dei centenari e delle centenarie utilizzando inquadrature particolarmente curate e un ritmo molto lento».

Perdasdefogu, Villagrande, Arzana, Talana, Urzulei, Villanova e Baunei conservano il segreto della longevità. Un segreto studiato da anni dagli scienziati, che ne hanno ricercato le ragioni nella genetica, nel cibo, nell’ambiente, nello stile di vita degli ogliastrini. Il docente dell’Università di Sassari Gianni Pes ha iniziato a studiare le cosiddette “zone blu” nel 1995. «Abbiamo creato delle mappe geografiche che dimostrano in maniera inequivocabile che la concentrazione dei centenari in questi comuni è superiore non solo ai valori medi europei ma addirittura a livello mondiale», spiega lo studioso.

Resta impressa la scena del documentario che vede protagoniste le centenarie Caterina Murru e Rosa Secci di Urzulei, riprese mentre bevono il caffè e scherzano.«È stato molto difficile entrare in empatia con loro – racconta il regista –.  Erano circondate da molte persone e vedevano i corpi esterni delle telecamere… avevano molto pudore… per fare sì che si esprimessero liberamente ci siamo dovuti allontanare dalla stanza». O ancora, la signora Francesca Manca (106 anni) diventa preziosa memoria storica quando ricorda l’assedio di Arzana. Era il 1926: stavano cercando Samuele Stochino, uno tra i più celebri banditi sardi.«L’anno dell’assedio – ricorda la centenaria –  eravamo rimasti chiusi tre giorni in casa. Non potevamo neanche andare a prendere l’acqua alla fontana. Poi, dopo tre giorni, ci hanno dato il permesso, ma avevamo sempre un carabiniere che ci scortava. Io andavo con Cecilia Fara che disse, sputando per terra “Siate Maledetti! Andate alla forca!” (ride ndr).

Anche la testimonianza di Gesuina Fronteddu, di Talana, è un documento prezioso per capire la vita semplice di un tempo.«L’acqua la portavamo con una brocca, al nostro rientro dalla campagna con una tinozza grande… poi in cammino filavamo e facevamo la bertula (bisaccia tipica dei pastori) di lana di capra… quindi camminavamo e filavamo in gruppo, ma se capitava si poteva andare anche da sole perché non c’erano pericoli. Si andava sempre alla stessa ora e in gruppo, per la campagna… chiacchiera, chiacchiera».

«Non sono ricchi, ma sono felici, perché hanno famiglie molto unite – conclude il regista – .  Nella casa di un centenario devi entrare in punta di piedi, sono persone delicate. Per le famiglie sono come dei gioielli da tutelare. Dovremmo cercare di preservare le zone blu,  sono una risorsa e un esempio….. sono portatori di valori che ormai si stanno perdendo… Questa è la bellezza della loro semplicità».

(Alcuni di loro non ci sono più, ma li voglio ricordare pubblicando questo mio articolo. Grazie al regista Pietro Mereu che ce li ha fatti conoscere attraverso il suo bellissimo docufilm “Il club dei centenari n.d.r.)

(*Anno 2017)

La locandina dell’evento “Ogliastra, Isola della Longevità, 2 dicembre – Milano

 

L’invito – 2 dicembre ore 18, Milano Scalo Lambrate
Ogliastra Isola della Longevità

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